Mi sono educato ad usare con prudenza la parola "amore". Troppi egoismi, troppo possesso in "amori" che non sono cura dell'altro, ma solo di sé. Oggi e ieri però in sui giornali e in TV due momenti, due scene che posso chiamare di amore. Una la avrete vista in molti oggi. L'ho vista sui giornali e in TV, ma forse erano due scene diverse. In TV la scena appartiene al capitolo "La polizia che disonora la divisa e lo Stato". Il poliziotto (si può dire: esasperato, stanco, incompreso, stressato da un lavoro rischioso e difficile) che calpesta con evidente intenzione il/la manifestante caduto/a per terra. Imperdonabile comunque e meritevole di un carcere che non ci sarà. Un film stravisto nella nostra memoria almeno da Genova 2001.
Nella foto un ragazzo protegge col suo corpo una ragazza, disteso su di lei a farle riparo. Un esempio di amore "maschile" di dedizione, tenerezza e forza.
L'altro episodio di amore è al femminile e l'ho visto ieri su Rai uno nella trasmissione, discutibile per alcuni aspetti, ma ben confezionata, "Ti lascio una canzone" . Arriva in finale della gara di canzoni il quattordicenne Maurizio. Maurizio ha la particolarità di essere nero. E si comprende da vari indizi, dal sorriso difficile a un'ombra nello sguardo, che la sua vita non è facile. Dedica alla madre adottiva, bianca, "A te" di Jovanotti. La regia è accorta nel distribuire il tempo dell'esecuzione fra Maurizio e la madre. C'è anche il padre, che però non riesce a comunicarmi niente. Lei invece, la madre, è la madre che avremmo voluto avere e che abbiamo avuto a momenti o mai. Per la cura con cui accompagna l'esecuzione del figlio, ora recitando i versi della canzone, ora annuendo con approvazione, ora applaudendo sobriamente. Sobrie anche le lacrime. E si intuiscono cose e problemi che quella sperata vittoria dovrà contribuire a superare. Maurizio infatti vince. E per una volta vince l'Italia accogliente, l'Italia della cura, l'Italia femminile.
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