Prima piccolo artigiano fallito poi operaio licenziato, un uomo di 44 anni del fu ricco nordest, decide di impiccarsi. La moglie, di 7 anni più giovane, lo salva appena in tempo. Poi lei, come le donne innamorate dei film o forse della realtà, lo rassicura dicendogli che ha trovato lavoro come badante di notte. Si tirerà avanti col suo stipendio fino a che lui non troverà un nuovo lavoro. Succede però che un giorno la polizia telefona al marito informandolo che la moglie è stata presa in una retata. Faceva la prostituta. Apparentemente quieta, comprensiva e grata la reazione del marito che anzi fa una sorta di breve relazione socio-economica sul fatto. “E’ una situazione che ho imparato ad accettare, ma che non mi sta assolutamente bene. Per questo continuo nella disperata ricerca di un lavoro. Qualsiasi, purché sia onesto”. E poi: “Non so quanto resista il padrone di casa prima di buttarci fuori. Mia moglie riesce a portare a casa anche centocinquanta euro in una sera, se va bene. Ma spesso torna a mani vuote. Con quello che guadagna riusciamo a mangiare. Ma così non può continuare”. Bene. Forse una volta eravamo intrisi di pregiudizi. Forse una volta a una moglie non sarebbe apparso naturale risolvere il problema drammatico della sopravvivenza in quel modo. Forse una volta un marito come il suo non avrebbe rilasciato una intervista come quella, in cui non appare chiaro se il disappunto sia per la tipologia del lavoro della moglie o per la sua natura precaria (non da posto fisso). Non formulo nessun giudizio morale. Caso mai mi dichiaro sbigottito per quello smisurato amore femminile che è amore per il compagno e – apparentemente (o no?) – disamore per la propria persona. Ho parlato di pregiudizi perché non escludo che la donna possa aver sentito quel prostituirsi come cosa non diversa che offrire il proprio corpo per un lavoro di fabbrica o la propria perizia come cosa non diversa dalla perizia di una manicure. E’ tempo che superiamo i nostri pregiudizi a riguardo? Peraltro da tempo presunte studentesse e casalinghe “insoddisfatte” si propongono nel mercato dei precari del sesso, probabilmente quasi sempre professioniste con forti competenze di marketing. Hanno capito l’attrattiva maggiore di un rapporto con una “dilettante”. Però adesso forse comincia a diventare autentico il mercato del sesso precario.
Significato per qualche aspetto simile attribuisco a un’altra storia di cui ho letto recentemente. Una grossa azienda statunitense di abbigliamento, la Ecko, propone con successo uno scambio: fatevi tatuare sul corpo il nostro marchio e in cambio avrete, vita natural durante, uno sconto del 20% sui nostri prodotti.
Magari l’offerta non “discrimina” gli uomini, ma immagino che per promuovere merci il corpo maschile abbia minor appeal. Mi sto chiedendo comunque: E’ questo l’epilogo della rivendicazione femminista “Il corpo è mio e ne dispongo come voglio?” Lo chiedo non retoricamente. Magari è tutto giusto.
Però – ripeto - mi preoccupa un po’ la reazione del marito di cui dicevo prima. Se il corpo femminile ha un mercato che quello maschile non ha, allora la crisi potrebbe lasciare integri i corpi degli uomini e aggredire con sesso e tatuaggi i corpi femminili, ultima riserva di famiglie senza risparmi e senza stato sociale.
sabato 11 febbraio 2012
Il gelo e i sensi di colpa
Della settimana scorsa e della prima emergenza neve ricordo il senso di colpa. Al normale, quotidiano, senso di colpa verso chi è senza lavoro si aggiungeva il senso di colpa eccezionale per chi andava al lavoro, affrontando pioggia, neve, gelo, mezzi pubblici in tilt. Insomma, mentre in genere il pensionato mi appare come un escluso dai piaceri della vita attiva, all'improvviso sentivo tutto il privilegio di quella condizione. Ero chiuso e protetto nella mia casa calda sul litorale romano, già risparmiato dall'infierire climatico su Roma, mentre anche le mie figlie, come milioni di italiani, non avevano altra scelta che sfidare la tormenta per apparire lavoratrici affidabili.
