Parlo di un film per allontanarmi dalla politica. Un po’ perché la politica è troppo complicata per me. So quel che mi piace. So quel che non mi piace. Non ho ricette sicure per raggiungere l’obiettivo di quel mondo in cui mi piacerebbe vivere. Non riesco a illudermi – l’ho detto più volte – che basti rimuovere Berlusconi o Martone o Schettino o Monti o la finanza. Non sono neanche sicuro che basti rimuovere il mercato o il capitalismo, anche se questo sarebbe il cambiamento radicale che riesco a immaginare. Pare che abbiamo sperimentato anche questo col socialismo reale. Pare perché forse il socialismo potrebbe essere una cosa diversa. Pare, potrebbe.
Parlo di Shame perché il film mi ricorda decisive ragioni per andare oltre o prima della politica. Così posso sentirmi assolto per la mia “incompetenza”, come incompetenza in ultima analisi riguardante una cosa, grande quanto vuoi, ma comunque minore.
Non ho nemmeno gli strumenti per produrmi in una critica cinematografica. Su questo me la caverò in due righe.
Comincio col dire che non mi era mai capitato prima di essere parte di un cineforum improvviso e informale come un happening, all’uscita dal cinema. Le poche coppie presenti che rompono il ghiaccio con sguardi interrogativi e domande del tipo: “Scusi. Ho perso l’inizio. Ma era successo qualcosa?” “No, non era successo niente e non c’è nulla da spiegare” cerco inutilmente di affermare. Ma non c’è verso. Per spiegare l’abiezione e il dolore del protagonista consumati in ossessivi rituali sessuali qualcuno presume un trauma infantile, chi un incesto ancora lacerante, etc.
Il film divide il pubblico, con tutta evidenza. Non per la regia, non per la fotografia, non per la colonna sonora, non per gli attori, elementi tutti apprezzati. Mostrano delusione per il film quelli che vi leggono la storia di una dipendenza da sesso di un giovane, affascinante manager in una New York opulenta e livida. Questa parte del pubblico si affatica a cercare una spiegazione dell'origine della "malattia" e così evita di vedere quello che siamo o stiamo diventando. Cerca nella psicologia ciò che a mio avviso può trovare solo nell’antropologia, nell’uomo com’è oggi o addirittura come è sempre stato. Non servono, per dire, le riflessioni psicoterapiche, con la speranza di salvezza, del Freud più giovane. Servono le riflessioni del Freud più tardo e l’iscrizione di Eros e Thanatos nella parte costitutiva, ineliminabile, dell’umano. Il protagonista, Brandon, è solo l'avanguardia di una umanità vicina a scoprire l’abisso. La "malattia" (l'anomalia) non è di Brandon. E’ nella storia delle illusioni che abbiamo alle spalle: l'amore, la famiglia, la patria, la politica, etc.. Quando le illusioni cadono resta la solitudine davanti all'incubo della cosa impensabile e impronunciabile: la morte. Solo l'orgasmo - la piccola morte, la petite mort dei francesi - può farla dimenticare: per l'intensità anestetica del sesso, replicabile più di altre pratiche anestetiche, nelle innumerevoli formi possibili che il protagonista esibisce, dell'accoppiamento etero, omo, multiplo/orgiastico, dell'onanismo, delle infinite occasioni del sesso virtuale. E’ un eros potenzialmente “democratico” oggi, aperto a tutti, non solo al bellissimo e infelicissimo protagonista. E forse a quanti hanno creduto di assistere alla storia di una banale e rassicurante patologia individuale sfugge che, accanto al protagonista, esibiscono segni dell’invadenza totalitaria dell’eros anche i personaggi minori. La sorella del protagonista, tra un tentativo e l’altro di suicidio intervallato da accoppiamenti “gratuiti”. Così il suo partner di un momento. Così la ragazza incontrata nella metro che gode onanisticamente per quel che sembra l’annuncio di un rapporto. E invece il rapporto non c’è e non è neanche cercato. La ragazza, inutilmente inseguita, sparirà nella folla, sapendo di trovare all’occorrenza altre emozioni, dono di Eros. La vita però -ahimè - non può essere riempita da un orgasmo ininterrotto. Il protagonista attinge al fondo della libido e dello stordimento nella splendida scena dell'orgia mercenaria dai corpi bellissimi scolpiti con una fotografia innamorata e rapita. Lì l’orgasmo si mischia a singhiozzi disperati. Da lì Brandon sembra smettere di inseguire lo stordimento e l'oblio. Cos'altro troverà l'autore non dice. L'alternativa l'aveva già mostrata nell’ultimo tentativo di suicidio della sorella: vincere la morte, andandole incontro.
Penso a queste cose dunque. Alla New York opulenta paradigma dell’occidente opulento dalle opportunità infinite. E mi sembra che la disperazione sia l’esito di quella opulenza, come del suo rovescio, la penuria e la precarietà. Penso anche che in Italia abbiamo incontrato i segni di quella disperazione in analoga forma. E’ strano che non ci si pensi guardando il film. Abbiamo visto un uomo che in sé cumulava ricchezza, potere ed anche amore smisurato di folle adoranti, compromettere tutto per inseguire l’assoluto: il potere assoluto in un paese ridotto all’harem di un sultano. L’abbiamo conosciuto e non lo abbiamo veramente compreso perché non abbiamo compreso la disperazione di quell’uomo. Abbiamo inibito la nostra “comprensione” perché ci sembrava di assolverlo qualora lo avessimo compreso. Era giusto non assolverlo per aver messo in ginocchio un paese solo per disporre dell’harem che gli facesse dimenticare il mausoleo che lo aspetta ad Arcore. Dovevamo comprenderlo però perché ci ha indicato la strada che ci aspetta quando non saremo più distratti dalla fatica, dagli ideali e da quanto inventiamo per dimenticare la morte. E, secondariamente, ha reso pubblica una cosa normalmente taciuta: la sessualità degli anziani ed eros che mai non arretra .
Ora la scoperta di un dio e dell’immortalità mi sembra l’antidoto possibile all’eros distruttivo. Per chi – come me – è lontano da tale scoperta, resta la politica come speranza di superare il dolore della penuria e quello dell’abbondanza. Già, perché la politica viene dopo la filosofia che è la lente con cui guardiamo il mondo e però viene prima perché ci induce a scegliere una lente o un’altra lente. Non ero partito sapendo di arrivare a questo. Comunicando con gli altri comunichiamo con noi stessi e ci cambiamo. Anche Mc Queen, il regista di Shame, sospetto, cominciò a girare il suo film con quel titolo, accorgendosi forse poi che il tema non era la vergogna ma la paura: era Eros e Thanatos. Ma non cambiò il titolo. O forse continuò a pensare di aver parlato della patologia di un uomo. Io invece il mio titolo l’ho cambiato più volte, man mano che scoprivo di cosa veramente volevo parlare.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento