domenica 16 dicembre 2012
Che cosa non si può dire?
domenica 9 dicembre 2012
La destra che piace alla sinistra
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Taranto
martedì 4 dicembre 2012
Come giudichiamo
mercoledì 28 novembre 2012
E l'Ilva è dei Riva?
I lavoratori sfortunati e combattivi dell'Ilva di Taranto ieri manifestavano davanti alla Direzione. "I padroni dell'azienda siamo noi" era lo slogan urlato. Forse non è vero. Non è vero giuridicamente. E l'Ilva non è solo di chi oggi ci lavora. E' un po' della città che la ospita e paga un prezzo continuo di vite. Ma certo è difficile dire e pensare veramente: "E' dei Riva. E' dei criminali arrestati o latitanti". Quale insopportabile contraddizione fra quello che è vero giuridicamene e quello che sentiamo vero. Bisogno di socialismo o cosa?
lunedì 5 novembre 2012
Di chi è la Fiat?
giovedì 1 novembre 2012
Fiat e licenziamenti: la verità di Alba Parietti
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mercoledì 10 ottobre 2012
La Firenze di Marchionne
martedì 18 settembre 2012
Sarei promosso in quinta elementare?
martedì 4 settembre 2012
Quelli di Alcoa e di Sulcis e quelli invisibili
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giovedì 30 agosto 2012
Qualche volta le donne non mi piacciono
venerdì 24 agosto 2012
Quelli che leggono Libero
La cugina del giudice
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venerdì 27 luglio 2012
I morti come clave
No, non mi è piaciuto il comunicato di condoglianze del nostro Presidente in occasione dell’improvvisa scomparsa del consigliere D’Ambrosio. Non mi è piaciuto che sia stato connotato da risentimenti e contestazioni verso chi aveva contestato lo stile del consigliere intercettato con Mancino implorante aiuto. Ho seguito, formulando nella mia testa giudizi prudenti sul significato dell’iniziativa di Napolitano, il ricorso del Presidente a un giudizio di legittimità in materia di intercettazioni che lo hanno riguardato. Ho voluto credere alla sua buona fede. Riguardo D’Ambrosio non ho elementi per contestare il valore dell’uomo, certificato dal suo curriculum. Però.. Però mi è apparso non apprezzabile la disponibilità del magistrato verso le lagnanze dell’ex ministro dell’Interno. Mi mancava, come a tutti, tranne che agli inquirenti, il tono del dialogo, tante volte più significativo delle parole. Il tono poteva essere di annoiata condiscendenza, come spesso verso i postulanti o magari di attiva condiscendenza. Ho pensato che con Mancino D’Ambrosio, intercedente, e forse lo stesso Napolitano potessero avere avuto quell’atteggiamento – come dire ? – vanitoso del potente cui viene chiesto aiuto. “Ci penso io”, “Vediamo cosa si può fare”. Il normale atteggiamento, nazionale, forse non solo nazionale, del potente corteggiato. L’atteggiamento che il ventennio del “ghe pensi mi” ha ulteriormente legittimato. Nondimeno il comunicato di Napolitano dopo l’improvvisa morte per infarto del suo consigliere è un’altra cosa. E’ possibile, certo, che gli attacchi subiti siano stati determinanti e fatali per un cuore malato. Così come è possibile che il no di una banca sia determinante nel suicidio di un imprenditore. O che lo stress dei ritmi della fabbrica sia determinante nell’incidente d’auto mortale di un operaio uscito dal lavoro. O forse erano determinanti le litigate con la moglie? Diciamo che tutti gli italiani corrono rischi nel lavoro e nella vita di ogni giorno. E producono rischi agli altri. Non può essere la morte il giudice. La morte non fa eventualmente giusto l’ingiusto. Lo rende solo meritevole di compassione. Napolitano – purtroppo- mi ha fatto pensare all’orrida strumentalizzazione della destra berlusconiana (non a caso accorsa in difesa del Presidente). Mi ha fatto pensare in particolare a quel tale ministro del welfare, di nome Sacconi, vero campione della strumentalizzazione della morte. Ricordate? In tempi non lontani, quando cominciava a entrare in crisi l’apparato ideologico della riforma berlusconiana del mercato del lavoro, l’assassinio di Biagi era l’unico argomento di Sacconi. Si presentavano al ministro dati drammatici sull’incremento del precariato. La sinistra per inciso cercava di distinguere Biagi e il suo Libro bianco dalla riforma del centrodestra che si diceva ispirata al Libro bianco del giuslavorista assassinato. Erano sempre prudenti, sulla difensiva, allora gli interlocutori di Sacconi nei tanti talk show in cui si replicò il copione. Alla prima osservazione, alle odiose statistiche Sacconi, paonazzo replicava: “vergona, non avete rispetto neanche per i morti”, con poche variazioni sul tema. Oggi, per riferire solo una voce dal centrodestra, quella dell’esponente più sgradevole di tutti, la caricatura di Crudelia De Mon, dobbiamo leggere “I pm hanno fatto un altro morto. Fermiamoli!".
Napolitano non ha detto così. Ma, Presidente, non avrei mai pensato che potesse sfiorarmi il pensiero di paragonarla a Sacconi e Santanché. Mi dispiace.
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venerdì 13 luglio 2012
Ortografia, sintassi e democrazia
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mercoledì 11 luglio 2012
Se Squinzi irrita lo spread
Squinzi parla di macelleria sociale e Monti replica che così il presidente di Confindustria fa salire lo spread. Non sono sicuro di sapere chi abbia ragione. Non so soprattutto se lo spread sia così “delicato” e sensibile da impennarsi per ogni opinione espressa. Ma francamente il mio timore è che Monti possa avere ragione. Mi chiedo però: a cosa è servita la decennale polemica democratica contro l’uso disinvolto dell’argomento “disfattismo” per mettere a tacere gli oppositori? Ho dato un’occhiata ai repertori storici dalla prima guerra mondiale al fascismo e ai dati dei condannati, penalmente o solo moralmente, colpevoli di avere indebolito le difese nazionali davanti al nemico. Ho ricordato le polemiche frequenti dell’ultimo governo contro l’opposizione (anti-italiana, anti-patriottica si sarebbe detto nel ventennio) che suggeriva un copione ostile alla stampa straniera. Ho scoperto poi che il nostro codice penale prevede il reato di disfattismo – anche economico – sia pur solo in tempo di guerra. L’Unità ha avuto un titolo efficace e ironico: “Taci, lo spread ti ascolta”. L’ironia però non serve che a esorcizzare il problema. Se convenissimo che una dichiarazione più o meno autorevole irrita lo spread assai più delle chiacchere da bar degli innocui cittadini, che faremmo? Daremmo ragione a Mussolini? Sposeremmo le ragioni dell’autoritarismo? Penso che noi ci illudiamo di poter conciliare le ragioni dell’economia con quelle della democrazia o almeno della libertà di espressione. Se non saggio, coraggioso sarebbe prendere atto del conflitto e scegliere: lo spread e l’economia o la democrazia. Io sceglierei la democrazia, scommettendo (sperando) che dalla democrazia discenda una nuova economia prima o dopo il disastro atteso. Perché questo avvenga servirebbe – credo – che le ragioni della democrazia sostanziale integrassero le garanzie della democrazia liberale. Questo vuol dire “semplicemente” che l’opinione di tale Squinzi pesi, conti, sia visibile e ascoltata come quella di tale Rossi e di tale Bianchi. Utopia? Sì, certo. Benaltrismo? No, per niente. Infatti senza remore, in attesa della democrazia impossibile (la libertà di tutti, scelgo la libertà di Squinzi.
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venerdì 1 giugno 2012
L'epidemia della furbizia idiota
martedì 22 maggio 2012
Brindisi, il romanzo di una strage
sabato 19 maggio 2012
Mentana e il politicamente scorretto
sabato 28 aprile 2012
Istat, disoccupati e inoccupati: perché non vediamo l'anomalia italiana?
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giovedì 26 aprile 2012
La passione dei vecchi, la ricerca dei giovani e la stanchezza degli altri
Oggi siamo pochi a lezione di inglese nel circolo territoriale Pd di Ostia levante. Entra un signore anziano. Ha voglia di parlare e non sa cosa facciamo attorno a un tavolo né gli interessa. Quindi poggia fra i nostri libri e quaderni ritagli di giornali; c'è una pagina del Messaggero con l'hit parade dei miliardari italiani. C'è Ferrero in testa, non ricordo il secondo, un po' sotto Armani, ancor più giù Berllusconi, etc. L'anziano compagno (così si è qualificato intanto) è scatenato contro Monti che non tassa i patrimoni miliardari, si scandalizza che sia tassata sempre più la sua pensione di 1.500 euro; però lui è con Monti, dice (come diciamo tutti noi del PD). Insomma nessuno sa come dirgli che siamo lì per studiare e anch'io sono un po' contrariato o almeno annoiato a sentire discorsi giusti ma scontati. Poi va via e Simona, giovanissima democratica, ci dice qualcosa dell'anziano compagno. Benedetto (mi pare si chiama così) è un ex professore di latino e greco e soprattutto ha 97 anni. 97. Ora non mi interessa più l'inglese. L'irritazione è verso me stesso. Penso a me fra 20 anni e mi sento di escludere che, se sarò vivo, avrò voglia di ritagliare la pagina del Messaggero, contestare il governo tecnico di Fornero junior e tanto meno dibattere se si tratti di un governo tecnico o tecnico-politico o politico, malgrado le apparenze.