Così oggi la nemesi. Non posso mancare all'appuntamento in un ospedale lontano da casa nella capitale d'Italia, metropoli troppo estesa. Prendo il trenino e poi il bus imbacuccato come non mai, addirittura con cappello, sciarpa, guanti, ombrello, etc.. Mancano solo i mutandoni di lana e il pigiama felpato che portavo quando d'inverno, a Bologna, ero di guardia all'aperto davanti alla caserma del 17° Reggimento di artiglieria contraerea, giacché con gli anni comunque mi sono ringiovanito e liberato sempre più dei pesi eccessivi. All'andata soffro con moderazione: freddo e nevischio in faccia nello spostamento da un mezzo pubblico all'altro e nient'altro. Al ritorno è un incubo. Un'ora in attesa di un bus che non arriva, mentre la temperatura si abbassa e i piedi si congelano, sotto (???) una pensilina strettissima che finge di ripararti da pioggia, neve e vento. Un'anima buona poi mi avverte che il bus da lì passa ad ore imprecisate. Conviene prenderne un altro in direzione opposta, arrivare alla metro e prendere il trenino per Ostia. Così faccio, sperando di arrivare a casa prima che arrivi il peggio. Insomma ora sono qui di nuovo al calduccio e mi viene da pensare ai lavoratori mostrati l'altro giorno a Piazza Pulita, che fanno il cottimo all'inferno a spostare scatole di surgelati in un ambiente a -30 gradi, rinunciando alle pause per arrivare ai fatidici 1.000 euro al mese. I sensi di colpa e lo stupore per un mondo incomprensibile ritornano.
Così oggi la nemesi. Non posso mancare all'appuntamento in un ospedale lontano da casa nella capitale d'Italia, metropoli troppo estesa. Prendo il trenino e poi il bus imbacuccato come non mai, addirittura con cappello, sciarpa, guanti, ombrello, etc.. Mancano solo i mutandoni di lana e il pigiama felpato che portavo quando d'inverno, a Bologna, ero di guardia all'aperto davanti alla caserma del 17° Reggimento di artiglieria contraerea, giacché con gli anni comunque mi sono ringiovanito e liberato sempre più dei pesi eccessivi. All'andata soffro con moderazione: freddo e nevischio in faccia nello spostamento da un mezzo pubblico all'altro e nient'altro. Al ritorno è un incubo. Un'ora in attesa di un bus che non arriva, mentre la temperatura si abbassa e i piedi si congelano, sotto (???) una pensilina strettissima che finge di ripararti da pioggia, neve e vento. Un'anima buona poi mi avverte che il bus da lì passa ad ore imprecisate. Conviene prenderne un altro in direzione opposta, arrivare alla metro e prendere il trenino per Ostia. Così faccio, sperando di arrivare a casa prima che arrivi il peggio. Insomma ora sono qui di nuovo al calduccio e mi viene da pensare ai lavoratori mostrati l'altro giorno a Piazza Pulita, che fanno il cottimo all'inferno a spostare scatole di surgelati in un ambiente a -30 gradi, rinunciando alle pause per arrivare ai fatidici 1.000 euro al mese. I sensi di colpa e lo stupore per un mondo incomprensibile ritornano.
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martedì 7 febbraio 2012
Shame, prima o dopo la politica
Parlo di un film per allontanarmi dalla politica. Un po’ perché la politica è troppo complicata per me. So quel che mi piace. So quel che non mi piace. Non ho ricette sicure per raggiungere l’obiettivo di quel mondo in cui mi piacerebbe vivere. Non riesco a illudermi – l’ho detto più volte – che basti rimuovere Berlusconi o Martone o Schettino o Monti o la finanza. Non sono neanche sicuro che basti rimuovere il mercato o il capitalismo, anche se questo sarebbe il cambiamento radicale che riesco a immaginare. Pare che abbiamo sperimentato anche questo col socialismo reale. Pare perché forse il socialismo potrebbe essere una cosa diversa. Pare, potrebbe.
Parlo di Shame perché il film mi ricorda decisive ragioni per andare oltre o prima della politica. Così posso sentirmi assolto per la mia “incompetenza”, come incompetenza in ultima analisi riguardante una cosa, grande quanto vuoi, ma comunque minore.
Non ho nemmeno gli strumenti per produrmi in una critica cinematografica. Su questo me la caverò in due righe.
Comincio col dire che non mi era mai capitato prima di essere parte di un cineforum improvviso e informale come un happening, all’uscita dal cinema. Le poche coppie presenti che rompono il ghiaccio con sguardi interrogativi e domande del tipo: “Scusi. Ho perso l’inizio. Ma era successo qualcosa?” “No, non era successo niente e non c’è nulla da spiegare” cerco inutilmente di affermare. Ma non c’è verso. Per spiegare l’abiezione e il dolore del protagonista consumati in ossessivi rituali sessuali qualcuno presume un trauma infantile, chi un incesto ancora lacerante, etc.
Il film divide il pubblico, con tutta evidenza. Non per la regia, non per la fotografia, non per la colonna sonora, non per gli attori, elementi tutti apprezzati. Mostrano delusione per il film quelli che vi leggono la storia di una dipendenza da sesso di un giovane, affascinante manager in una New York opulenta e livida. Questa parte del pubblico si affatica a cercare una spiegazione dell'origine della "malattia" e così evita di vedere quello che siamo o stiamo diventando. Cerca nella psicologia ciò che a mio avviso può trovare solo nell’antropologia, nell’uomo com’è oggi o addirittura come è sempre stato. Non servono, per dire, le riflessioni psicoterapiche, con la speranza di salvezza, del Freud più giovane. Servono le riflessioni del Freud più tardo e l’iscrizione di Eros e Thanatos nella parte costitutiva, ineliminabile, dell’umano. Il protagonista, Brandon, è solo l'avanguardia di una umanità vicina a scoprire l’abisso. La "malattia" (l'anomalia) non è di Brandon. E’ nella storia delle illusioni che abbiamo alle spalle: l'amore, la famiglia, la patria, la politica, etc.. Quando le illusioni cadono resta la solitudine davanti all'incubo della cosa impensabile e impronunciabile: la morte. Solo l'orgasmo - la piccola morte, la petite mort dei francesi - può farla dimenticare: per l'intensità anestetica del sesso, replicabile più di altre pratiche anestetiche, nelle innumerevoli formi possibili che il protagonista esibisce, dell'accoppiamento etero, omo, multiplo/orgiastico, dell'onanismo, delle infinite occasioni del sesso virtuale. E’ un eros potenzialmente “democratico” oggi, aperto a tutti, non solo al bellissimo e infelicissimo protagonista. E forse a quanti hanno creduto di assistere alla storia di una banale e rassicurante patologia individuale sfugge che, accanto al protagonista, esibiscono segni dell’invadenza totalitaria dell’eros anche i personaggi minori. La sorella del protagonista, tra un tentativo e l’altro di suicidio intervallato da accoppiamenti “gratuiti”. Così il suo partner di un momento. Così la ragazza incontrata nella metro che gode onanisticamente per quel che sembra l’annuncio di un rapporto. E invece il rapporto non c’è e non è neanche cercato. La ragazza, inutilmente inseguita, sparirà nella folla, sapendo di trovare all’occorrenza altre emozioni, dono di Eros. La vita però -ahimè - non può essere riempita da un orgasmo ininterrotto. Il protagonista attinge al fondo della libido e dello stordimento nella splendida scena dell'orgia mercenaria dai corpi bellissimi scolpiti con una fotografia innamorata e rapita. Lì l’orgasmo si mischia a singhiozzi disperati. Da lì Brandon sembra smettere di inseguire lo stordimento e l'oblio. Cos'altro troverà l'autore non dice. L'alternativa l'aveva già mostrata nell’ultimo tentativo di suicidio della sorella: vincere la morte, andandole incontro.
Penso a queste cose dunque. Alla New York opulenta paradigma dell’occidente opulento dalle opportunità infinite. E mi sembra che la disperazione sia l’esito di quella opulenza, come del suo rovescio, la penuria e la precarietà. Penso anche che in Italia abbiamo incontrato i segni di quella disperazione in analoga forma. E’ strano che non ci si pensi guardando il film. Abbiamo visto un uomo che in sé cumulava ricchezza, potere ed anche amore smisurato di folle adoranti, compromettere tutto per inseguire l’assoluto: il potere assoluto in un paese ridotto all’harem di un sultano. L’abbiamo conosciuto e non lo abbiamo veramente compreso perché non abbiamo compreso la disperazione di quell’uomo. Abbiamo inibito la nostra “comprensione” perché ci sembrava di assolverlo qualora lo avessimo compreso. Era giusto non assolverlo per aver messo in ginocchio un paese solo per disporre dell’harem che gli facesse dimenticare il mausoleo che lo aspetta ad Arcore. Dovevamo comprenderlo però perché ci ha indicato la strada che ci aspetta quando non saremo più distratti dalla fatica, dagli ideali e da quanto inventiamo per dimenticare la morte. E, secondariamente, ha reso pubblica una cosa normalmente taciuta: la sessualità degli anziani ed eros che mai non arretra .
