sabato 22 ottobre 2011
La passione di Gheddafi, come Cristo in croce
E’ strano che io, ateo, debba cercare condivisione e conforto in Cristo. I cristiani non contesteranno l’analogia fra il calvario del dittatore e quella di Cristo. Credo. Sennò, pazienza.
Mi è mancato il respiro, gli occhi mi si sono gonfiati di lacrime e ho odiato la mia appartenenza alla razza umana. Questa la mia reazione alle scene bestiali che la TV mi ha mostrato. Avevo registrato il compiacimento dei leader europei e statunitensi, il requiem incredibile e gaglioffo del nostro premier “sic transit gloria mundi”. Gli intellettuali e gli opinionisti del civile Occidente hanno preso le distanze: non doveva morire così. Poi hanno preso le distanze dalle distanze: non dimentichiamo le stragi operate dal dittatore e le torture sugli oppositori e comprendiamo la rabbia di un popolo. Comprendiamo o giustifichiamo? Il comprendere è dono dell’intelligenza, la giustificazione che assolve in nome della legge del taglione è figlia della barbarie.
Qualcuno mi dice che la mia emozione è indotta dai mass media. Abbiamo visto lo scempio sul corpo ferito e poi ucciso di Gheddafi. Non abbiamo visto altri e numerosi scempi di cui furono autori gli uomini del dittatore. Vero. Infatti piangendo per Gheddafi piango per le sue vittime. So anche che è una storia che si ripete, naturalmente. I cadaveri di Mussolini, dei gerarchi e di Claretta per terra a Piazza Loreto. Tra la folla c’è chi lancia ortaggi sui cadaveri, chi esplode colpi di pistola sui corpi, chi orina sul corpo della Petacci. E nessuno, no, fra le autorità del nuovo ordine democratico nascente che sappia sfidare l’impopolarità, contrastando lo scempio. Poi i corpi appesi e l’intimità di Claretta (colpevole di che? Di avere amato un dittatore), priva di biancheria, pietosamente protetta, prima con uno spillone da una anonima Maddalena, poi dalla cintura di un sacerdote, cappellano della Resistenza: i giusti e pietosi da cui ripartire . Non credo che la Resistenza – con lo Stato democratico cui diede vita - che celebriamo e che celebro possa mai veramente sanare quelle sfregio. E’ parte ineliminabile della nostra formazione, del legno storto della nostra umanità: qualcosa che silentemente ispira le viltà e le ferocie di ogni giorno.
“Dal dí che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d’ altrui”. I versi del Foscolo sono nelle mie orecchie in queste ore orribili. Il civile Occidente ripudia i linciaggi. Ai nemici la morte vien data senza guardarli negli occhi, senza odio, professionalmente. Anche agli innocenti se il massacro serve a impedire morti più numerose. Come a Hiroshima e Nagasaki. Anche a distanza di anni e decenni nel caso di esecuzioni capitali. Come avvenne con Charil Chesmann – prima assassino (forse), poi scrittore – per il quale non si poté fermare la macchina anonima e burocratica che lo consegnò alla camera a gas. Grazie alla “invenzione” dei tribunali e della giustizia, il colpevole non è più linciato per strada. Al più è torturato e ucciso a Guantanamo e nelle caserme di polizia e carabinieri. Senza darne spettacolo. Dobbiamo sapere apprezzare questo. Dobbiamo ricordarci di apprezzare questa misura e questa ipocrisia. E’ il segno che qualcosa nel disegno di incivilimento tiene e non consente di esibire l’infamia. Non so se saprebbero essere d’accordo le Antigone dei nostri giorni, Lucia e Ilaria, sorelle di Giuseppe Uva e di Stefano Cucchi.
Ho detto per Chessmann di una macchina burocratica che non si riesce a fermare. Volevo ricordare che forse nessuno allora – anche fra i più colpevolisti – avrebbe schiacciato il bottone per uccidere l’assassino, dodici anni dopo la condanna. Era sentimento comune che l’uomo che si mandava a morte era un altro uomo rispetto a quello condannato a morire atrocemente. Solo non si può dichiarare questo. Dobbiamo fingere di credere all’identità e alla responsabilità di ogni uomo, per sempre. Dobbiamo credere che il fiume x sia sempre quel fiume, anche se nulla resta delle acque che lo costituivano. D’altra parte credere nel cambiamento è credere nella educabilità dell’uomo: educabile dalla scuola, dagli eventi, dalle tragedie.
Così io credo che il Gheddafi colpito dai civili razzi della Nato (ma il mandato dell’Onu non era limitato alla no fly zone?) e poi oltraggiato e ucciso dalle folle selvatiche non fosse più il dittatore probabilmente assassino, sicuramente tronfio e vanitoso, cui si offrivano giovani vergini.
Lì nella Sirte c’era un’altra persona, un animale ferito, solo e atterrito, che chiedeva pietà e ha visto l’inferno. Vorrei poterlo consolare, insieme alle sue vittime. Non posso dirgli, da miscredente, le parole che Cristo pronunciò verso il ladro e assassino che gli moriva accanto, pentito, altro uomo (come io traduco), promettendogli il paradiso. Potrei dirgli: è successo, ma è passato. Non hai memoria per fortuna del male che hai fatto e che hai ricevuto. Potrei citargli Lucrezio e la promessa dell’oblio, morire come non essere nati: “come nulla sentimmo quando i Cartaginesi invadevano le nostre contrade, nulla sentiremo…” (De rerum natura III, 2). Potrei dirgli: “ l’Onu e Amnesty International sembrano voler indagare sull’assassinio e rendere giustizia a te che fosti ingiusto.” Che non tutto è perduto ancora per l’umanità.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento