domenica 30 ottobre 2011
Sandro Usai e Sisifo che puntella l'Italia
La mia motivazione è solo quella di ricordare un oscuro eroe dei nostri tempi e di lasciarne traccia elettronica, anche su questo blog. Così giustifico il ripetere cose che forse tutti sapete, leggendo del disastro nelle Cinque Terre e nella Lunigiana. Sandro Usai era un sardo di 38 anni, da dodici anni a Monterosso (La Spezia) dove si era ben integrato facendosi ligure. Il suo datore di lavoro nel ristorante dove lavorava e che era anche suo "capo", come coordinatore della locale Protezione civile, descrive l'attività incessante di Sandro che "arrotondava" con altri mestieri, per dire che "non faceva il volontario perché aveva tempo da perdere". Volontariato come vocazione profonda, il suo. Armato di tale vocazione, Sandro, alle prime avvisaglie del disastro, lascia la moglie che inutilmente cerca di trattenerlo e che riesce solo a farsi lasciare l'orologio (perché non si sporchi). Così, dopo avere salvato - riferiscono - innumerevoli vite, è travolto dal fango e muore. Sandro, sardo/ligure è fra gli italiani che testardamente ricuciono il Paese, con i suoi tanti idiomi, con i suoi tanti municipi. E' fra gli italiani che puntellano l'Italia che frana, letteralmente e metaforicamente. Come Angelo Vassallo che pagò con la vita la difesa del suo territorio. Come Libero Grassi che pagò lo stesso prezzo perché la sua sfida pubblica alla mafia ridestasse le coscienze. L'analogia con Sisifo è forse discutibile. * Allude a un sacrificio che pare continuamente vanificato. Talvolta metto l'accento sulla inanità del sacrificio. Poi mi dico che l'Italia, imbruttita dal cemento e franata, sarebbe orrenda e sepolta dalle colline abbandonate e franate, senza quei sacrifici.
Venerdì scorso Carlo Petrini (la Repubblica) svolge una analisi impietosa di un modello di sviluppo (si fa per dire...) che negli ultimi dieci anni ha costruito quattro milioni di case, mentre si stima l'esistenza di cinque milioni e duecentomila case vuote. Analogo discorso per i capannoni industriali. ** Poi Petrini ci consola con la buona notizia della costituente Assemblea Nazionale del Forum dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio.*** E il Bene Comune appare la bandiera di movimenti diversi, di persone diverse che, dibattendo e facendo, come Sandro, si oppongono all'egoismo e all'apologia del privato e dell'incuria. "Il privato - osserva Petrini - non può privare il resto della comunità di qualcosa d'insostituibile e di non rinnovabile. Il privato non può privare."
Da un lato - è il senso di un intervento di Michele Serra, lo stesso giorno, anche lui su la Repubblica - un fare inconsulto, dall'altro un non fare altrettanto distruttivo, l'abbandono delle colline e la mancata manutenzione di fiumi , canali e argini. Secondo il Presidente della Regione ligure, Claudio Burlando, il non fare sarebbe stato all'origine del disastro nelle Cinque Terre. Tutto lì - osserva Michele Serra - suggerisce la necessità della cura, dell'attenzione e della fatica. E conclude domandandosi: "Ma è una fatica che siamo ancora in grado di affrontare, non solo come classe dirigente, dico proprio come cultura diffusa, come idea corrente del nostro paese?" ****
I Sisifo del nostro tempo sembrano accettare la scommessa, a prezzo della vita alla quale comunque conferiscono senso.
"Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice", dice Camus. Così, felice, immagino Sandro Usai.
* Ho trovato sul web questa rivisitazione complessa di Camus riguardo il mito di Sisifo http://sottolanevepane.splinder.com/post/12932126/albert-camus-il-m...
** http://www.slowfood.it/sloweb/C27451721919b1C471xs7C6E1F00/una-gran...
*** www.salviamoilpaesaggio.it
**** http://triskel182.wordpress.com/2011/10/28/i-colori-gioiello-delle-...
lunedì 24 ottobre 2011
Manifesti per tutti i politici, per nessuna politica
Sempre più difficile. Sempre più difficile attribuire una icona, uno slogan, un manifesto a un soggetto politico. Infatti nei giorni scorsi ho vanamente logorato il mio cervello per capire chi fosse l’autore di manifesti che invadevano i muri di Ostia. Un salvagente con su scritto Salviamo la politica e dentro Basta con le solite facce. Salviamo la politica è parola d’ordine oggi variamente spendibile. E’ una richiesta di cambiamento che vuole sottrarsi alle accuse di qualunquismo e antipolitica, acquisendo il lasciapassare per menare fendenti alla politica attuale. A tutta la politica appunto. Un po’ come nel manifesto di Della Valle, ad esempio. L’appello dentro il salvagente - Basta con le solite facce - aggiunge qualcosina.