Ora la scoperta di un dio e dell’immortalità mi sembra l’antidoto possibile all’eros distruttivo. Per chi – come me – è lontano da tale scoperta, resta la politica come speranza di superare il dolore della penuria e quello dell’abbondanza. Già, perché la politica viene dopo la filosofia che è la lente con cui guardiamo il mondo e però viene prima perché ci induce a scegliere una lente o un’altra lente. Non ero partito sapendo di arrivare a questo. Comunicando con gli altri comunichiamo con noi stessi e ci cambiamo. Anche Mc Queen, il regista di Shame, sospetto, cominciò a girare il suo film con quel titolo, accorgendosi forse poi che il tema non era la vergogna ma la paura: era Eros e Thanatos. Ma non cambiò il titolo. O forse continuò a pensare di aver parlato della patologia di un uomo. Io invece il mio titolo l’ho cambiato più volte, man mano che scoprivo di cosa veramente volevo parlare.
Parlo di Shame perché il film mi ricorda decisive ragioni per andare oltre o prima della politica. Così posso sentirmi assolto per la mia “incompetenza”, come incompetenza in ultima analisi riguardante una cosa, grande quanto vuoi, ma comunque minore.
Non ho nemmeno gli strumenti per produrmi in una critica cinematografica. Su questo me la caverò in due righe.
Comincio col dire che non mi era mai capitato prima di essere parte di un cineforum improvviso e informale come un happening, all’uscita dal cinema. Le poche coppie presenti che rompono il ghiaccio con sguardi interrogativi e domande del tipo: “Scusi. Ho perso l’inizio. Ma era successo qualcosa?” “No, non era successo niente e non c’è nulla da spiegare” cerco inutilmente di affermare. Ma non c’è verso. Per spiegare l’abiezione e il dolore del protagonista consumati in ossessivi rituali sessuali qualcuno presume un trauma infantile, chi un incesto ancora lacerante, etc.
Il film divide il pubblico, con tutta evidenza. Non per la regia, non per la fotografia, non per la colonna sonora, non per gli attori, elementi tutti apprezzati. Mostrano delusione per il film quelli che vi leggono la storia di una dipendenza da sesso di un giovane, affascinante manager in una New York opulenta e livida. Questa parte del pubblico si affatica a cercare una spiegazione dell'origine della "malattia" e così evita di vedere quello che siamo o stiamo diventando. Cerca nella psicologia ciò che a mio avviso può trovare solo nell’antropologia, nell’uomo com’è oggi o addirittura come è sempre stato. Non servono, per dire, le riflessioni psicoterapiche, con la speranza di salvezza, del Freud più giovane. Servono le riflessioni del Freud più tardo e l’iscrizione di Eros e Thanatos nella parte costitutiva, ineliminabile, dell’umano. Il protagonista, Brandon, è solo l'avanguardia di una umanità vicina a scoprire l’abisso. La "malattia" (l'anomalia) non è di Brandon. E’ nella storia delle illusioni che abbiamo alle spalle: l'amore, la famiglia, la patria, la politica, etc.. Quando le illusioni cadono resta la solitudine davanti all'incubo della cosa impensabile e impronunciabile: la morte. Solo l'orgasmo - la piccola morte, la petite mort dei francesi - può farla dimenticare: per l'intensità anestetica del sesso, replicabile più di altre pratiche anestetiche, nelle innumerevoli formi possibili che il protagonista esibisce, dell'accoppiamento etero, omo, multiplo/orgiastico, dell'onanismo, delle infinite occasioni del sesso virtuale. E’ un eros potenzialmente “democratico” oggi, aperto a tutti, non solo al bellissimo e infelicissimo protagonista. E forse a quanti hanno creduto di assistere alla storia di una banale e rassicurante patologia individuale sfugge che, accanto al protagonista, esibiscono segni dell’invadenza totalitaria dell’eros anche i personaggi minori. La sorella del protagonista, tra un tentativo e l’altro di suicidio intervallato da accoppiamenti “gratuiti”. Così il suo partner di un momento. Così la ragazza incontrata nella metro che gode onanisticamente per quel che sembra l’annuncio di un rapporto. E invece il rapporto non c’è e non è neanche cercato. La ragazza, inutilmente inseguita, sparirà nella folla, sapendo di trovare all’occorrenza altre emozioni, dono di Eros. La vita però -ahimè - non può essere riempita da un orgasmo ininterrotto. Il protagonista attinge al fondo della libido e dello stordimento nella splendida scena dell'orgia mercenaria dai corpi bellissimi scolpiti con una fotografia innamorata e rapita. Lì l’orgasmo si mischia a singhiozzi disperati. Da lì Brandon sembra smettere di inseguire lo stordimento e l'oblio. Cos'altro troverà l'autore non dice. L'alternativa l'aveva già mostrata nell’ultimo tentativo di suicidio della sorella: vincere la morte, andandole incontro.
