lunedì 9 novembre 2020

C ome ho letto "Le isole di Norman"



Il romanzo di Veronica – premio Campiello, Opera Prima - si muove in Ortigia, l’isola di Siracusa, quando ancora non era meta delle grandi firme della moda e anche del turismo di massa. Si muove fra Elena adulta ai primi passi universitari, Elena adolescente ed Elena bambina. Le isole di Norman sono il nome delle sue cicatrici vere, risultato di un drammatico incidente nella sua infanzia. La protagonista vive in Ortigia, immersa nel silenzio di una casa con genitori diversamente muti. Muti con la figlia e fra loro. Michele, professore, ha in mente solo il partito e la sua involuzione. Clara, la madre, è reclusa nella sua stanza fra libri ordinati in pile misteriose con criteri imperscrutabili. Nulla succede fino alla scomparsa improvvisa di quella madre, scomparsa non annunciata, senza parole di addio. Elena allora la cercherà giocando con mappe e seminando i libri della madre fra le pietre di Ortigia.
Avendo finalmente letto il libro, dico che ognuno leggendo un romanzo legge un romanzo diverso. La lettura è sempre una relazione fra due mondi. Nel caso delle Isole di Norman debbo dire che per la prima volta ho letto un romanzo di cui potevo credere di conoscere la storia prima di leggerlo. “Conosco” l’autrice, Veronica Galletta, “conosco” i suoi genitori, “conosco” la sua storia. So delle Isole di Norman. Sono vissuto nella sua città – Siracusa – e la sua famiglia e la mia erano e sono amiche. Il padre di Veronica era segretario della mia sezione nella mia militanza Pci. Sua madre e mia moglie discutevano di patchwork. Sono stato nella casa descritta dal romanzo. Ricordo quella cucina stretta e le tazzine in cui bevevo il caffè. Quindi inevitabilmente ho letto il romanzo di Veronica dividendolo come in tre nuclei: quello che so, quello che non so, quello che non so se sia vero o inventato. Ma forse -quel che più conta- so di aver visto le cose che Veronica descrive pur sapendo di non averle viste come lei. Parlo di Ortigia, l’isola di Siracusa, in cui ho vissuto i miei anni liceali, dopo aver vissuto in borgata e prima di trasferirmi con i miei nella città nuova. Sono passato per tutti i luoghi che Veronica descrive: il tempio di Apollo, il Duomo, il mercato del pesce, la Giudecca, Mastrarua, il carcere, ma attraverso Veronica scopro di non averli vissuti. Lei descrive ogni pietra, ogni pianta, ogni odore, ogni sapore. Ho avuto conferma che “conoscere” è parola vuota. Come il “conoscere” del turista di oggi. Quindi Veronica mi ha confermato che ero turista a Siracusa, come poi a Roma, come in Italia, nel mondo. Lei no. Ma forse perché Veronica è una scrittrice e “vede” davvero. Mentre io mi limito sostanzialmente a guardare me stesso, sempre straniero, ovunque mi capiti di vivere. P.S. Suggerisco la lettura del romanzo a chiunque ami la buona scrittura, ai siracusani, ai siciliani e a chi voglia conoscere la Sicilia non da cartolina.

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