Sicuramente – ho pensato - è un appello per mandare a casa, in villa o in barca Berlusconi, Bersani, Casini. Uno di loro o tutti loro; questo particolare non è chiaro. Ma chi sarà l’autore – singolo o collettivo - del manifesto? Potrebbe essere un coetaneo di Casini o di Bersani o di Berlusconi, solo meno logorato dalla lunga esposizione in quest’epoca che distrugge credibilità e reputazione. O forse la polemica è contro la generazione dei padri. Come improvvisato Sherlock Holmes nella semiotica della politica, vado per esclusione o per approssimazioni successive. Mi sento quasi di escludere che possa trattarsi di uno del Pdl. Sarebbe un manifesto implicitamente oltraggioso per il grande leader e questo da quelle parti non dovrebbe essere consentito. Fra Udc e Pd trovo più probabile quest’ultimo. Nel Pd è tollerato e facile sparare sul quartier generale e sul leader. Anzi è segno di personalità e indipendenza. Il manifesto potrebbe essere di Renzi o di un renziano , giusto? Sì, potrebbe.
Potrebbe essere di Grillo o di un grillino? Improbabile. E’ troppo moderato. Un grillino non direbbe solite facce . Direbbe facce di c… come minimo. Così non mi resta che aspettare un secondo manifesto che sciolga l’enigma. Che arriva. Accidenti, ho sbagliato tutto. E’ proprio di un politico del Pdl; l’ipotesi che avevo quasi escluso. E’ di tale Fabrizio Santori, consigliere del Pdl di Roma Capitale. Che nel secondo manifesto sostituisce Diamo valore al merito a Basta con le solite facce.
Già, ma chi è contrario al merito? Quale rivoluzione promette l’ignoto Santori? Contro chi? Contro la Minetti o la Gelmini?
In conclusione mi viene da pensare che ci siano agenzie di comunicazione con il loro bravo repertorio di slogan, immagini e icone a disposizione del primo compratore. “A chi hai venduto Basta con le solite facce -chiede il direttore dell’agenzia al collaboratore - al Pdl, a Di Pietro o al Partito dei comunisti italiani? Ma non lo avevamo venduto al Pd? Ah, al Pdl? E il Pdl prende pure il seguito - Diamo valore al merito - o quello lo vendiamo al Pd? “.
Aspetto manifesti che abbiano il coraggio di dire:
Nessuno a mendicare. Nessuno senza salario. Salario di cittadinanza.
oppure
Fiducia nei giovani. Prestiti d’onore per tutti: per studiare, metter casa, intraprendere.
oppure
Prendiamo sul serio la Costituzione. Nessuno senza scuola, nessuno senza lavoro.
oppure
Manette agli evasori prima. Ai rapinatori dopo.
oppure, addirittura
Chi sta meglio non guadagni più di dieci volte di chi sta peggio.
Oppure messaggi che dicano il contrario, purché osino dire qualcosa.
sabato 22 ottobre 2011
La passione di Gheddafi, come Cristo in croce
E’ strano che io, ateo, debba cercare condivisione e conforto in Cristo. I cristiani non contesteranno l’analogia fra il calvario del dittatore e quella di Cristo. Credo. Sennò, pazienza.
Mi è mancato il respiro, gli occhi mi si sono gonfiati di lacrime e ho odiato la mia appartenenza alla razza umana. Questa la mia reazione alle scene bestiali che la TV mi ha mostrato. Avevo registrato il compiacimento dei leader europei e statunitensi, il requiem incredibile e gaglioffo del nostro premier “sic transit gloria mundi”. Gli intellettuali e gli opinionisti del civile Occidente hanno preso le distanze: non doveva morire così. Poi hanno preso le distanze dalle distanze: non dimentichiamo le stragi operate dal dittatore e le torture sugli oppositori e comprendiamo la rabbia di un popolo. Comprendiamo o giustifichiamo? Il comprendere è dono dell’intelligenza, la giustificazione che assolve in nome della legge del taglione è figlia della barbarie.
Qualcuno mi dice che la mia emozione è indotta dai mass media. Abbiamo visto lo scempio sul corpo ferito e poi ucciso di Gheddafi. Non abbiamo visto altri e numerosi scempi di cui furono autori gli uomini del dittatore. Vero. Infatti piangendo per Gheddafi piango per le sue vittime. So anche che è una storia che si ripete, naturalmente. I cadaveri di Mussolini, dei gerarchi e di Claretta per terra a Piazza Loreto. Tra la folla c’è chi lancia ortaggi sui cadaveri, chi esplode colpi di pistola sui corpi, chi orina sul corpo della Petacci. E nessuno, no, fra le autorità del nuovo ordine democratico nascente che sappia sfidare l’impopolarità, contrastando lo scempio. Poi i corpi appesi e l’intimità di Claretta (colpevole di che? Di avere amato un dittatore), priva di biancheria, pietosamente protetta, prima con uno spillone da una anonima Maddalena, poi dalla cintura di un sacerdote, cappellano della Resistenza: i giusti e pietosi da cui ripartire . Non credo che la Resistenza – con lo Stato democratico cui diede vita - che celebriamo e che celebro possa mai veramente sanare quelle sfregio. E’ parte ineliminabile della nostra formazione, del legno storto della nostra umanità: qualcosa che silentemente ispira le viltà e le ferocie di ogni giorno.
“Dal dí che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d’ altrui”. I versi del Foscolo sono nelle mie orecchie in queste ore orribili. Il civile Occidente ripudia i linciaggi. Ai nemici la morte vien data senza guardarli negli occhi, senza odio, professionalmente. Anche agli innocenti se il massacro serve a impedire morti più numerose. Come a Hiroshima e Nagasaki. Anche a distanza di anni e decenni nel caso di esecuzioni capitali. Come avvenne con Charil Chesmann – prima assassino (forse), poi scrittore – per il quale non si poté fermare la macchina anonima e burocratica che lo consegnò alla camera a gas. Grazie alla “invenzione” dei tribunali e della giustizia, il colpevole non è più linciato per strada. Al più è torturato e ucciso a Guantanamo e nelle caserme di polizia e carabinieri. Senza darne spettacolo. Dobbiamo sapere apprezzare questo. Dobbiamo ricordarci di apprezzare questa misura e questa ipocrisia. E’ il segno che qualcosa nel disegno di incivilimento tiene e non consente di esibire l’infamia. Non so se saprebbero essere d’accordo le Antigone dei nostri giorni, Lucia e Ilaria, sorelle di Giuseppe Uva e di Stefano Cucchi.
Ho detto per Chessmann di una macchina burocratica che non si riesce a fermare. Volevo ricordare che forse nessuno allora – anche fra i più colpevolisti – avrebbe schiacciato il bottone per uccidere l’assassino, dodici anni dopo la condanna. Era sentimento comune che l’uomo che si mandava a morte era un altro uomo rispetto a quello condannato a morire atrocemente. Solo non si può dichiarare questo. Dobbiamo fingere di credere all’identità e alla responsabilità di ogni uomo, per sempre. Dobbiamo credere che il fiume x sia sempre quel fiume, anche se nulla resta delle acque che lo costituivano. D’altra parte credere nel cambiamento è credere nella educabilità dell’uomo: educabile dalla scuola, dagli eventi, dalle tragedie.
Così io credo che il Gheddafi colpito dai civili razzi della Nato (ma il mandato dell’Onu non era limitato alla no fly zone?) e poi oltraggiato e ucciso dalle folle selvatiche non fosse più il dittatore probabilmente assassino, sicuramente tronfio e vanitoso, cui si offrivano giovani vergini.
Lì nella Sirte c’era un’altra persona, un animale ferito, solo e atterrito, che chiedeva pietà e ha visto l’inferno. Vorrei poterlo consolare, insieme alle sue vittime. Non posso dirgli, da miscredente, le parole che Cristo pronunciò verso il ladro e assassino che gli moriva accanto, pentito, altro uomo (come io traduco), promettendogli il paradiso. Potrei dirgli: è successo, ma è passato. Non hai memoria per fortuna del male che hai fatto e che hai ricevuto. Potrei citargli Lucrezio e la promessa dell’oblio, morire come non essere nati: “come nulla sentimmo quando i Cartaginesi invadevano le nostre contrade, nulla sentiremo…” (De rerum natura III, 2). Potrei dirgli: “ l’Onu e Amnesty International sembrano voler indagare sull’assassinio e rendere giustizia a te che fosti ingiusto.” Che non tutto è perduto ancora per l’umanità.
giovedì 20 ottobre 2011
Di che si occupa la politica?
Sono chiuso a casa. Fuori, qui nella verde Ostia, col temporale, è un fiume di fango con tombini intasati dalle foglie cadute e fognature esplose (ah, i ricorrenti e infruttuosi dibattiti sulla manutenzione, alle prime piogge).Torno a casa, mi munisco di stivali perché dovrei raggiungere mia moglie a casa di mia figlia a 200 metri di distanza, non so se a piedi o con l' auto parcheggiata non lontano. Rinuncerò ad andare sia a piedi che in auto. Mentre sul marciapiedi mi riparo sotto un balcone, cercando di decidere, mi raggiunge un cittadino, come un reduce di guerra. Poggia contro il muro uno alla volta i piedi con gli stivali per riassestarsi e poi la domanda che è come una sentenza, pronunciata quietamente, disperatamente, senza aspettare risposta, senza guardarmi: "Di che si occupa la politica?". E va via. Amen.