Penso a queste cose dunque. Alla New York opulenta paradigma dell’occidente opulento dalle opportunità infinite. E mi sembra che la disperazione sia l’esito di quella opulenza, come del suo rovescio, la penuria e la precarietà. Penso anche che in Italia abbiamo incontrato i segni di quella disperazione in analoga forma. E’ strano che non ci si pensi guardando il film. Abbiamo visto un uomo che in sé cumulava ricchezza, potere ed anche amore smisurato di folle adoranti, compromettere tutto per inseguire l’assoluto: il potere assoluto in un paese ridotto all’harem di un sultano. L’abbiamo conosciuto e non lo abbiamo veramente compreso perché non abbiamo compreso la disperazione di quell’uomo. Abbiamo inibito la nostra “comprensione” perché ci sembrava di assolverlo qualora lo avessimo compreso. Era giusto non assolverlo per aver messo in ginocchio un paese solo per disporre dell’harem che gli facesse dimenticare il mausoleo che lo aspetta ad Arcore. Dovevamo comprenderlo però perché ci ha indicato la strada che ci aspetta quando non saremo più distratti dalla fatica, dagli ideali e da quanto inventiamo per dimenticare la morte. E, secondariamente, ha reso pubblica una cosa normalmente taciuta: la sessualità degli anziani ed eros che mai non arretra .
Ora la scoperta di un dio e dell’immortalità mi sembra l’antidoto possibile all’eros distruttivo. Per chi – come me – è lontano da tale scoperta, resta la politica come speranza di superare il dolore della penuria e quello dell’abbondanza. Già, perché la politica viene dopo la filosofia che è la lente con cui guardiamo il mondo e però viene prima perché ci induce a scegliere una lente o un’altra lente. Non ero partito sapendo di arrivare a questo. Comunicando con gli altri comunichiamo con noi stessi e ci cambiamo. Anche Mc Queen, il regista di Shame, sospetto, cominciò a girare il suo film con quel titolo, accorgendosi forse poi che il tema non era la vergogna ma la paura: era Eros e Thanatos. Ma non cambiò il titolo. O forse continuò a pensare di aver parlato della patologia di un uomo. Io invece il mio titolo l’ho cambiato più volte, man mano che scoprivo di cosa veramente volevo parlare.
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mercoledì 1 febbraio 2012
Raccomandati, sfigati, incattiviti, impotenti
E’ possibile che io stia diventando buono? Indulgente? Pietoso?
E’ possibile che i miei concittadini esorcizzino l’impotenza contro la paura incombente, scagliandosi contro il primo che passa, vivo o morto che sia?
Senza andare troppo lontano nell’ultimo mese il più facile bersaglio è stato il comandante del Concordia, Francesco Schettino: incapace e codardo. Noi abbiamo trovato per fortuna l’esempio positivo nella grinta del comandante della capitaneria del Giglio, Gregorio De Falco.. Con lui abbiamo gridato a Schettino: “Cazzo, salga sulla nave!” .
