giovedì 21 novembre 2013

Sardegna, lo sappiamo: non cambierà nulla


Dopo l'ultima devastazione, quella che ha colpito la Sardegna, sento il bisogno di pensare scorrettamente. Per capire. Nell'Italia del Vajont, l'acqua delle dighe, dei torrenti, del mare continua a distruggere e ad uccidere. E, al solito, le parti sono assegnate. Qualcuno dirà dell'imponderabile e dell'incontrollabile forza della natura. Qualcuno parlerà del riscaldamento climatico che spiega il trend di incremento dei disastri: dall'Illinois alle Filippine, alla Sardegna. Per non aver dato l'allarme o averlo dato con scarsa forza, qualcuno accuserà la protezione civile. Altri la Regione o i Comuni. Qualcuno griderà allo sciacallaggio: non si strumentalizzi, oggi cordoglio e lavoro per riparare, dopo si vedrà, etc. Qualcuno inevitabilmente chiederà: non costerebbe meno prevenire? E' questo che voglio capire. Quanto costerebbe prevenire. Non sono convinto che costerebbe meno. Se ciò fosse vero delle tre l'una. O siamo tutti impazziti. O qualcosa – la politica – ha interessi propri diversi da quelli dei citadini. O infine tutti “ragionevolmente” accettiamo il rischio del disastro per non pagare costi maggiori. Escludiamo la pazzia. Ridurre le emissioni che riscaldano i mari? Non si può. Bisognerebbe rinunciare a troppe cose. Ed occorrerrebbe un patto mondiale verso l'austerità giacché una ipotetica singola nazione, ecologicamente virtuosa, nell'agone della competizione globale sarebbe ferocemente punita. Può sembrare che ci si stia provando ad operare tutti insieme – tutti i governi del mondo – per rimuovere le cause dei cambiamenti climatici assassini. Si svolge a Varsavia la conferenza Onu sul clima. Non si apprezzano risultati tranne l'appuntamento a Pargi 2015. Ci si prova, lentamente, molto lentamente, come per dire “qualcosa facciamo” ma intanto, da un appuntamento all'altro, da un protocolo all'altro, la temperatura dei mari continua a crescere. E gli impegni degli Stati vengono rivisti al ribasso. Al ribasso quelli di Australia, Canada e Giappone, ad esempio. Le emissioni crescono, i mari si riscaldano, i ghiacciai si sciolgono perché il saldo netto fra politiche di prevenzione e “normali” pratiche di sviluppo è negativo. Esattamente come per il debito pubblico, magrado questo e malgrado quello. Come svuotare l'oceano con un secchiello. Se non possiamo porre rimedio globale alle cause lontane, potremmo realizzare argini e pretezioni locali. Ma no, pare che non si possa fare neanche questo. La politica, i governi, le amministrazioni locali non possono disinvestire né in armamenti, né in sagre locali, né in favori e scambi. Imporre piani regolatori? Troppi nemici. Rimboschimenti, argini? Troppo costosi. Far pagare i gestori di slot machine? Con molta moderazione. Qualcuno li ha cari probabilmente. Credo infine tristemente che ci sia un consenso diffuso al trend che ci indirizza al disastro. Versate le rituali lacrime e celebrato il doveroso lutto nazionale, altre emergenze prevarrano. E forse ognuno dentro di sé penserà: “d'accordo, è successo, ma chi dice che succederà ancora?” e soprattutto “perché mai dovrebbe succedere a me?” Non appare “pragmatico”, appare irragionevole spendere per rischi ipotetici che difficilmente riguarderanno le generazioni presenti. Comunque pagheranno prima quelli che non possono scegliere dove abitare, dalle Filippine alla Sardegna. Da lì i primi segnali di pericolo. Non sufficienti per modificare modelli di sviluppo e di vita. Continuiamo quindi ad ironizzare sui buontemponi del WWF, di Lega ambiente e di Greenpeace e magari sulla “decrescita felice”. Quando l'acqua lambirà i castelli dell'èlite qualcosa si farà.

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