martedì 18 ottobre 2011
Rimuginando con l'ultimo Infedele: i giovani e il bene comune
Rimuginando con l’ultimo Infedele: i giovani e il bene comune
I giovani inventano nuove modalità politiche – orizzontali – e nuovi linguaggi. Avevamo visto la scalata e l’occupazione dei monumenti e poi gli scudi con i classici (l’Eneide, I promessi sposi) a difendere la cultura insidiata. Poi le parole d’ordine dei primi indignados, i giovani spagnoli del maggio scorso): Democracia real Ya/ Democrazia reale subito, Non abbiamo eletto i banchieri, etc. Ora la casta dei politici ignorata e l’immagine in cartapesta dei Draghi che alludono all’unico interlocutore, nemico vero. E poi, in tutto il mondo quel Siamo il 99%. (ma non riusciamo a contare lo stesso perché – immagino – non sappiamo di esserlo oppure perché le “contraddizioni in seno al popolo” rendono inerme la maggioranza). All’Infedele ieri ne abbiamo visto altri sviluppi. Gli accampamenti con le tende in piazza Santa Croce in Gerusalemme, come in tutto il mondo più spesso accanto ai luoghi del potere (pulsione all’espropriazione ovvero a una riappropriazione collettiva). Il rifiuto della rappresentanza ovvero l’assenza di leader (se il portavoce non ne sarà prima o dopo il sinonimo). E poi i nuovi linguaggi non verbali con l’approvazione e la disapprovazione espresse con l’agitare le mani in alto o con l’incrociare le braccia (per non interrompere chi parla e per “marcarlo” con feedback continui). E infine nel movimento l’espressione più insidiosa, maturata nel referendum contro la privatizzazione dell’acqua: il Bene comune come spazio sottratto al mercato, uno spazio che si allarga o può allargarsi al territorio, all’ambiente, alla cultura e alla scuola, alla sanità e che potrebbe – teorema dopo teorema -allargarsi ancora fino a sopprimere il mercato. Lo slogan della Fiom , Il lavoro bene comune, è già a un passo da quella conclusione. Dicono però che Il Bene comune vuole essere solo un terzo spazio, diverso dal privato e dallo statale. Diverso dal privato è chiaro, diverso dallo statale o pubblico (stato, regione, comune) un po’ meno. Anche se i fautori del Bene comune debbono erigere salutari barriere semantiche per l’assonanza con l’impronunciabile Comunismo. Noi che non siamo nostalgici o “ideologici” aspettiamo di capire come si disegnerà tale spazio comune non burocratico, non stagnante, che vuole essere diverso dal socialismo reale conosciuto. Intanto Stracquadanio non ci sta e all’Infedele demistifica a suo modo lo spazio insidioso del Bene comune, mostrandone le ascendenze statalistiche. Egualmente, il campione dello status quo irride alle ipotesi di salario di cittadinanza che – orrore! – sarebbe pagato da bilancio statale ergo dal debito pubblico in cambio di nessun lavoro, per fare niente. E fortunatamente Stracquadanio non conosce o dimentica la proposta di una dote di cittadinanza – per lo studio, per l’inserimento sociale - cui aver diritto per il solo fatto di essere nati, proposta rilanciata dall’odiato Draghi (odiato da Stracquadanio e dai suoi avversari, insomma da tutti). Lerner è tollerante come non mai con i suoi giovani ospiti in studio e da piazza Santa Croce in Gerusalemme. Nel passato avrebbe rintuzzato con ira chi pretendesse di suggerire inquadrature o di passare parola al compagno. Anche lui probabilmente vittima dei sensi di colpa verso la generazione tradita. Sui violenti incappucciati solo qualche accenno. L’implacabile Stracquadanio interessato a non separarli dai manifestanti pacifici e la Dominijanni che spiega – pare ci sia bisogno di spiegarla – la differenza fra comprendere e giustificare. Se ho capito bene, per condannare incappucciati o altri bisogna rigorosamente non capire, non capire da dove vengono, cosa li ispira, dove vanno. Diversamente si è complici. Io, invece che credo di poter capire e condannare insieme, trovo sul web un blog - paesaniniland – dove un post intitolato “Ma i black bloc non sono dei delinquenti” confronta le immagini delle devastazioni dei nuovi Lanzechinecchi con il “manifesto dei futuristi” del 1909 inneggiante alla violenza, alla distruzione di monumenti e musei, in nome della lotta al passato. Si propone anche alla generazione che seguirà di eliminare tranquillamente gli stessi autori del manifesto in nome del diritto dei giovani al potere. L’autore del blog simpatizza con buona evidenza con gli uni e con gli altri e magari con i talebani che in Afghanistan distrussero le statue del terzo secolo del Budda perché preislamiche. E’ interessante, molto interessante, interessante nel senso di terrificante. I talebani sono anche fra noi. A differenza degli Stracquadani capisco qualcosa delle loro ragioni e - così dicono - ne divento complice. Anche se, da uomo del secolo passato, sono legato ai monumenti e ai musei e le ragioni degli incappucciati/futuristi mi fanno orrore.
