giovedì 30 agosto 2012

Qualche volta le donne non mi piacciono


Sono seduto in piazza con la mia coppa di gelato ad ascoltare Zampaglione, ex dei Tiromancino, di cui praticamente non so niente. Bella voce probabilmente, ma non è il mio genere. E poi l'audio è così così . E davanti a me c'è lui il vero protagonista della mia serata, un tale seduto con tre donne. Prima che inizi a cantare Zampaglione, faccio in tempo ad apprendere che il tale è divorziato e generosissimo con il nuovo compagno della moglie. Poi inizia il concerto che un po' disturba la narrazione delle gesta del mio vicino. Comunque inarrestabile. Non prende fiato se non per accendere l'ennesima sigaretta e gesticola, gesticola, narrando di una storia dopo l'altra (storia, nel senso di avventura erotica). E le tre donne? Una forse è la sua fidanzata, visto come la stropiccia. Ma le altre? E tutte tre perché diavolo ci stanno ad ascoltare, sorridendo, annuendo, senza dir parola? Per una granita? Sì le donne non sono tutte Rita Montalcini o Margherita Hack e neanch'io sono Veronesi. Ma a questo punto, no! Poi, quando Zampaglione scende dal palco è tutta una corsa di ragazze per l'autografo e - le più "fortunate" - per una foto. Va bene, normale. Ma lascio la piazza con una nuova determinazione a proporre alle mie nipotine la pedagogia dell'autonomia e dell'autostima.

venerdì 24 agosto 2012

Quelli che leggono Libero


La peggiore del mese per me è quella di Libero del 13 agosto. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva. In un rigo solo: maschilismo becero, livore anti-legalità, la difesa della salute come vezzo dei radical chic indifferenti al lavoro della gente comune. Complimenti! C'è da mettere le mani fra i capelli pensando che milioni di italiani leggono e apprezzano Libero e hanno qualcosa di simile a un orgasmo leggendo queste porcherie. Dove sono questi italiani? Prendono il sole accanto a me in spiaggia? Sono al banco del bar accanto a me a sorseggiare un caffè?

La cugina del giudice


Non ci sono altri clienti in farmacia. La farmacista prende in mano la mia carta sanitaria e fa un cenno alla mia origine siciliana. Lei è di Canicattì, molto lontano dalla mia Siracusa. Parliamo di cannoli, di dove trovarli a Ostia o a Roma, somiglianti agli originali. Discutiamo anche della differenza fra cannoli dell'est e dell'ovest. Insomma le solite cose di cui parlano due siciliani che si incontrano. Dico qualcosa di Canicattì. Ne ho un pessimo ricordo, per quel poco che l'ho vista, come di una città urbanisticamente sconvolta, senza forma. Ma questo non lo dico alla farmacista. Dico solo qualcosa sulla mafia locale, particolarmente feroce: la Stidda, costola scissionista di Cosa nostra. Arrivano clienti. D'impulso faccio il nome di Cesare Livatino, il giudice ragazzino, massacrato il 21 settembre del '90 sulla strada che dalla sua Canicattì lo portava al tribunale di Agrigento dove prestava servizio. Lei ha un sobbalzo: "Era mio cugino - dice - cugino di mia madre". I clienti aspettano. Ma non sembrano disturbati. Ascoltano. E la farmacista continua. Dice di quel parente "ragazzino" così studioso, dalla carriera scolastica, universitaria e professionale brillantissima e veloce. Dice del suo impegno militante anche nella fede. Sì, ne so qualcosa. L’essere “laico”non mi impedisce di apprezzarlo. Mi chiede se so che è in corso una causa di beatificazione. Lo so. Fu avviata dopo che Giovanni Paolo II ebbe a chiamarlo "martire della giustizia e quindi della fede". Mi chiede se so della piazza intitolata a Roma in onore del giudice. Non lo sapevo. Vivo da poco tempo a Roma, mi scuso. Ci andrò. Mi chiede se ho visto il film a lui dedicato. L'ho visto. Non ho mai letto il libro di Nando Dalla Chiesa invece, intitolato al “giudice ragazzino”. Commento il significato sprezzante che aveva l'aggettivo "ragazzino" in Cossiga che lo pronunciò, anche se poi negò di averlo attribuito a Livatino. Parlava in Cossiga la cattiva politica di quelli che conoscono il mondo com'è -dei compromessi e delle trattative - e non hanno sentore di un mondo diverso. Vado via, salutando la farmacista e scansando la fila in attesa. Perché ho raccontato questo incontro? Probabilmente per i sensi di colpa che tormentano i siciliani che, pur ostili alla mafia, si sentono colpevoli di non essersi spesi abbastanza. Che hanno vissuto in una terra di troppi eroi e troppi martiri, grazie ai quali però è ancora pensabile di vivere in Sicilia. Forse anche per altro. Non è giusto sentirsi colpevoli per aver criticato un assassinato. Anche ai martiri in vita capita di aver torto. Ma se ci facciamo beffa dell’impegno è diverso. Molto diverso. Quando lo facciamo, ricordiamo i rischi di doverci pentire dopo e di detestarci, ad assassinio consumato.