L'impressione immediata arrivando a New York è che lì a lavorare siano solo neri. Neri i controllori e gli inservienti all'aeroporto J.F. Kennedy. Neri i poliziotti e le poliziotte che scorgo sul tragitto per l'hotel, neri i netturbini e neri gi operai nei tanti cantieri aperti. Ancora neri (e alcuni ispanici) a servire nei bar e ristoranti. Eppure i neri, benché numerosi, sono “solo” il 23 % della popolazione. Insomma lo svantaggio dei nipoti degli schiavi è tutt'altro che superato. Altro che ascensori sociali... I bianchi che, da turista, non vedo al lavoro sono evidentemente a scuola, negli uffici o anche nelle fabbriche. Bianchi sono prevalentemente quelli che vedrò nei giorni seguenti correre per strada con il cellulare all'orecchio, destreggiandosi fra auto e pedoni nel traffico incredibile. Il traffico a Manhattan è incredibilmente più intenso e caotico che a Roma. Addirittura. E il rumore di clacson e sirene varie è assordante. Quasi tutti bianchi sono invece quelli che fanno footing a Central Park. Come bianchi sono i bambini in carrozzina accuditi da baby sitter nere: mai il contrario.
Altra cosa che non mi aspettavo nella dimensione osservata è stata l'obesità. Con punte patologiche nella popolazione giovanile, bianca, nera ed ispanica; fenomeno inter-etnico almeno questo.
Qualcosa non esiste più, non almeno nei termini in cui ci si aspettava. Harlem ad esempio, è un quartiere “normale” e per nulla caratterizzato. Vi ho seguito un concerto gospel, molto bello e però del tutto inserito nei circuiti del turismo, con cantanti ex tossicodipendenti che la guida teneva a qualificare in tal modo. Si consuma la narrazione dell'emancipazione dalla dipendenza drogastica così come si consuma, nella campagna dello Stato di New York la visita alla comunità degli Amish, asceti senza corrente elettrica, ma con fotovoltaico e con caratteristici calessi che ospitano turisti dietro congrue mance.
New York appare tutto un cantiere: di opere nuove e avveniristiche e di restauri e di conversioni. Così a Chelsea dove la linea ferroviaria è convertita in una suggestiva high line, sentiero pedonale panoramico.
Qualcosa non esiste più, non almeno nei termini in cui ci si aspettava. Harlem ad esempio, è un quartiere “normale” e per nulla caratterizzato. Vi ho seguito un concerto gospel, molto bello e però del tutto inserito nei circuiti del turismo, con cantanti ex tossicodipendenti che la guida teneva a qualificare in tal modo. Si consuma la narrazione dell'emancipazione dalla dipendenza drogastica così come si consuma, nella campagna dello Stato di New York la visita alla comunità degli Amish, asceti senza corrente elettrica, ma con fotovoltaico e con caratteristici calessi che ospitano turisti dietro congrue mance.
New York appare tutto un cantiere: di opere nuove e avveniristiche e di restauri e di conversioni. Così a Chelsea dove la linea ferroviaria è convertita in una suggestiva high line, sentiero pedonale panoramico.
A parte gli angoli verdi e riposanti disegnati fra i grattacieli, se debbo scegliere ciò che più mi ha emozionato dirò la vista di Manhattan da Brooklyn: Manhattan dai mille grattacieli, oltre il ponte sull'Hudson sembra inventata per il piacere degli occhi di chi la guarda da Brooklyn.
Identità nazionali e fraintendimenti
In viaggio si va per stupirsi. Stupirsi se ci si scopre eguali e se ci si scopre diversi. Più spesso si annotano le diversità, come io faccio qui. Senza esagerare e generalizzare. Ho detto degli americani più obesi. Obesità inconfrontabili per diffusione e gravità alle nostre. Dico ora degli americani più gentili. Almeno confrontando newyorkesi con romani. A Roma non mi capita quasi mai di sentire “scusi”. A New York, ma anche a Filadelfia e Washington e pure in Canada, a Toronto, era un continuo “Sorry”. Anche se solo ti si sfiorava salendo in ascensore. Adulti e ragazzi. Con un sorriso e un cenno della mano. Cito anche un episodio particolare e significativo di una gentilezza che non è di maniera. Presso il versante americano alle cascate del Niagara un improvviso “bisogno” fisiologico costringe a cercare un bagno di emergenza. C'è un grande magazzino che sta per aprire. Si chiede aiuto ad una addetta. Quella si mobilita e ti accompagna in un bagno aperto al piano superiore. Sono poco patriottico a pensare che in Italia si sarebbe risposto con gesti significanti “si arrangi”? A proposito di bagni, quelli degli alberghi a New York sono aperti a chi ne ha bisogno, senza formalità alcuna. Resto sull'argomento “bagni” anche come spaccato o pretesto per esibire differenze e fraintendimenti. Scopro che in ogni restroom (bagno) Usa c'è una scritta sopra il lavello che invita a lavarsi le mani. Non ero sicuro di averne capito il senso dapprima. Peraltro le scritte non sono identiche. Ma il senso è che gli addetti del locale debbono lavarsi le mani prima di tornare al lavoro. Mai visto qualcosa di simile in Italia. Anzi invito gli amici a correggermi eventualmente. Con i compagni di viaggio nasce una discussione. Perché la scritta in un bagno aperto al pubblico? Se l'invito è rivolto ai dipendenti non basterebbe rivolgerlo in privato? La mia ipotesi è che si vogliano rassicurare i clienti di bar e ristoranti sulla igiene e sulla pulizia di chi li serve. Qualcuno pensa invece che camerieri e cuochi americani siano mediamente meno puliti di italiani, europei o stranieri in genere e quindi abbisognino di raccomandazioni diffuse. Dubito. Non mi è capitato di osservare in Usa fruitori di bagni (in qualche caso certamente dipendenti) che non lavassero le mani dopo l'uso del WC. A differenza che in Italia. Ma, insomma, sto mescolando troppe cose insieme: cultura materiale, linguaggi, intenzioni, equivoci.
Passo ad altro con la mediazione del tema dello “equivoco”. Un equivoco che quasi mi procura una sincope si verifica mentre attendo con gli amici il bus che ci porterà ad Harlem. Come forse sapete, a New York il fumo è interdetto ben oltre i luoghi chiusi: anche nei parchi ed anche nei pressi immediati di edifici pubblici ed aperti al pubblico. Io sto fumando allora una delle mie poche sigarette quotidiane, abbastanza distante dall'agenzia in cui abbiamo acquistato i biglietti del tour. Succede che un tale mi chiama verso di sé sventolando una banconota. Brivido. Sono convinto che sia un agente in borghese che mi vuole multare. Come sosterrò la reprimenda di mia moglie mal rassegnata al mio vizio? Respiro. No, non è un agente. Quel signore mi sta offrendo un dollaro per avere in cambio una sigaretta. Visto che un pacchetto negli Usa può costare 20 dollari, un dollaro è il prezzo giusto. E quel signore evidentemente non può permettersi di comprare un pacchetto. Non prendo il dollaro naturalmente e racconto allo stupito interlocutore che in Italia un pacchetto costa meno di 5 dollari, con suo grande stupore.
Nota finale. In Italia la bandiera sta solo negli edifici pubblici. Negli Usa la bandiera stella e strisce sta negli edifici pubblici, ma anche nelle fattorie di campagna. E le narrazioni nazionali sono frequenti assai più che da noi. Vedi il Parco di Filadelfia, la vecchia capitale, con i luoghi in cui fu firmata la Dichiarazione di indipendenza e la Costituzione. E vedi i monumenti e i memoriali di Washington, capitale attuale, dedicati a Jefferson, Lincoln, M.L. King. Senza dimenticare il cimitero di Arlington o il recente spazio di Ground Zero, memoriale della prima grande tragedia del secolo. Spazi e monumenti tutti affollati, oltre che da turisti, da folte scolaresche in divisa. Un po' più disciplinate che in Italia, mi è sembrato. Un po' meno distratte da cellulari e, soprattutto nei musei, molto coinvolte dai docenti che invitano per esempio gli studenti ad assumere la posa dei personaggi dei quadri. Vorrei anche dire che la diffusione dei simboli, bandiere ed eroi mi è sembrata paragonabile negli Usa a quella osservata nella rivale Cuba dove vidi il Che, insieme all'eroe della indipendenza nazionale, Josè Martin, presenti in ogni borgo, con monumenti, quadri, foto e detti memorabili. Niente di simile in Italia con Garibaldi, Cavour, Mazzini e Vittorio Emanuele. Magari somiglieremo a Usa e Cuba in futuro con i nipoti in pellegrinaggio – chissà- al mausoleo di Salvini. Dopo qualche decennio di educazione al “prima gli italiani, prima l'Italia” potrà succedere, probabilmente nelle forme grottesche di un neofascismo. Non nelle forme sobrie con cui Ciampi provò a rilanciare i simboli dell'identità nazionale come compatibile e in armonia con l'identità europea. Senza troppo successo.
Passo ad altro con la mediazione del tema dello “equivoco”. Un equivoco che quasi mi procura una sincope si verifica mentre attendo con gli amici il bus che ci porterà ad Harlem. Come forse sapete, a New York il fumo è interdetto ben oltre i luoghi chiusi: anche nei parchi ed anche nei pressi immediati di edifici pubblici ed aperti al pubblico. Io sto fumando allora una delle mie poche sigarette quotidiane, abbastanza distante dall'agenzia in cui abbiamo acquistato i biglietti del tour. Succede che un tale mi chiama verso di sé sventolando una banconota. Brivido. Sono convinto che sia un agente in borghese che mi vuole multare. Come sosterrò la reprimenda di mia moglie mal rassegnata al mio vizio? Respiro. No, non è un agente. Quel signore mi sta offrendo un dollaro per avere in cambio una sigaretta. Visto che un pacchetto negli Usa può costare 20 dollari, un dollaro è il prezzo giusto. E quel signore evidentemente non può permettersi di comprare un pacchetto. Non prendo il dollaro naturalmente e racconto allo stupito interlocutore che in Italia un pacchetto costa meno di 5 dollari, con suo grande stupore.
Nota finale. In Italia la bandiera sta solo negli edifici pubblici. Negli Usa la bandiera stella e strisce sta negli edifici pubblici, ma anche nelle fattorie di campagna. E le narrazioni nazionali sono frequenti assai più che da noi. Vedi il Parco di Filadelfia, la vecchia capitale, con i luoghi in cui fu firmata la Dichiarazione di indipendenza e la Costituzione. E vedi i monumenti e i memoriali di Washington, capitale attuale, dedicati a Jefferson, Lincoln, M.L. King. Senza dimenticare il cimitero di Arlington o il recente spazio di Ground Zero, memoriale della prima grande tragedia del secolo. Spazi e monumenti tutti affollati, oltre che da turisti, da folte scolaresche in divisa. Un po' più disciplinate che in Italia, mi è sembrato. Un po' meno distratte da cellulari e, soprattutto nei musei, molto coinvolte dai docenti che invitano per esempio gli studenti ad assumere la posa dei personaggi dei quadri. Vorrei anche dire che la diffusione dei simboli, bandiere ed eroi mi è sembrata paragonabile negli Usa a quella osservata nella rivale Cuba dove vidi il Che, insieme all'eroe della indipendenza nazionale, Josè Martin, presenti in ogni borgo, con monumenti, quadri, foto e detti memorabili. Niente di simile in Italia con Garibaldi, Cavour, Mazzini e Vittorio Emanuele. Magari somiglieremo a Usa e Cuba in futuro con i nipoti in pellegrinaggio – chissà- al mausoleo di Salvini. Dopo qualche decennio di educazione al “prima gli italiani, prima l'Italia” potrà succedere, probabilmente nelle forme grottesche di un neofascismo. Non nelle forme sobrie con cui Ciampi provò a rilanciare i simboli dell'identità nazionale come compatibile e in armonia con l'identità europea. Senza troppo successo.
