Il viaggio da Ostia alla farmacia del Vaticano comincia male. Uscito di casa, sono testimone di un conflitto fra riciclatori presso il cassonetto delle immondizie. Ostia è piena di persone, immigrati mi sembrano tutti, che vivono grazie ai nostri rifiuti. Non ho idea dove conferiscano quel che trovano frugando fra i bidoni e se abbiano una organizzazione. Riconosco lui perché è il meno giovane e quello con l’aria più professionale, compiaciuta. Normalmente usa una maglia per non sporcarsi infilando tronco e testa dentro il bidone, con le gambe per aria e senza smettere di fumare. Adesso, inveisce, dopo averla inseguita, contro una “collega” munita di carrello e grosso cartone da imballaggio. Forse è un ”caporale”, forse si tratta di invasione di campo. Andiamo avanti. Deve essere normale. I vigili inflessibili contro le auto che sostano fuori dagli spazi assegnati, non hanno nulla da dire.
Il trenino che in questo giorno di fine agosto porta a una Roma senza romani è poco affollato. Il trenino è lurido come sempre. Ho vicino una famiglia: una madre con tre bambini fra i quattro e i sette anni. E’ una famiglia con i segni distintivi della povertà di questo tempo, con un po’ di euro in tasca . La madre è obesa, con piercing al naso e tatuaggi vari. Soddisfatta, rimpinza i due figli minori di merendine che scarta continuamente. Il più piccolo sembra star bene, sdraiato con le scarpe contro la parete e la mamma è molto contenta del suo benessere. La bambina è quella che somiglia più alla madre, per obesità. Il maggiore ha l’aspetto più sano, rifiuta merendine perché troppo occupato con svariate telefonate e operazioni varie al cellulare per le quali gli chiederei una consulenza.
Nella scala mobile della stazione metro scorgo una figura che dovrebbe essere elegante e avvenente: una modella, chiaramente. Sono alla ricerca di un segno di bellezza in una giornata di unto e bruttezza. Ma non è neanche lì, in quella figura insipida, inespressiva nella sua presunta perfezione.
Sulla strada che conduce alla città del Vaticano ci sono quasi solo turisti, affannati e accaldati con le bottiglie di plastica in mano, dietro guide con le bandierine sollevate. Poverini , devono visitare San Pietro per poter raccontare di esserci stati. Una guida ammonisce un’altra guida che si avvicina a un gruppo in formazione. “Sono miei” grida. E i gruppi marciano, scansando mendicanti che esibiscono mutilazioni, loro strumenti di reddito nel paese settimo o ottavo nel mondo per Prodotto interno lordo.
Poi nella sala di aspetto della città del Vaticano, fra impiegati molto “romani” nella confidenza eccessiva con i visitatori in attesa di visto, un’altra apparizione. Ha un’età indecifrabile, sopra gli ottanta comunque. Magra della magrezza prescritta, con abiti leggeri di alto costo. Ma il viso è un incubo. E’ uno di quei dieci o venti visi che si replicano nelle donne che si sottopongono a chirurgia facciale perché dieci o venti, non più, debbono essere i modelli, i calchi, cui si ispirano i chirurghi estetici. Il volto è teso e levigato come il marmo, le labbra gonfie sono le solite labbra gonfie,il naso sottilissimo preannuncia la scarnificazione della morte. Che strano aver compassione per la ricchezza. Non fosse stata assillata dalle seduzioni delle offerte che si rivolgono alle persone ricche, questa povera donna non si sarebbe ridotta così.
Va bene, dura poco. Si torna a casa. Rifletto e metto ordine ai pensieri. Gli amici esperti di psicologia e costruttivismo mi spiegherebbero che oggi c’era una mia predisposizione a scorgere il brutto. Gli statistici mi direbbero che è normale, essendo i “normali” in vacanza, che la bruttezza anormale occupasse la scena. A me viene da pensare di aver incontrato l’orrore prodotto dalla invenzione della ricchezza e della povertà: bruttezze radicali e diverse, da eccesso e da carenza di proteine, da eccesso e da carenza di informazione, etc. Ma lasciamo perdere. Fra poco godrò della solitudine nella mia sedia sdraio preferita, nel mio terrazzo. Poi mi dedicherò a cose serie: la politica, il circolo on line.
Quasi a casa, sul marciapiede, l’evento. Non è la prima volta che la trovo lì, rannicchiata per terra. E’ snella e minuta. Fra i quindici e i diciotto anni, direi. Veste gonna e camicia anonime, chiare. Sa che non le darò l’elemosina. Non la do’ mai. Non ha arti deformi da esibire. Non ha un cartone stropicciato con su scritta una storia patetica. Non supplica, non parla. Ha solo un bicchiere di carta, vuoto, per raccogliere monete che non ho mai visto donarle. Stavolta la guardo un po’ più e un po’ meglio. E lei, sempre così immobile e quieta, ha un gesto minimo, appena accennato. Un gesto come per aggiustare in qualche modo il colletto della camicia. Riesce a farm i sentire come un colpo al cuore, simile a quello delle cotte giovanili. Come, ricevendo un sorriso inaspettato da una sconosciuta. Sono misteriosamente certo che non guarda la TV e non sa nulla di Berlusconi.
Devo saper darne testimonianza per il futuro, quando i nipoti cercheranno la bellezza che il tempo avrà finito di spazzar via, con le armi apocalittiche della ricchezza e della miseria.
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