domenica 30 novembre 2014

Art. 18 e bene comune


Federico Rampini su Donna, supplemento di Repubblica di sabato, 29 novembre, “Oggi attore, domani cameriere: così si cresce a Manhattan”, racconta del figlio che fiduciosamente transita da impiego ad impiego nella metropoli iper-competitiva degli Usa. Nessuna scuola alberghiera e nessuna scuola per attori. Preferibili i vantaggi della flessibilità e dell’inserimento e ri-posizionamento negli spazi aperti di un’offerta vasta, rispetto all’investimento in lunghi percorsi formativi dagli esiti incerti. Lo leggo come una critica implicita ai conflitti di retroguardia sull’art. 18 e cose simili. Poiché condivido Rampini, tranne le mie diverse conclusioni, domando a me stesso: “ Vado a destra? Vado a destra se non provo entusiasmo per le battaglie della CGIL e di Landini”? Non capisco se dica davvero Landini parlando di diritti da estendere e non comprimere. Diritti che prescindono da penuria e catastrofi? E non capisco, d’altra parte, cosa voglia dire il premier affermando che vuole togliere alibi alle imprese. Questo conflitto (con annessi imprenditori “eroi” , impenitenti scioperanti scioperi e manganellate) è solo per togliere alibi, sapendo che altri alibi (ma diciamo pure “ragioni” ) potranno facilmente essere trovati ? Poiché credo di pensare “a sinistra” mi chiedo –ma è una domanda retorica giacché ho già la mia risposta – se “sinistra” è credere ad un posto, sempre quello per tutta la vita. Se “sinistra” è rifiutare che le imprese evolvano seguendo la domanda e che le risorse si muovano nel globo cercando il loro impiego ottimale. Se “sinistra” è la lotta contro le delocalizzazioni per difendere lavoratori italiani contro lavoratori sloveni e domani viceversa. Se “sinistra” è credere che una indossatrice sia indossatrice per sempre e un insegnante sia insegnante per sempre, magari con qualche piccolo aggiustamento e con la mitica “formazione”. Se “sinistra” è credere che bisogna essere reintegrato in un posto di lavoro da un datore di lavoro che non ci sopporta, come da un marito prepotente da cui non possiamo separarci. A me pare che una sinistra siffatta chiede ciò che è irrealizzabile o è realizzabile a costi inaccettabili. E che chiede troppo poco. Inventarono la proprietà privata e il mercato. E gli espropriati da allora si difendono distruggendo, come i luddisti distruggevano le macchine. Perché il luddismo è insuperabile nell’ottica sindacale. Distruzione contro distruzione. Perché anche i proprietari distruggono in altro modo. Licenziando verso il rischio assoluto o il nulla della inoccupazione. O spopolando le colline, abbattendo argini e biodiversità. Ogni tanto, i più piccoli, perché i grandi non possono fallire, facendo fallimento e scegliendo il suicidio. No. Il riformismo ha spazi ristretti. Le contraddizioni non sono risolvibili con distruttivi compromessi. Si risolvono, non arrampicandosi sulla parte scivolosa, ma saltandola verso l’utopia socialista e verso il compromesso alto con proprietari (finché ci saranno) e con il mercato. L’utopia che ci vuole tutti comproprietari del mondo. Sicché ognuno si relazioni col tutto, sapendo di non essere un costo per il tutto. Il tutto, il bene comune, non può volere che siano frenate l’elettronica e i robot che risparmiano lavoro perché non sia minacciato il lavoro operaio. O che l’occupazione sia stimolata da guerre e produzione di armi. Il bene comune non può volere che mi annoi ed annoi i miei allievi insegnando perché altro non posso fare per mantenere il posto. Io, insieme al tutto, la collettività, nell’ottica del bene comune, decideremo come io non debba essere sprecato. E il bene comune non mi chiederà di andare in pensione troppo presto o troppo tardi. Il bene comune riderà a crepapelle (o ci manderà al diavolo) scoprendo che inventammo la categoria tragica degli esodati. Il bene comune semplicemente mi darà di più se lavoro fino a cent’anni e mi darà di meno se lavoro fino a cinquanta. Insomma, non è il mercato (o il capitalismo, se è possibile nominarlo) il regno della flessibilità e della libertà. E’ il bene comune il regno della flessibilità ovvero dell’evoluzione, della carriera ascendente, discendente e trasversale, della libertà massima e sostenibile. Lì, nei confini del bene comune, decideremo cosa affidare allo Stato, cosa alla cooperazione, cosa al lavoro autonomo e all’impresa privata. Attenti a che nessun sindacato, corporazione, lobby o multinazionale minacci il bene comune. Abbiamo sbagliato gravemente qualcosa nella ricetta del socialismo. Abbiamo sbagliato catastroficamente. Certamente nell’immaginare di poter sospendere la democrazia in attesa di una democrazia più alta che non poteva però essere l’obiettivo degli oligarchi ma solo l’ideologica giustificazione dell’oppressione. Tutto è stato sbagliato. Ma anche questo mondo è sbagliato e senza rimedi possibili. Altro che art. 18! Sbaglieremo ancora. Ma non c’è speranza altrove se non nel socialismo. Saremo accorti dandogli altro nome. Nell’attesa, se decidessimo di partecipare al prossimo sciopero generale contro l’abrogazione (o quasi) dell’art. 18, facciamolo pure. Sapendo di combattere una battaglia difensiva nell’interesse di alcuni, contro l’interesse - politico soprattutto – di altri cui l’aspra tenzone col sindacato dà lustro. Purché si riconquisti la consapevolezza che tutti combattiamo scaramucce di retroguardia e che, contro la pigrizia del senso comune, bisogna riattrezzare le menti a ben altre battaglie.