Solo dopo qualche giorno dall’incidente tragico e colpevole e dal diluvio di contumelie, mi capita finalmente di sentire diagnosi e implicite proposte di prevenzione da parte del sociologo Domenico Masi e dal giornalista Federico Rampini in una intervista della Gruber. Il primo punta l’indice contro l’assenza manifesta in Italia della cultura delle scienze dell’organizzazione. Tutti sappiamo di Einstein, nessuno di Taylor o Ford che ci avrebbero insegnato a prevenire il disastro., il secondo oppone alla prassi italiana del solitario capro espiatorio la prassi statunitense per cui chi ha nominato il colpevole è colpevole lui stesso e tenuto alle dimissioni. Insomma il povero Schettino non avrebbe mai dovuto essere chiamato a un ruolo di comando e comunque avrebbero dovuto essere previste procedure per rimediare all’impazzimento di un comandante. A disastro compiuto, molte teste dovrebbero cadere. Non sono analisi e diagnosi appassionanti, mi rendo conto, nulla di confrontabile alla goduria che ci offre la registrazione della viltà di un comandante. Sono solo analisi e diagnosi utili e corrette.
Poi, giorni fa – udite, udite! – il viceministro del lavoro, tale Michel Martone, si permette di chiamare “sfigati” i giovani italiani che si laureano dopo i 28 anni. Martone è uno facilmente antipatico per almeno un paio di ragioni:
A. E’ un figlio di famiglia con un padre che gli ha reso agevole una carriera fulminea, dottorato, ricercatore e poi titolare di cattedra universitaria a 33 anni. Quindi consulente ben retribuito nel precedente governo. Infine viceministro. Diciamo che non ho le prove, ma ho la certezza interiore che Martone sia un raccomandato.
B. Martone ha il ghigno del saputello, di quello che ha imparato una lezioncina e la ripete compiaciuto dall’alto della cattedra.
Grazie ancora alla Gruber, seguo l’intervista all’antipatico Martone. E purtroppo anche il bravo Vittorio Zucconi, da New York, infierisce contro il malcapitato. “Per essere equilibrati, dice Zucconi, se Martone ha potuto pronunciare quelle parole infelici, possiamo dirgli che ha detto una cazzata”. E’ facile sparare a zero sul poveretto caduto sul tappeto, no? Non è da meno l’adorabile Luciana Littizzetto che preferisce “minchiata” a cazzata, venendo in soccorso di una causa già vinta.
Io per la verità pensavo che “sfigato” significasse solo sfortunato, ma anche le mie figlie consultate, benché tutte laureate nei tempi giusti e brillantemente, solidarizzano con gli sfigati e sono incavolate col viceministro. “Sfigati” mi spiegano non significa semplicemente sfortunati. Ha una valenza negativa.
Così capisco che è del tutto irrilevante che Martone abbia potuto dire cose ragionevoli: che le imprese non guardano con favore chi impiega 10 anni a conseguire una laurea, soprattutto se non sa spiegare il perché (la condizione di studente lavoratore, ad esempio) o che è preferibile essere un brillante artigiano piuttosto che un laureato che si arrangia nei call center. Cose ragionevoli, anche se io stesso colgo in Martone sfumature classiste che i suoi detrattori non colgono o non esplicitano. Voglio dire che sono pressoché certo che anche il viceministro sarebbe quanto meno profondamente deluso se suo figlio un giorno gli annunciasse di voler fare l’idraulico. Sotto i discorsi ragionevoli persiste il vecchio classismo: l’università per i miei figli, per i tuoi l’officina che è così gratificante. Ma questo non c‘entra col merito della questione che è invece: gli antipatici hanno comunque torto. Così siamo costretti a rifiutare anche le buone pietanze proposte dallo chief che non ha saputo salutarci a dovere. Il compianto Padoa Schioppa che osava più di Martone nel linguaggio, osò dire che le tasse sono belle. Poi chiamò “bamboccioni” i ragazzi che si attardano nelle pareti domestiche. “Bamboccioni” non mi sembra più lieve di “sfigati”. Ma Padoa Schioppa non dovette scusarsi. Lui non aveva fama di raccomandato nel paese in cui l’usciere raccomandato è inflessibile contro il professore raccomandato. Nel paese in cui chi vale 100 deve raccomandarsi per avere 50. Nel paese in cui è stata abrogata la tassa di successione e i mediocri fratelli Elkan ereditano le fortune del brillante nonno.
