L'ultimo caso di femmicidio occupa le prime pagine di giornali e tv. Più degli altri, numerosissimi, precedenti (52 fin qui nel 2016, mi pare). Forse perché più efferato. Forse per altre motivazioni e dinamiche dei media. Qualcuno torna a chiedere programmi di "educazione sentimentale". Sì, ragionevole, a parte il fatto che non si sa chi possa e sappia gestire l'educazione dei sentimenti. Il mio contributo è questo, un invito convinto: non parliamo d'amore. Non dico di non parlare d'amore in questo caso di ultimo atroce delitto. Questo lo dicono tanti. Io dico invece che dobbiamo smettere di chiamare "amore" quel mix di pulsione sessuale, ebbrezza di possesso esclusivo di anima e corpo, anche gentilezza e regali talvolta. La maggior parte degli "amori" non si concludono in tragedie visibili. Molti in drammi invisibili o in infelicità cronica. Perché il virus, potenzialmente omicida, è lì comunque e pronto a colpire. In questa parola di film e canzonette di cui quel mix si è impossessato. Cambiare nome, scegliendone uno che non appaia di per sé nobilitante o assolutorio (vedi quel delitto d'onore solo giuridicamente abrogato). Eros, magari. E riservare la parola "amore" alla dedizione per l'altro che solo qualche volta si intreccia con eros. "Amore" è quello della nonna greca che allatta il piccolo siriano. Non quello dell'assassino della Magliana e neanche quello dei torturatori normali delle case normali e delle storie normali, in cui il virus omicida si annida.
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