domenica 23 novembre 2014

Scalfari, Renzi e Francesco


Leggendo Scalfari oggi, mi accorgo di tre cose. La prima è che avverto una sincerità estrema che forse è il frutto della sua età di ultranovantenne e della lontananza progressiva dalla politica politicante. La seconda è che il suo pensiero guarda sempre più a sinistra piuttosto che al laicismo liberal. La terza è che mi accorgo che dice quello che ieri pensavo anch’io leggendo la lettera di Renzi a Repubblica. Scalfari infatti dice di condividere quella lettera. Anch’io l’ho condivisa. E mi sono detto: “Magari Renzi agisse coerentemente con quanto scrive”. Vedo che un po’ tutta l’opposizione entro il PD condivide o non contesta la lettera. Renzi rassicura che il PD non gli appartiene. Che non risponde al vero che il PD abbia un solo uomo al comando. Scalfari obietta che sarebbe bello fosse così, ma non è così. E sulle riforme Scalfari obietta ciò che inutilmente continuano ad obiettare “conservatori “ veri o presunti . Che non basta riformare perché si può anche riformare peggiorando le cose. Poi osserva che quel poco che si è fatto è pessimo. Quel poco è il fatidico bonus con il quale – dice Scalfari – si sono sprecati 10 miliardi che avrebbero potuto avere impieghi assai più utili. L’ultimo Scalfari è assai vicino a Francesco. Lo cita nel corpo dell’articolo sul tema delle nuove povertà. Poiché neanche a me piace essere solo, mi riempiono di conforto le parole con cui Francesco mette molto concretamente o molto ideologicamente (ma è la stessa cosa perché il contrario di “concreto” è dire parole inutili, non formulare principi o “ideologie”) contesta le responsabilità sulle povertà. La povertà che noi combatteremmo solo quando ci saranno i soldi. Ma la mancanza dei soldi è solo l’alibi per la nostra indifferenza di Narcisi. Traduco così: non ci saranno mai soldi per combattere la povertà, se prima di dare un tetto al povero sembrerà normale assicurare la terza casa al ricco; se prima di liberare il povero con quel che serve per liberarlo, dovremo fare 100 porti turistici che danno lavoro e bla, bla, bla. Se non cambia il nostro sguardo sul mondo non si vincerà mai la guerra contro la povertà. Altro che soldi…. http://www.repubblica.it/politica/2014/11/23/news/le_nuove_povert_c...

domenica 16 novembre 2014

Andiamo a quel paese. In che senso?