Oggi, dulcis in fundo, mi capita di leggere su un blog commenti alla scomparsa del presidente Scalfaro e trovo, accanto a legittime critiche al suo passato di magistrato e a sue giovanili gesta da moralista, questi sintetici giudizi ad opera di coraggiosi autori dai fantasiosi nickname:
Wheel: uno in meno che percepisce i nostri soldi!
Kiko: uno stronzo con 3 autoblu in meno per gli italiani
Xxx: una pensione di senatore in meno
L’Italia frantumata degli impavidi, spietati critici di Schettino, come di Martone, come di Scalfaro non sa, non può, non vuole trovare progetti unificanti. L’Italia dei forconi vuole menare le mani col primo che passa. Si accontenterà di 15 centesimi di sconto sul carburante, del salvataggio di una industria decotta. Raccoglie con lo scolapasta i marosi della globalizzazione, boicottando le calze dell’Omsa delocalizzante. Non è capace di dire cose discutibili ma radicali. Potrebbe dire e pretendere, salendo compatta sui tetti o attendandosi presso i luoghi delle decisioni politiche:
Galera a chi usi il proprio ruolo per uso personale (raccomandazioni e illeciti lucri) .
Galera agli evasori
Disincentivazione delle merci troppo viaggianti e inquinanti
Blocco delle merci provenienti da paesi e fabbriche che violino i diritti umani
Elevata tassa di successione fino eventualmente all’esproprio
Prestito d’onore generalizzato per lo studio, per fare impresa, per fare casa
Subito il salario minimo sociale.
Ma quell’Italia non è interessata ad un nuovo senso comune. Ha paura di affermare principi per cui dovrebbe pagare un prezzo. E’ felice di potersi sfogare contro Schettino, Martone e i morti. Poi va a nanna.
E’ possibile che i miei concittadini esorcizzino l’impotenza contro la paura incombente, scagliandosi contro il primo che passa, vivo o morto che sia?
Senza andare troppo lontano nell’ultimo mese il più facile bersaglio è stato il comandante del Concordia, Francesco Schettino: incapace e codardo. Noi abbiamo trovato per fortuna l’esempio positivo nella grinta del comandante della capitaneria del Giglio, Gregorio De Falco.. Con lui abbiamo gridato a Schettino: “Cazzo, salga sulla nave!” .
Solo dopo qualche giorno dall’incidente tragico e colpevole e dal diluvio di contumelie, mi capita finalmente di sentire diagnosi e implicite proposte di prevenzione da parte del sociologo Domenico Masi e dal giornalista Federico Rampini in una intervista della Gruber. Il primo punta l’indice contro l’assenza manifesta in Italia della cultura delle scienze dell’organizzazione. Tutti sappiamo di Einstein, nessuno di Taylor o Ford che ci avrebbero insegnato a prevenire il disastro., il secondo oppone alla prassi italiana del solitario capro espiatorio la prassi statunitense per cui chi ha nominato il colpevole è colpevole lui stesso e tenuto alle dimissioni. Insomma il povero Schettino non avrebbe mai dovuto essere chiamato a un ruolo di comando e comunque avrebbero dovuto essere previste procedure per rimediare all’impazzimento di un comandante. A disastro compiuto, molte teste dovrebbero cadere. Non sono analisi e diagnosi appassionanti, mi rendo conto, nulla di confrontabile alla goduria che ci offre la registrazione della viltà di un comandante. Sono solo analisi e diagnosi utili e corrette.
Poi, giorni fa – udite, udite! – il viceministro del lavoro, tale Michel Martone, si permette di chiamare “sfigati” i giovani italiani che si laureano dopo i 28 anni. Martone è uno facilmente antipatico per almeno un paio di ragioni:
A. E’ un figlio di famiglia con un padre che gli ha reso agevole una carriera fulminea, dottorato, ricercatore e poi titolare di cattedra universitaria a 33 anni. Quindi consulente ben retribuito nel precedente governo. Infine viceministro. Diciamo che non ho le prove, ma ho la certezza interiore che Martone sia un raccomandato.
B. Martone ha il ghigno del saputello, di quello che ha imparato una lezioncina e la ripete compiaciuto dall’alto della cattedra.