Il movimento comunque, al netto degli incappucciati, tiene la sua rotta. Il nemico è la finanza, è l’economia di carta che tiene in scacco il mondo. Il nemico è Draghi, è Profumo, è Soros. Lerner, alludendo alle proprie radici etniche, vi fa un lieve accenno, un accenno alla finanza ebraica demonizzata dai nazisti e dai loro precursori. Ma è un terreno scivoloso su cui non conviene insistere. Perché nemici del movimento – guarda un po’ – sembrano essere quegli uomini di finanza che più appaiono sensibili alle ragioni dei giovani. Forse perché non hanno molto da perdere, forse perché l’economia di carta è meno esposta alle istanze espropriatrici dei fautori del Bene comune. Assai più esposti ed espropriabili sarebbero i patrimoni visibili della Fiat degli eleganti fratelli Elkan e il Billionaire di Briatore, che però non sono nel mirino. Sono nel mirino al più i manager, i dirigenti, con i loro smisurati compensi. E come contenerli senza ferire anche qui il mercato? Un po’ più facile è aggredire i calciatori che avrebbero (posto che sia vero) rifiutato il loro bravo contributo di solidarietà (quando era in agenda) ed Eto’ che emigra in Russia per guadagnare qualche milione in più. E’ più facile perché le loro prestazioni sono osservabili (ripartenza, dribbling, gol) mentre l’amministratore delegato non sappiamo davvero se sia un imboscato privilegiato o un insostituibile produttore di ricchezza e occupazione. Resterebbe la domanda: “che diavolo faranno Eto’ e Marchionne, raddoppiando le loro retribuzioni, con i loro nuovi milioni di euro, che sembrano valere più della dolcezza della vita milanese e della civiltà canadese?” E’ una domanda “filosofica” –pare- cioè sterile che magari mi pongo io solo, con la presunzione di considerarla una domanda importante. Non seguo per intero l’Infedele. Spengo prima, stremato da domande (che mi porto a letto) troppo stressanti per un pover’uomo del secolo passato.
*http://paesaniniland.blogspot.com/2011/10/ma-i-black-block-non-sono-dei.html?showComment=1318859855160#comment-c1737570071382843636
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mercoledì 5 ottobre 2011
La generazione sfruttata a Presadiretta
Non so se chi ha visto domenica scorsa la puntata di Presadiretta dedicata alla “Gioventù sfruttata” ha provato sentimenti simili ai miei. Penso di sì. I miei sono stati: incredulità, indignazione, collera, prostrazione, impotenza. Racconto quel che ho visto per chi ha perso la puntata che ovviamente potrà recuperare via internet. Spero poi che si sappia arrivare a qualche utile conclusione.
Il gruppo dei giornalisti coordinati da Roberto Iacona ha intervistato il mondo variegato dei giovani precari. I giovani intervistati, laureati o diplomati, erano impegnati in rapporti di lavoro penalizzanti e con assoluta incoerenza fra forma contrattuale e natura della prestazione lavorativa: partite iva e stage, soprattutto. Abbiamo visto e ascoltato giovani archeologi – prevalentemente archeologhe – di fatto al servizio di “società archeologiche”, con partita iva e un faticoso e delicato lavoro fra gli scavi, denunciare retribuzioni di 400 o 500 euro, meno della metà dei manovali che, con contratti meno “atipici”, lavoravano al loro fianco. Nessuno ha detto, come si sarebbe detto una volta: “ A saperlo non avrei perso tempo a studiare”. Forse per pudore, forse per rassegnazione, forse per rispetto del lavoro altrui, forse addirittura, mi vien da pensare, perché ci sente, oltre che sfruttati, gratificati per il fatto di svolgere un lavoro voluto e ricco di significato.
Comunque questa è l’attenzione che il paese che ha ereditato, ovviamente senza merito, il più grande patrimonio monumentale, artistico e culturale dell’umanità dedica a chi questo patrimonio dovrebbe mettere alla luce, interpretare e custodire.
Gli architetti ascoltati nel servizio stavano peggio. Erano stagisti senza remunerazione eppur quasi compiaciuti di lavorare accanto al grande Fuksas. Il quale non aveva però parole incoraggianti. Tendenti a zero secondo lui le opportunità degli architetti italiani di vivere di architettura. Più ragionevole riciclarsi nei call center o nei bar o, se dotati di un minimo di risorse familiari, fare i ristoratori. Questo del resto già avviene.
I giornalisti, praticamente quasi tutti i giornalisti, sono precari e pagati fra 15 e 30 euro a servizio (spese comprese). Molti e molte arrotondano come babysitter o simili. Coraggiosamente Iacona chiariva che i suoi collaboratori non facevano eccezione. Free lance e partite iva anche loro.
I diplomati visti a Presadiretta stavano anche peggio. Assai peggio i pochi rimasti a lavorare in Blockbuster. Licenziati i dipendenti con contratto di lavoro a tempo determinato, i sostituti aprono il negozio al mattino, lavorano tutto il giorno e chiudono a sera. Sono stagisti retribuiti con pochi euro di rimborso. Tutti, laureati e diplomati, ricattati: meglio questo che niente, meglio questo quasi niente che comunque tiene aperto un lumicino di speranza.
Poi il confronto con l’ariosa Barcellona. Lì i giovani italiani fuggiti dall’Italia delle amicizie e dei favori sembravano aver trovato l’Eden. I dipendenti tutti “regolari” a tempo indeterminato, alcuni in breve assurti a ruoli dirigenti; altri diventati imprenditori di successo, con supporto efficace della burocrazia, etc. Certo, alcuni conti non mi tornano. La Spagna ha un tasso di disoccupazione ufficiale assai più alto di quello italiano ed è il paese che ha avviato sulla spinta della disoccupazione giovanile la stagione degli indignados. Ho voluto escludere una selezione spregiudicata degli intervistati operata da Iacona. E allora? L’unica risposta che mi è rimasta è che i giovani italiani in fuga siano più brillanti e competenti dei coetanei spagnoli e che la Spagna pur nell’emergenza finanziaria e occupazionale, meno malata dell’Italia, sia ancora interessata a riconoscere e valorizzare la competenza. 70.000 giovani ogni anno lasciano l’Italia che li ha nutriti e istruiti, come se questo paese spendesse senza investire, disinteressato o incapace di recuperare quanto speso. E’ possibile questa follia? Qualcosa mi sfugge. Cosa?
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domenica 2 ottobre 2011
Della Valle e Gelmini: se non si sa di non sapere
Diego Della Valle ha pagato a caro prezzo (in euro sonanti) il clamore suscitato dalla sua uscita sui principali giornali italiani, POLITICI ORA BASTA. E molti a chiedere “che ci guadagna?”, “a cosa punta?”. E’ costume nazionale - o forse costume umano - dubitare del disinteresse, della gratuità di qualsiasi investimento. Adoriamo diffidare. Di tutto, compreso il mecenatismo e l’impegno sociale e politico non retribuito. Io invece credo alla gratuità dell’impegno di Della Valle per il suo Paese, come alla gratuità dell’amore filiale, materno, etc. L’ho detto e vado avanti. Naturalmente le reazioni sono state diverse a seconda che Della Valle appaia potenzialmente un avversario (per la destra), un concorrente (per la sinistra) o un amico (per il centro casiniano/montezemoliano). A me pare che nel manifesto di Della Valle manchi una diagnosi delle ragioni del disastro. La cosiddetta classe politica sembra una sventura venuta dal nulla o da Marte. Manca anche una proposta di metodo per la formazione di una nuova classe dirigente. Riforma elettorale? Primarie? Limite ai mandati (tre, due, uno)? Divieto di far politica per gli inquisiti? Legge rigorosa sul conflitto di interesse? Acquistare all’estero i politici? Nessuna risposta.
Fra le critiche (in mezzo a elogi ed elogi a metà) non ho riscontrato quella relativa al linguaggio e all’italiano del manifesto di Della Valle. Il manifesto, in trentaquattro interminabili righe, dice quel che era già nel titolo. POLITICI ORA BASTA. Mi viene in mente l’ansia del compagno di banco al liceo che mi chiedeva “tu quante pagine hai scritto?” Ma esaminiamo le tre righe conclusive che ribadiscono quanto detto nelle trentuno precedenti, di cui do il link in nota. 1)
A quei politici, di qualunque colore essi siano, che si sono invece contraddistinti per la totale mancanza di competenza, di dignità e di amor proprio per le sorti del Paese, saremo sicuramente in molti a volergli dire di vergognarsi.
Di qualunque colore siano qualifica il linguaggio che il democratico Andrea Sarrubbi classifica correttamente come “da bar” nel pezzo “Bar Diego” del suo blog.2) Diciamo pure che Della Valle vuole parlare agli italiani al bar. Altrimenti avrebbe detto: “A qualunque schieramento appartengano “ oppure “siano di maggioranza o di opposizione”. Ma deve rivolgersi a quelli che, stando al bar, non hanno molto tempo per studiare le parole giuste. A Della Valle sfugge che al bar la comunicazione verbale è accompagnata da quella paraverbale (sospiri, il tono che si alza o si abbassa) e da quella non verbale (scuotere la testa, sorridere, etc.). Di questo non dispone la scrittura.