Dopo l’impegnativo Leopardi di Martone, sono andato a cercare la leggerezza di Ficarra e Picone di Andiamo a quel paese. Sperando di sorridere e anche per rivedere la mia Sicilia e ascoltare la lingua della sua gente. Accipicchia, vedevo e assaporavo le immagini di posti - rocce, vallate e chiese barocche - noti, ma non sapevo dire quali fossero. Ho appreso dopo che si trattava di Rosolini, più volte viistata, a un tiro di schioppo dalla città in cui vivevo. Rosolini è l’immaginario paesino di Monteforte, paesino natio in cui Ficarra e Picone ritornano per il fallimento delle esperienze di vita e lavoro a Palermo. Il film è un buon esempio della nuova commedia italiana impegnata a far sorridere delle sciagure nazionali, talvolta aiutando a scoprirne il senso. I due provvisoriamente falliti cercano inizialmente di sbarcare il lunario da semplici parassiti che sfruttano la protettiva e generosa rete familiare. Come molti. Come sempre più. Così Ficarra, ospite della suocera, rivela però il suo spirito d’impresa. Cos’ è l’imprenditore se non chi chiarisce a chi ha bisogni, spesso inconsapevoli, la natura dei suoi bisogni e attrezza risposte? Ficarra scopre il bisogno di socializzazione di anziani soli e autosufficienti. Prepone così un servizio più personalizzato e familiare di quanto non possa essere la moderna Casa di riposo. La casa della suocera e quella dell’amico Picone (che al solito subisce) sono i mezzi di produzione. Mentre le pensioni degli ospiti sono il profitto. Funziona tutto bene. Tranne che la morte degli ospiti in una serie di eventi sfortunati fa crollare tutto. Un po’ come quando il volo della farfalla in Brasile ovvero una scoperta o una crisi che viene da lontano vanifica l’intelligenza imprenditoriale. Che magari dovrebbe rendersi conto di non essere il solo artefice della propria fortuna/sfortuna. Ma questo è un volo pindarico, leggermente malizioso. Torniamo al detto del film. Poiché è un vero imprenditore, Ficarra comunque non spreca la sostanza di quanto ha intuito. La sostanza è che il paese (e il Paese) altra risorsa non ha che il monte pensioni accumulato dalle vecchie generazioni e che oggi è prevalentemente disponibile nelle pensioni di reversibilità di cui dispongono le anziani abitanti. Allora in una economia dell’emergenza che pretende re-distribuzioni la soluzione minima è sposare una pensionata. Se possibile farla sposare all’amico Picone. Non importa il finale del film. Importa che l’intuizione di Ficarra si trasmette a una generazione di giovani che scelgono l’ozio o ai quali è stato assegnato l’ozio. Si generalizza quindi nel paesino del Sud il corteggiamento con serenate dei giovani verso le anziane “abbienti”. “Abbienti” nel senso che hanno magre ma sicure pensioni, più sicure degli impieghi casuali e precari). Qui gli autori – gli stessi Ficarra e Picone – propongono note delicate: la consapevolezza da parte delle pensionate della natura del gioco. Conoscono l’inganno e scelgono di viverlo. Insomma ho sorriso e anche riso in sala. Uscito, ho incontrato, come spesso, nel centro di Ostia, “strane” coppie. “Strane” rispetto a quelle che una volta erano le coppie. Molti pensionati ad esempio che stringono il braccio o la mano di giovani slave o rumene. Non più l’eccezione dell’anziano benestante e della giovane partner. Ora il frequente scambio pubblico di reddito (anche modesto) e giovinezza. Effetti salvifici della globalizzazione che distrugge e poi cura (talvolta). Mutatis mutandis, lo scenario disegnato da Ficarra e Picone mi è sembrato plausibile. Impossibile avviare i giovani al lavoro. Perché le imprese licenziano e delocalizzano. Non possono essere trovate risorse nuove né per formare davvero i giovani né per fornirli di “doti” che li sostengano nell’avvio ad un lavoro autonomo. Non possono essere aumentate le tasse sui redditi più alti perché si perderebbe consenso e si griderebbe al socialismo. Tanto meno è lecito parlare di patrimoniale. Si potrebbe racimolare qualche spicciolo dal taglio sugli stipendi pubblici più alti perché gli impiegati e dirigenti pubblici sono più garantiti e più antipatici dei privati. Ma in questo la Corte Costituzionale spesso blocca tutto. Non resta che la redistribuzione con le buone o le cattive fra anziani e giovani del ceto medio e medio basso che precipita in giù. Con le buone o con le cattive. Con le “buone” delle paghette o dei matrimoni inter-generazionali suggeriti da Ficarra. O con le “cattive” della espropriazione che le avanguardie del “nuovo” cominciano a proporre nei talk show, come saggiando il terreno. Perché l’erosione lenta, tropo lenta, da mancata rivalutazione delle pensioni potrebbe non bastare. Un grazie a Ficarra e Picone.

