Ho seguito in TV il 25esimo anniversario di Capaci. Soprattutto a sera nella complicata trasmissione di Fazio. Che dire? Credo che sia stato tutto utile per ripassare qualcosa e per trasmetterla ai figli che non c'erano. Non ricordavo esattamente il numero delle conclamate vittime di mafia. Ora so che sono più di 900. Non ricordavo bene la storia della ragazza di famiglia mafiosa che denuncia la mafia e poi si suicida. Al di là del ragazzino sciolto nell'acido, non ricordavo i particolari delle vendette sulle famiglie dei pentiti, famiglie sterminate. Utile ricordare. Utile riconoscere che quelle morti illustri – Falcone, Borsellino e tanti altri - non sono stati inutili. In qualcosa però non riesco a riconoscermi. Non mi piacciono le reiterate allusioni alle complicità dello Stato. Allusioni troppo vaghe, senza nomi. In generale sono fra i pochi che non credono ai complotti. Sarà grave, ma preferisco dire come la penso. Penso che la mafia di quegli anni aveva una capacità stragista senza eguali. Penso che non tutti gli avversari di Falcone e Borsellino fossero in cattiva fede o complottisti. Penso che molti credevano ai rischi di una gestione centralizzata della lotta alla mafia. Col senno di poi sbagliavano. Ma non erano necessariamente complici consapevoli di Riina. Al più alcuni riuscivano a credere che fosse istituzionalmente corretto quanto conveniva alle loro carriere. Alcuni coltivavano umane invidie. Ma non riesco a credere a tavoli complottisti fra mafiosi e premier di governo o cose simili. Credo di più alla viltà. Credo alla paura di esporsi. Credo a patti silenziosi o impliciti fra politica e mafia, nel segno della convenienza, patti così impliciti e negati a se stessi da consentire a uomini delle istituzioni di guardarsi allo specchio. Credo al coraggio di Falcone e Borsellino. Credo alla straordinaria complessità della Sicilia in cui vivevo. Con i condomini di via Notarbartolo, dove Falcone abitava, che scrivevano lettere alla stampa lamentandosi per la loro vita disturbata dalle sirene della polizia e proponendo che i magistrati abitassero in villette fuori dal centro. Mi è capitato di verificare personalmente i segni di quella ignavia impudente. Quando visitai l'albero di Falcone, con tanti biglietti di ringraziamento per il suo sacrificio. C'era tanta gente davanti al condominio . Mia figlia che era con me e stava per iscriversi alla Sapienza di Roma pensò per un attimo che se la Sicilia era quella davanti all'albero di Falcone, poteva restare a studiare in Sicilia. Ma la Sicilia non era solo quella. Una signora elegante si fece largo fra la gente per entrare nel portone del suo condominio. Lo fece indispettita, sbuffando. La Sicilia era anche questo. Come era la folla enorme e indignata che rompe i cordoni della polizia davanti alla Chiesa in cui si celebrano i funerali perché vuole onorare Borsellino e inveire contro le istituzioni sentite come complici. E stringe in una morsa pericolosa Scalfaro, capo dello Stato. La Sicilia che ricordo era tante cose in un conflitto tragico sconosciuto altrove.
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