Una perla preziosa, effetto della inerzia e vischiosità del linguaggio, è in quello “amor proprio” per le sorti del Paese. Ma amor proprio non significa “amore, stima per se stessi, autostima”? No, “amor proprio per le sorti del paese”. Non avrà riletto. Infine “A quei politici …. saremo in molti a volergli dire di vergognarsi”. “A quei… volergli”? D’accordo, all’università non ho neanche sostenuto l’esame di italiano e al bar anch’io ripeterei forse il complemento di termine “A quei… “volergli” e lo ripeterei con gli singolare invece che con loro plurale. Peraltro gli per il plurale non è per la verità neanche scorretto. Qui il linguaggio parlato recupera i modi della grammatica più antica, quella Di Boccaccio, ad esempio. Potremmo dire che lo gli di Della Valle ignora le convenzioni attuali del linguaggio scritto oppure che Della Valle sbagliando indovina. Ma il patron della Tod’s ha pubblicato un manifesto sui massimi giornali italiani e con l’ambizione di redigere un manifesto “storico”, ritengo. E allora arrivo alle considerazioni che mi interessano e non sono state fatte. Della Valle non dispone di un ghostwriter , di uno che traduca i suoi pensieri in un italiano meno sciatto, più nitido e pulito che possa accompagnare un documento alla storia? Eppure disponiamo di migliaia, decine di migliaia di laureati in lettere e di vituperati laureati in scienze della comunicazione . Ricordate? “Ma come pensa di poter lavorare con quella laurea inflazionata”, provocazione di un celebre giornalista a un giovane laureato disoccupato in un talk show, variamente replicata poi da ministri della Repubblica. Si è sprecata l’ironia sul comunicato della Gelmini, a proposito dei neutrini che avrebbero attraversato la famosa galleria. Non aveva scritto lei il comunicato, si è difesa la ministra. L’autore, vero o presunto tale, si è dimesso dall’incarico (no, non è finito senza lavoro), a tutela del buon nome della ministra. Nessuno è tenuto a sapere dei neutrini e nessuno a sapere del complemento di termine. Però, come ha detto qualcuno, “bisogna sapere quel che non si sa”, insomma essere consapevoli delle proprie ignoranze. La Gelmini ha dimostrato di non avere tale conoscenza se ha scritto lei il comunicato o di non aver conoscenza dei limiti dell’incaricato, da lei scelto con tutta probabilità per motivazioni diverse dalla competenza. La stessa ironia allora dovremmo rivolgere alla pagina di Della Valle che ha dimostrato di “non sapere di non sapere” l’italiano. E vero, la pagina di Della Valle è coerente con le modalità espressive populistiche dei nostri tempi . Lo scritto è assimilato all’orale di cui replica la melodia e, non disponendo di toni e sospiri, rinuncia alla chiarezza dell’informazione e sposa l’ambiguità. All’indomani della gran seduta del 29 luglio dell’ufficio di presidenza del Pdl che sanciva la cacciata di Fini, mi capitò di leggere una bella analisi linguistica del documento di quel partito, sciatto né più né meno di quello di cui sto discutendo. La lettura, puntualissima e critica, era opera di un giovane filologo italiano, rigorosamente disoccupato in quanto filologo e italiano. E si capisce perché i nostri bravi laureati in lettere e scienze della comunicazione debbano restare inoccupati. E’ un tema che sollevo periodicamente qua e là, senza fortuna, quello della competenza degli imprenditori. Sui saperi e le competenze dei politici è gioco facile. Tutti ci siamo o stupiti o divertiti o indignati per le interviste volanti di qualche tempo fa delle Iene ai parlamentari. Confondevano il Darfur con una marca di caramelle, sbagliavano di decenni e secoli le date della scoperta dell’America e della proclamazione del Regno d’Italia; dimostravano ignoranza grave del testo della Costituzione, etc. Ma gli imprenditori? A loro si contesta al più di essere imprenditori. Di spostare l’azienda dove essa è più redditiva. Sì, magari il sindacato e l’opposizione diranno che l’imprenditore non ha saputo capire che quella impresa a Termini Imerese o in Sardegna può avere un brillante futuro. Ma è ovvio che si tratta di un copione scontato. Non mi è mai capitato invece di sentir contestare all’imprenditore di essere incapace di valutare la qualità dei suoi dipendenti. Non si contesta ai giovani virgulti di Confindustria, eredi di fortune familiari, di non essere preoccupati abbastanza della propria formazione sì da dover tutto delegare a costosissimi manager. E non si contesta a Della Valle di non saper delegare la scrittura del suo manifesto, di non sapere di non sapere, esattamente come la Gelmini. Se i nostri ministri e i nostri imprenditori credono di sapere siamo veramente fritti. Per fortuna io, radicalmente socratico, so di non sapere praticamente nulla. Di questo sapere mi accontento.
1) http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2011/10/01/pop_dellavalle.shtml
2) http://www.andreasarubbi.it/?p=6675
Fra le critiche (in mezzo a elogi ed elogi a metà) non ho riscontrato quella relativa al linguaggio e all’italiano del manifesto di Della Valle. Il manifesto, in trentaquattro interminabili righe, dice quel che era già nel titolo. POLITICI ORA BASTA. Mi viene in mente l’ansia del compagno di banco al liceo che mi chiedeva “tu quante pagine hai scritto?” Ma esaminiamo le tre righe conclusive che ribadiscono quanto detto nelle trentuno precedenti, di cui do il link in nota. 1)
A quei politici, di qualunque colore essi siano, che si sono invece contraddistinti per la totale mancanza di competenza, di dignità e di amor proprio per le sorti del Paese, saremo sicuramente in molti a volergli dire di vergognarsi.
Di qualunque colore siano qualifica il linguaggio che il democratico Andrea Sarrubbi classifica correttamente come “da bar” nel pezzo “Bar Diego” del suo blog.2) Diciamo pure che Della Valle vuole parlare agli italiani al bar. Altrimenti avrebbe detto: “A qualunque schieramento appartengano “ oppure “siano di maggioranza o di opposizione”. Ma deve rivolgersi a quelli che, stando al bar, non hanno molto tempo per studiare le parole giuste. A Della Valle sfugge che al bar la comunicazione verbale è accompagnata da quella paraverbale (sospiri, il tono che si alza o si abbassa) e da quella non verbale (scuotere la testa, sorridere, etc.). Di questo non dispone la scrittura.