Panorami naturali ed umani
Cerchiamo questi e quelli nel viaggio. Io forse un po' più i secondi, pur sapendo che gli uni e gli altri si intrecciano spesso. Nella parte del viaggio dedicato al Canada – un pezzo, quello prossimo al Niagara – ho visto più natura che uomini, anche perché con le persone ho parlato poco. Ho camminato in una gola attraversata da un torrente impetuoso e una cascata, il Watkins Glenn Canion. Ho ammirato la potenza del Niagara. Ho visitato piccole città: Niagara on the Lake, la città più vicina alle cascate mi ha colpito per il suo essere un mero divertimentificio. Con grandi Luna Park, Casinò e cose simili. Una piccola Las Vegas o una piccola Atlantic city (che non ho mai visto), immagino. Il contrario del posto in cui vorrei vivere. Ma è interessante anche capire ciò che rifiuto. Poi ho dormito nella cittadina di Ganonoque, tutt'altra cosa. Con pochi abitanti, dispersi in casette unifamiliari sul lago Ontario. Curatissima. Pulitissima. Con bei giardini e piante colorate. Con le sedi pubbliche ben esposte e che pubblicizzano i loro servizi: il Comune, la biblioteca. E il parco sul torrente. Segue la gita in battello sull'Ontario con le mille isole; che in realtà sono assai più di mille, molte antropizzate da villette e castelli. Vedo poco Toronto. Mi sembra una città modernamente armoniosa, dominata dall'alto obelisco, con una parte più nuova costruita sotto la più vecchia.
Poi il ritorno a New York. Dove ho trovato tracce frequenti d'Italia. I ristoranti, sia quelli italiani, sia quelli americani che però hanno sempre prodotti dal nome italiano: pizza, panino, spaghetti, etc. L'Italia e l'italiano presenti nel cibo più ancora che nella moda. Due volte a cena da Eataly che si affaccia sullo splendore dei grattacieli illuminati di Madison Square. Lì ho conosciuto Thomas, giovane irlandese che studia canto e lirica e perciò parla italiano e ama l'Italia, presente ovunque come dice la sua felpa. Anche Esther, la nera che ci ha guidato ad Harlem, parlava un ottimo italiano ed anche lei aveva imparato la nostra lingua studiando canto e praticando la lirica. L'ultima sera, vicino all'albergo, abbiamo festeggiato il compleanno di una cara amica in un ristorante italiano, con chef italiano di Brindisi e la sorella cameriera. Bravissimi entrambi. Che non torneranno in Italia, se non in vacanza. L'Italia si svuota, disseminando il suo cibo, la sua moda, la sua musica, la sua lingua e la sua gioventù nel mondo.
Poi il ritorno a New York. Dove ho trovato tracce frequenti d'Italia. I ristoranti, sia quelli italiani, sia quelli americani che però hanno sempre prodotti dal nome italiano: pizza, panino, spaghetti, etc. L'Italia e l'italiano presenti nel cibo più ancora che nella moda. Due volte a cena da Eataly che si affaccia sullo splendore dei grattacieli illuminati di Madison Square. Lì ho conosciuto Thomas, giovane irlandese che studia canto e lirica e perciò parla italiano e ama l'Italia, presente ovunque come dice la sua felpa. Anche Esther, la nera che ci ha guidato ad Harlem, parlava un ottimo italiano ed anche lei aveva imparato la nostra lingua studiando canto e praticando la lirica. L'ultima sera, vicino all'albergo, abbiamo festeggiato il compleanno di una cara amica in un ristorante italiano, con chef italiano di Brindisi e la sorella cameriera. Bravissimi entrambi. Che non torneranno in Italia, se non in vacanza. L'Italia si svuota, disseminando il suo cibo, la sua moda, la sua musica, la sua lingua e la sua gioventù nel mondo.