Struttura analoga ha avuto l’elenco di Fini che, cercando faticosamente nella sua storia di destra (stavo per dire, sbagliando, “nelle sue radici”: ma sono estirpate), non ha trovato di meglio che l’Italia, declamata con la “I” molto maiuscola, e senza riferimenti a devoluzioni “locali” o “planetarie”, e l’esaltazione delle Forze Armate. Poi, via via, sfumando anche lui verso valori più facilmente condivisibili: la legalità, lo Stato non invadente, l’autorevolezza e il buon esempio delle istituzioni. E qui naturalmente l’avversario era palese e non stava a sinistra. Era il leader di un’altra destra, quella “con la bava alla bocca”, ammesso che oggi Fini, come per lo più si ritiene, sia ancora collocabile a destra. Fini ha rivendicato quindi la cultura del merito e la eguaglianza delle opportunità “per i figli dei datori di lavoro come per i figli degli impiegati e degli operai” (di Lapo Elkan e del turnista della Fiat?). Valori cari al liberalismo conservatore e a quello progressista: profondamente velleitari, a mio avviso, come parodia dell’eguaglianza di fatto, giacché senza interventi radicali (socialismo) o continuamente correttivi (Stato interventista) le diseguaglianze di nascita e di censo, spostate in avanti, dopo la culla, dopo la scuola dell’obbligo, dopo l’università, comunque si riproducono. In Italia soprattutto.
Da notare poi le coincidenze nei due discorsi, a proposito di cittadinanza ed immigrati. Anche l’appello alla laicità di Bersani, a proposito di accanimento terapeutico (caso Welby e Englaro) credo potesse essere condiviso da Fini, in altre occasioni aperto su questi temi.
Insomma il vero avversario della destra e della sinistra presenti in studio stava altrove: era Berlusconi. Un comprimario assente un po’ amico, un po’ avversario, lontano da Fini e soprattutto da Bersani era Casini che – guarda caso – immediatamente prima ad Otto e mezzo aveva polemizzato contro la prevista apologia che Vieni via con me avrebbe fatto della laicità e della “buona morte”, differenziandosi molto da Bersani e abbastanza da Fini.
Riassumo. La destra e la sinistra presenti in studio erano tutt’altro che distanti. Per merito dell’evoluzione finiana, dei suoi molti passi avanti, se non dei passi indietro della sinistra. Perché allora non chiamare Fini e Bersani “centro” o, volendo cogliere le sfumature, “centrodestra” e “centrosinistra”, e chiamare Berlusconi “destra” populista o peronista o monarchica o magari, sbrigativamente, fascista e Casini destra “costituzionale” e confessionale? Non si può. Non si può con Fini e Bersani. Le etichette acquisite con la storia, pare non si possano cancellare: Fini e Bersani debbono dirsi distanti anche quando sono vicini. Li costringono il passato e il senso comune imposto da quelli che hanno inventato la sovranità popolare come proprietà del 30% degli elettori ed hanno inventato “ribaltone”, “tradimento”, etc. Come i figli delle storiche famiglie rivali, Montecchi e Capuleti, i leader del PD e di FLI, scoprono reciproco interesse e attrazione. Nella leggenda l’attrazione e il presente vinsero sulla storia. Nella politica oggi è più facile vincano la storia ed etichette troppo adesive.
Quanto coraggio servirebbe a vincere l’inerzia delle vecchie appartenenze per una Alleanza costituzionale, da Fini a Vendola, che ci liberi dai barbari? In attesa che il PD si muova dalla sua stagione contemplativa verso una sinistra di lotta che realizzi nell’azione quotidiana i valori declamati da Bersani.
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