Una perla preziosa, effetto della inerzia e vischiosità del linguaggio, è in quello “amor proprio” per le sorti del Paese. Ma amor proprio non significa “amore, stima per se stessi, autostima”? No, “amor proprio per le sorti del paese”. Non avrà riletto. Infine “A quei politici …. saremo in molti a volergli dire di vergognarsi”. “A quei… volergli”? D’accordo, all’università non ho neanche sostenuto l’esame di italiano e al bar anch’io ripeterei forse il complemento di termine “A quei… “volergli” e lo ripeterei con gli singolare invece che con loro plurale. Peraltro gli per il plurale non è per la verità neanche scorretto. Qui il linguaggio parlato recupera i modi della grammatica più antica, quella Di Boccaccio, ad esempio. Potremmo dire che lo gli di Della Valle ignora le convenzioni attuali del linguaggio scritto oppure che Della Valle sbagliando indovina. Ma il patron della Tod’s ha pubblicato un manifesto sui massimi giornali italiani e con l’ambizione di redigere un manifesto “storico”, ritengo. E allora arrivo alle considerazioni che mi interessano e non sono state fatte. Della Valle non dispone di un ghostwriter , di uno che traduca i suoi pensieri in un italiano meno sciatto, più nitido e pulito che possa accompagnare un documento alla storia? Eppure disponiamo di migliaia, decine di migliaia di laureati in lettere e di vituperati laureati in scienze della comunicazione . Ricordate? “Ma come pensa di poter lavorare con quella laurea inflazionata”, provocazione di un celebre giornalista a un giovane laureato disoccupato in un talk show, variamente replicata poi da ministri della Repubblica. Si è sprecata l’ironia sul comunicato della Gelmini, a proposito dei neutrini che avrebbero attraversato la famosa galleria. Non aveva scritto lei il comunicato, si è difesa la ministra. L’autore, vero o presunto tale, si è dimesso dall’incarico (no, non è finito senza lavoro), a tutela del buon nome della ministra. Nessuno è tenuto a sapere dei neutrini e nessuno a sapere del complemento di termine. Però, come ha detto qualcuno, “bisogna sapere quel che non si sa”, insomma essere consapevoli delle proprie ignoranze. La Gelmini ha dimostrato di non avere tale conoscenza se ha scritto lei il comunicato o di non aver conoscenza dei limiti dell’incaricato, da lei scelto con tutta probabilità per motivazioni diverse dalla competenza. La stessa ironia allora dovremmo rivolgere alla pagina di Della Valle che ha dimostrato di “non sapere di non sapere” l’italiano. E vero, la pagina di Della Valle è coerente con le modalità espressive populistiche dei nostri tempi . Lo scritto è assimilato all’orale di cui replica la melodia e, non disponendo di toni e sospiri, rinuncia alla chiarezza dell’informazione e sposa l’ambiguità. All’indomani della gran seduta del 29 luglio dell’ufficio di presidenza del Pdl che sanciva la cacciata di Fini, mi capitò di leggere una bella analisi linguistica del documento di quel partito, sciatto né più né meno di quello di cui sto discutendo. La lettura, puntualissima e critica, era opera di un giovane filologo italiano, rigorosamente disoccupato in quanto filologo e italiano. E si capisce perché i nostri bravi laureati in lettere e scienze della comunicazione debbano restare inoccupati. E’ un tema che sollevo periodicamente qua e là, senza fortuna, quello della competenza degli imprenditori. Sui saperi e le competenze dei politici è gioco facile. Tutti ci siamo o stupiti o divertiti o indignati per le interviste volanti di qualche tempo fa delle Iene ai parlamentari. Confondevano il Darfur con una marca di caramelle, sbagliavano di decenni e secoli le date della scoperta dell’America e della proclamazione del Regno d’Italia; dimostravano ignoranza grave del testo della Costituzione, etc. Ma gli imprenditori? A loro si contesta al più di essere imprenditori. Di spostare l’azienda dove essa è più redditiva. Sì, magari il sindacato e l’opposizione diranno che l’imprenditore non ha saputo capire che quella impresa a Termini Imerese o in Sardegna può avere un brillante futuro. Ma è ovvio che si tratta di un copione scontato. Non mi è mai capitato invece di sentir contestare all’imprenditore di essere incapace di valutare la qualità dei suoi dipendenti. Non si contesta ai giovani virgulti di Confindustria, eredi di fortune familiari, di non essere preoccupati abbastanza della propria formazione sì da dover tutto delegare a costosissimi manager. E non si contesta a Della Valle di non saper delegare la scrittura del suo manifesto, di non sapere di non sapere, esattamente come la Gelmini. Se i nostri ministri e i nostri imprenditori credono di sapere siamo veramente fritti. Per fortuna io, radicalmente socratico, so di non sapere praticamente nulla. Di questo sapere mi accontento.
1) http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2011/10/01/pop_dellavalle.shtml
2) http://www.andreasarubbi.it/?p=6675
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