Grazie ancora alla Gruber, seguo l’intervista all’antipatico Martone. E purtroppo anche il bravo Vittorio Zucconi, da New York, infierisce contro il malcapitato. “Per essere equilibrati, dice Zucconi, se Martone ha potuto pronunciare quelle parole infelici, possiamo dirgli che ha detto una cazzata”. E’ facile sparare a zero sul poveretto caduto sul tappeto, no? Non è da meno l’adorabile Luciana Littizzetto che preferisce “minchiata” a cazzata, venendo in soccorso di una causa già vinta.
Io per la verità pensavo che “sfigato” significasse solo sfortunato, ma anche le mie figlie consultate, benché tutte laureate nei tempi giusti e brillantemente, solidarizzano con gli sfigati e sono incavolate col viceministro. “Sfigati” mi spiegano non significa semplicemente sfortunati. Ha una valenza negativa.
Così capisco che è del tutto irrilevante che Martone abbia potuto dire cose ragionevoli: che le imprese non guardano con favore chi impiega 10 anni a conseguire una laurea, soprattutto se non sa spiegare il perché (la condizione di studente lavoratore, ad esempio) o che è preferibile essere un brillante artigiano piuttosto che un laureato che si arrangia nei call center. Cose ragionevoli, anche se io stesso colgo in Martone sfumature classiste che i suoi detrattori non colgono o non esplicitano. Voglio dire che sono pressoché certo che anche il viceministro sarebbe quanto meno profondamente deluso se suo figlio un giorno gli annunciasse di voler fare l’idraulico. Sotto i discorsi ragionevoli persiste il vecchio classismo: l’università per i miei figli, per i tuoi l’officina che è così gratificante. Ma questo non c‘entra col merito della questione che è invece: gli antipatici hanno comunque torto. Così siamo costretti a rifiutare anche le buone pietanze proposte dallo chief che non ha saputo salutarci a dovere. Il compianto Padoa Schioppa che osava più di Martone nel linguaggio, osò dire che le tasse sono belle. Poi chiamò “bamboccioni” i ragazzi che si attardano nelle pareti domestiche. “Bamboccioni” non mi sembra più lieve di “sfigati”. Ma Padoa Schioppa non dovette scusarsi. Lui non aveva fama di raccomandato nel paese in cui l’usciere raccomandato è inflessibile contro il professore raccomandato. Nel paese in cui chi vale 100 deve raccomandarsi per avere 50. Nel paese in cui è stata abrogata la tassa di successione e i mediocri fratelli Elkan ereditano le fortune del brillante nonno.
Oggi, dulcis in fundo, mi capita di leggere su un blog commenti alla scomparsa del presidente Scalfaro e trovo, accanto a legittime critiche al suo passato di magistrato e a sue giovanili gesta da moralista, questi sintetici giudizi ad opera di coraggiosi autori dai fantasiosi nickname:
Wheel: uno in meno che percepisce i nostri soldi!
Kiko: uno stronzo con 3 autoblu in meno per gli italiani
Xxx: una pensione di senatore in meno
L’Italia frantumata degli impavidi, spietati critici di Schettino, come di Martone, come di Scalfaro non sa, non può, non vuole trovare progetti unificanti. L’Italia dei forconi vuole menare le mani col primo che passa. Si accontenterà di 15 centesimi di sconto sul carburante, del salvataggio di una industria decotta. Raccoglie con lo scolapasta i marosi della globalizzazione, boicottando le calze dell’Omsa delocalizzante. Non è capace di dire cose discutibili ma radicali. Potrebbe dire e pretendere, salendo compatta sui tetti o attendandosi presso i luoghi delle decisioni politiche:
Galera a chi usi il proprio ruolo per uso personale (raccomandazioni e illeciti lucri) .
Galera agli evasori
Disincentivazione delle merci troppo viaggianti e inquinanti
Blocco delle merci provenienti da paesi e fabbriche che violino i diritti umani
Elevata tassa di successione fino eventualmente all’esproprio
Prestito d’onore generalizzato per lo studio, per fare impresa, per fare casa
Subito il salario minimo sociale.
Ma quell’Italia non è interessata ad un nuovo senso comune. Ha paura di affermare principi per cui dovrebbe pagare un prezzo. E’ felice di potersi sfogare contro Schettino, Martone e i morti. Poi va a nanna.
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