Sento il bisogno strano di giustificarmi. Non sono ancora libero quanto vorrei. Non sono riuscito fin qui a formulare un commento sul Giovane favoloso di Mario Martone. Al contrario, ho subito avuto voglia di dire qualcosa su Ficarra e Picone e il loro Andiamo a quel paese. Lo farò presto. Adesso però provo a dire brevemente del Leopardi di Martone. Un film caratterizzato da grande attenzione filologica e grande investimento di studio e cura dei dettagli. Ma l’analisi – ritengo sempre – non può contraddire il dato sintetico. Mi ha emozionato o no? No. Solo nel finale. Il Leopardi ultimo, a Napoli. Ma direi che emozionante è la Napoli del napoletano Martone. La Napoli che si riesce ad amare, malgrado tutto. La Napoli in cui, secondo Martone, Leopardi recupera il piacere dei rapporti umani e il gusto dei sapori nella convivialità. In un improvvisato banchetto con uomini semplici. Poi c’è la Napoli dai colori vivissimi delle grotte della suburra e delle accoglienti prostitute con cui Leopardi cerca vanamente l’iniziazione sessuale. E infine l’eruzione del Vesuvio, immagine dell’Apocalissi, che accompagna stupendamente il recitato della Ginestra che ammetto di avere così riscoperto nella sua straordinaria intensità. Poco ho sentito nel Leopardi di Recanati e di Firenze. Mi si è impresso invece l’ammonimento del poeta: ” Non attribuite al mio stato quello che si deve al mio intelletto”. La rivendicazione impossibile e pur necessaria dell’autonomia del pensiero. L’ho attualizzata nella mia frequente polemica contro i molti che oggi scelgono la via facile della delegittimazione delle tesi che non sanno contrastare con argomenti personali del tipo: “Però lui è massone (o figlio di massone)” , “Però è vecchio”, “Però è giovane”, “Però è troppo carina”. Insomma, anch’io, come tutti, prendo quello che la mia mente può e vuole prendere dall’unità presunta dell’opera artistica.
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