Convenzionalmente un
film si attribuisce al suo regista. Di Frantz
ho apprezzato molto il regista, Ozon. Come
lo apprezzai in Giovane
e bella in cui scandagliava l’emergente
insignificanza della sessualità. Ma qui, in Frantz, ho apprezzato egualmente il soggetto, come gli interpreti, il francese Pierre Niney nella parte di Adrey e particolarmente
l’interprete femminile Paula Beer,
sobria e intensa nella parte di Anna . Ho apprezzato soprattutto la splendida fotografia in bianco
e nero. Di quest’ultima però non ho
ancora trovato l’autore. Smetto di
cercarlo e prendo atto che dei coautori
si prescrive l’oscuramento, come per i ghost writer di cui pochissimi conoscono
i nomi benché scrivano splendidi
discorsi per i politici che affascinano il mondo. Attribuisco la scelta del bianco e nero al
progetto di immersione in un’epoca, il primo dopoguerra, che appunto dobbiamo immaginare con i colori
non colori della cinematografia dell’epoca. Lubitsch
fu il primo a trasporre in film, Broken
Lullaby , un testo poi elaborato
in forma teatrale di Maurice Rostand. Aggiungo che i frammenti di
colore, giustificati dal separare realtà e fantasia mi sono apparsi
un’operazione intellettualistica, cioè a freddo.
Chi è il misterioso
visitatore della tomba di Frantz, uno
fra i troppi assassinati dal primo macello mondiale, fra le vittime della
sconfitta Germania? Lo sconosciuto si rivelerà come un amico francese di Frantz
nel tempo in cui era ancora possibile essere amici fra francesi e
tedeschi. Ho scoperto vedendo il film il
significato delle annotazioni dei
critici sulla conclamata omosessualità del regista. In effetti Ozon gioca a
depistarci, facendoci credere ad un rapporto omo fra Frantz e il presunto amico
francese. Come se suggerisse un altro film, un’altra storia rispetto a quella
vera. Quella vera è la cecità nazionalista che fa percepire l’avversario in
guerra come diverso, come altro da cui evitare il contagio. Questo sul piano
delle emozioni collettive. Sul piano delle emozioni individuali il tema è
quello della responsabilità. Ho la responsabilità della morte dell’altro solo perché sono la persona che muove il
grilletto, la persona che per prima muove il grilletto? Sono due domande
diverse. Alla prima riusciranno a dare risposta innanzitutto le donne, Anna, fidanzata dell'ucciso e poi la madre. Direi perché le emozioni femminili più facilmente privilegiano la cura e la vita e guidano in tale direzione gli occhi della ragione. Poi anche il padre, l'anziano dottore la famiglia, cui il film assegna il ruolo (maschile?) della rielaborazione razionale. No, responsabili sono i mandanti grandi e
piccoli, anche i piccoli, i padri che ad ogni vittoria festeggiano con vino in
Francia e birra in Germania. La responsabilità personale però è un sentimento
più difficile da spegnere. Un conflitto irrisolvibile fra la ragione che mi proclama
innocente perché comunque nel duello, imposto da altri, debbo per forza
scegliere fra una vita, la mia, e un’altra vita, contro il cuore che ti
dice che comunque se non ti avesse
incontrato quell’uomo sarebbe vivo. La
ragione in questo ha un compito immane. Non prevarrà mai. Si può solo volere che non
soccomba del tutto. Dopo il massacro mondiale, con le sanzioni crudeli agli
sconfitti e con quel che venne poi, soccombette del tutto. E lasciò campo libero alle orride emozioni dello sterminio e del sadismo.
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