sabato 15 novembre 2014

Leopardi o Napoli secondo Martone


Sento il bisogno strano di giustificarmi. Non sono ancora libero quanto vorrei. Non sono riuscito fin qui a formulare un commento sul Giovane favoloso di Mario Martone. Al contrario, ho subito avuto voglia di dire qualcosa su Ficarra e Picone e il loro Andiamo a quel paese. Lo farò presto. Adesso però provo a dire brevemente del Leopardi di Martone. Un film caratterizzato da grande attenzione filologica e grande investimento di studio e cura dei dettagli. Ma l’analisi – ritengo sempre – non può contraddire il dato sintetico. Mi ha emozionato o no? No. Solo nel finale. Il Leopardi ultimo, a Napoli. Ma direi che emozionante è la Napoli del napoletano Martone. La Napoli che si riesce ad amare, malgrado tutto. La Napoli in cui, secondo Martone, Leopardi recupera il piacere dei rapporti umani e il gusto dei sapori nella convivialità. In un improvvisato banchetto con uomini semplici. Poi c’è la Napoli dai colori vivissimi delle grotte della suburra e delle accoglienti prostitute con cui Leopardi cerca vanamente l’iniziazione sessuale. E infine l’eruzione del Vesuvio, immagine dell’Apocalissi, che accompagna stupendamente il recitato della Ginestra che ammetto di avere così riscoperto nella sua straordinaria intensità. Poco ho sentito nel Leopardi di Recanati e di Firenze. Mi si è impresso invece l’ammonimento del poeta: ” Non attribuite al mio stato quello che si deve al mio intelletto”. La rivendicazione impossibile e pur necessaria dell’autonomia del pensiero. L’ho attualizzata nella mia frequente polemica contro i molti che oggi scelgono la via facile della delegittimazione delle tesi che non sanno contrastare con argomenti personali del tipo: “Però lui è massone (o figlio di massone)” , “Però è vecchio”, “Però è giovane”, “Però è troppo carina”. Insomma, anch’io, come tutti, prendo quello che la mia mente può e vuole prendere dall’unità presunta dell’opera artistica.

venerdì 14 novembre 2014

Il patriottismo dei maschi di Tor Sapienza


Se ho ben capito i maschi italiani o almeno quelli di Tor Sapienza rivendicano il diritto che a far violenza alle donne italiane siano italiani doc. Possibilmente nel comfort dell'ambiente domestico. Se si azzarda un rumeno, saranno dolori. E, se non si rintraccia il rumeno, sono dolori per neri e musulmani.

giovedì 13 novembre 2014

Se l'emergenza ci fa incontrare la ragione


E' solo una speranza. Una possibilità. Ieri a Radio24 ascoltavo "La versione di Oscar". Un ascoltatore ha posto sul tappeto una questione di una ovvietà disarmante che nondimeno non riesce a farsi pensiero comune. A proposito di disastri colpevoli ad ogni scroscio di pioggia: "Ma perché non realizzare un progetto straordinario e serio di messa in sicurezza utilizzando chi oggi è disperato e senza reddito?" Ovvio, no? Assai più che mantenere e retribuire con paghette e anche con rapine e "redistribuzioni improprie" giovani e non giovani inoccupati. La sorpresa per me è stata il consenso del "liberista" Gianino: "Certamente. Si può fare. E' ragionevole. E' una pratica keynesiana". Ho sorriso un po' di soddisfazione, un po' ironicamente. Citare Keynes e la risposta americana alla grande crisi con massicci investimenti pubblici serve per "coprirsi" e giustificare l'ovvio. Meglio che niente. Magari poi - chissà - capiremo che lo spreco di uomini nell'inattività forzata è sempre inaccettabile. Non solo nelle emergenze. L'importante è non usare parole "sbagliate". Non parliamo di "socialismo" quindi. Copriamoci con Keynes. E inventiamo parole nuove. E' un sacrificio che si può fare. In attesa che torni la ragione.

domenica 9 novembre 2014

La guerra delle precedenze


Ieri sera una persona a me cara mi diceva sconsolata che la fatica inimmaginabile che pratica da mesi per superare un concorso ed entrare nel paradiso dei garantiti si dimostra inutile. Inutile lo studio. Inutili le giornate senza pause fra lavoretti precari, accudimento della figlia e studio. Inutile essere stata fin qui prima nelle prove di pre-selezione. Perché il punteggio premiale assegnato ai precari della Regione a conti fatti quasi certamente non la collocherà fra i vincitori. Si sa, è così complicato equilibrare le ragioni della competenza con quelle del bisogno! Anche perché non sappiamo tenerle insieme se non facendo pasticci. Resta il rammarico di non averlo saputo o capito prima per evitarsi uno stress e un costo inutili. Stamani mi reco al Cup dell'ospedale per una prenotazione. Confronto il mio numero con quello che lo sportello di quelli “senza precedenza” sta ora chiamando. Un centinaio prima di me. Do un'occhiata allo sportello che gestisce invalidi con precedenza. Una cinquantina più o meno, in attesa. Girovago fra bar e corridoi. Poi torno a guardare il display. Mi accorgo che la fila dei variamente invalidi è lentissima. Chi ha preso doppio scontrino spesso arriva prima nella graduatoria dei "normali". Mi consolo un po'. Forse me la caverò in meno di due ore. Rifletto che sarebbe bene che gli ammalati studiassero un po' di logistica, statistica e cose simili, in attesa che la mitica digitalizzazione tutto risolva. Intanto consumo l'attesa, scrutando la vita degli altri. Cos'altro fare? C'è una signora con bastone che interpella ognuno di quelli che la precede. Ricevendo sempre implacabili no. Succede poi che una signora apparentemente in migliore salute le risponde gridando duramente. Non è in migliore salute. Descrive vivacemente il suo cancro e le sue peripezie in modo che tutti ne siano informati. Le impiegate assistono impassibili. Non so quale training pratichino per restare impassibili di fronte ai conflitti che le oppongono agli utenti e di fronte ai conflitti in seno al popolo degli invalidi. C'è lo spunto quasi divertente che mi offre una signora elegante. Riceve il no da un giovane immigrato che accompagna un anziano. Urla allora contro "Sti immigrati che ci portano le malattie e ci tolgono il lavoro". La signora ha capito molto del tempo che fa, ma non tutto. Non riceve la solidarietà che cercava attorno a sé. Perché va bene dargli addosso all'immigrato per l'Italia incattivita. Ma la signora non ha capito che anche le signore eleganti sono nel mirino. Non vanno bene gli immigrati che ci tolgono – si dice – lavoro e posti negli alloggi assegnati e negli asili. Ma non sono gradite neanche le signore eleganti. Infatti gelo degli astanti. Nessuna solidarietà. Infine la scena più patetica. L’ultranovantenne che, forse anche lui interpellato per cedere il posto, non protesta, non sbraita, ma, con un filo di voce, racconta, come per giustificarsi: “Sono venuto qui solo; non so se riesco a prendere l’auto; sono stanco; non voglio più anni (un modo pudico per dire che è stanco di vivere); certe volte sento mia moglie che mi chiama (la moglie morta evidentemente)”. E qui la voce gli si spezza. E molti hanno gli occhi rossi mentre le impiegate continuano impassibili a ricevere proteste. Ma è il mio turno allo sportello dei pazienti “normali”. Bene. Ora farò relax al supermercato. Non ho neanche bisogno del carrello. Solo quattro cose da comprare. Le compro e vado alla cassa. Solo un cliente davanti a me. Uno dietro. Sto per poggiare le mie cose alla cassa, ma quello dietro mi dice: “Le dispiace? Ho solo questo”. E’ una variante della italica furbizia. Di quella che fa andare a letto sereni se almeno una volta nel giorno hai fregato qualcuno. Solo un tantino. Perché non siamo criminali. Solo furbi. Sappiamo stare al mondo. Come il signore che mi chiede di cedergli il turno perché ha solo tre cose da pagare mentre io ne ho quattro. Ah, sì, glielo cedo. Non mi costa molto farlo felice.

martedì 4 novembre 2014

Fabrizio Barca ad Ostia

Ieri sera, presso il circolo PD di Ostia Centro, incontro con Fabrizio Barca sul tema "Il destino dei partiti in Italia. Pubblico giovane e pubblico anziano (poco presenti 40-50enni). Pubblico sostanzialmene convergente con le tesi di Barca. In sintesi. Il Partito Democratico in Italia è l'ultimo che somigli a un partito. Con alcuni però. Critico Barca verso il partito americano immaginato da Veltroni. In Usa le frequenti elezioni anche per cariche “minori”, non elettive in Italia, danno consistenza al partito e alla sua militanza. In Italia il partito leggero rischia di evaporare del tutto in un comitato elettorale a sostegno del leader. Già ora in Europa i partiti hanno consistenza diversa rispetto all'Italia della seconda Repubblica. Critica netta allo statuto del PD che associa segretario e premier. Il partito deve essere il luogo di sintesi ed elaborazione anche di ciò che promana dai movimenti e del tutto distante dalle istituzioni di governo. Barca cerca di non apparire “contro”. Mette insieme il partito “inclusivo” di Renzi, quello “accogliente” di Civati e il suo che chiama “sperimentale”. Cioè attento al monitoraggio degli esiti delle proprie azioni e pronto a revisioni entro una certa cornice di valori. Che pare dissiparsi, credo voglia dire Barca. Critica netta anche riguardo la Direzione pletorica – 150 membri – impossibilitata a decidere alcunché. Abilitata solo a “mettere il bollo” su quanto deciso dal segretario. Servirebbe invece una vera Direzione, non di monologanti ma di decidenti attorno ad un tavolo di lavoro. E' il persistente appello ad un partito come intelligenza collettiva. Che non ha bisogno di “saggi”, ma della intelligenza diffusa nei territori. Unico momento in cui Barca alza la voce, rivendicando il diritto di alzarla, è nella critica palese all'ultimo discorso del segretario-premier presso Confindustria Brescia. Non tanto nel merito dell'attacco al sindacato giacché Barca ritiene che il sindacato vada profondamente rinnovato. Quanto nel fatto stesso che un tale attacco venga formulato in casa di chi non può che consentire. Troppo facile così, sembra dire Barca. Renzi formuli le sue critiche al Sindacato in casa del Sindacato. Ed eventualmente (ma questo è un mio malizioso avverbio) a Confindustria in casa di Confindustria.

domenica 2 novembre 2014

Sul trenino di Ostia


Lei è una fra i molti che chiede elemosina sul trenino. Di quelli che non hanno gli 80 euro perché non li spenderebbero per fare ripartire l'economia, l'economia che non riguarda lei e neanche le persone perché l'economia riguarda solo l'economia. Che poi l'economia degli economisti non riparta è un dettaglio. Ma - dicevo - lei è anziana e di lingua spagnola. Non finge di suonare né di lavare vetri. Semplicemente chiede una moneta. In cambio una parola: "cioccolato" se si rivolge a una bruna o una nera, "bionde", o qualcosa di simile, se si rivolge a una bionda. Davanti a me un uomo e due ragazze graziose ed eleganti, nerissime e che parlano italiano assai meglio degli italiani con genitori italiani. Infatti l'uomo davanti a me,inveendo contro la mendicante invadente, si rivolge a loro, come a chiedere solidarietà, perché la bellezza, l'eleganza e l'italiano perfetto le scoloriscono agli occhi del razzista verace. Io grido inutilmente: "Basta". Accanto a me un americano che si prepara alla rituale visita ad Ostia Antica, urla con veemenza NO alla richiesta di elemosina. Sicché lei replica: "SCEMO" con altrettanta veemenza. Sto con lei e sorrido felice della sua reazione. Poi arriva il controllore. Le intima di scendere ad Acilia. Ma si capisce che gioca una parte. Infatti si allontana. L'americano guarda come un giudice severo del costume italico, immagino. Curioso di vedere se ci azzecca. E certo che sì. Infatti lei non scende alla fermata di Acilia. Lui e l'altro di fronte a lui sbottano, ma lei sorride maliziosa. La realtà è più morbida e complessa delle semplificazioni della politica e dei suoi leader. Mi accorgo che sto con lei, con la mendicante, e sto anche col controllore che gioca la parte. Sto con l'Italia che non trova ordine e giustizia, ma che almeno non pretende di farli a sproposito. Ad Ostia Antica l'americano e lo sciagurato mio connazionale scendono. Così mi godo la felicità della mendicante spagnola.