Poi vado al cinema a vedere Diaz e mi accorgo di essere solo con quattro coppie di ragazzi attorno ai 20 anni. Non sono una comitiva. Ogni coppia sta su una fila diversa ed è lì per vedere il film, evidentemente per capire cosa accadde a Genova durante il G8 del 2001. Naturalmente mi avveleno lo spirito, rimuginando sull'antropologia dei poliziotti, sul gusto della mattanza, sulla poliziotta che non è più donna ma complice nella umiliazione dell'intimità della giovane arrestata. Anche se fosse successo la metà di quel che il film mostra, sarebbe troppo e intollerabile. E poi i titoli finali che ci ricordano che, per la prescrizione, nessuno pagherà e che nessuno è stato sospeso dal servizio. Così intossicato, solo vagamente consolato dal ricordo dell'anziano compagno che protesta e progetta e magari dalle quattro coppie di ventenni che vogliono sapere cosa accadde a Genova in quei giorni maledetti, sento che il sonno non arriva. Perciò mi confido nel web.
mercoledì 25 aprile 2012
La strage per rilanciare l'economia
domenica 1 aprile 2012
Sfregiare la bellezza per essere immortali
Nella scorsa fine settimana sono stato in gita fra i monti laziali e la valle dell'Aniene. Ho visitato fra l'altro il suggestivo monastero di San Benedetto a Subiaco. Non immaginavo tanta bellezza.Io,moglie e amici eravamo forse gli unici italiani, oltre ad una scolaresca, normalmente disattenta e vociante. La prevalenza era di stranieri e di cinesi in particolare (insomma credo fossero cinesi). Poi all'uscita è successo qualcosa che mi succede sempre più di frequente. Quasi un riflesso condizionato di patriottismo e di vergogna che mi induceva a fare scudo col mio corpo affinché i cinesi non vedessero e le loro macchine fotografiche non registrassero. Su una parte del portico un antico affresco e uno scempio incomprensibile. Mani diverse negli anni, con tutta probabilità di scolaresche “in viaggio di istruzione”, avevano sfregiato l'affresco con penne, pennarelli e incisioni con chiavi o punteruoli, variamente segnati dal tempo. Comprensibile (e comunque inaccettabile) che potesse succedere una volta, non immaginando la stupidità e l'incultura dei visitatori. Ma poi? Perché nessuna protezione e nessuna sorveglianza verso le pulsioni all’immortalità dei nostri studenti (studenti di che?). Così per sempre i visitatori sapranno che: Sebastiano ama Maria, Rita ama Federico, Antonio ha fatto l'amore con Anna, etc.
D'accordo sulle battaglie simboliche (faccio finta di essere d'accordo), ma quando combatteremo le battaglie vere? E quale conoscenza abbiamo oggi dei nostri ragazzi? Comprendiamo cosa passa per le loro teste quando si esercitano a sfregiare la bellezza? Sfregiano perché sanno o perché non sanno? Per dispetto o per ignoranza? Non dovremmo poter sottrarci a tali domande. Le risposte sono indispensabili per definire obiettivi, strumenti e luoghi della Scuola e della comunità educante e direzione degli investimenti: maggior investimento nella didattica della Storia dell’arte e/o battaglia contro il nichilismo e/o maggior investimento nella proposta di senso per le nuove generazioni.
Al monastero intitolato alla sorella di Benedetto, Santa Scolastica, ci aggreghiamo appena in tempo a un gruppo assistito da una giovane guida, preziosa per leggere le stratificazioni architettoniche secolari del monastero, a partire dal periodo romanico. Molto brava davvero. Una laureata in Storia dei Beni culturali? Probabile. Alla fine della visita aspettiamo di capire come e a chi pagare il servizio. La giovane guida ci anticipa. “Chi vuole può lasciare un’offerta in quel cestino”. Si allontana per non metterci in imbarazzo e il cestino raccoglie qualche euro in moneta. Così l’Italia dai mille campanili da 40 anni continua a perdere posizioni anche nell’economia del turismo. Il paese più ricco di storia e di bellezza nel mondo oggi ha 44 milioni di visitatori contro i 54 della Germania e i 79 della Francia. E i nostri archeologi, restauratori, storici dell’arte si dannano l’anima per un contratto co.co.co., accettano una offerta modesta da noi tranquilli pensionati, tranquillamente ignoranti, oppure prendono la paghetta da genitori e nonni. In questo assoluto non senso diventiamo variamente complici degli anonimi giovani sfregiatori di affreschi, in-sensati come loro.
“Beni culturali e spreco. Promemoria per Bondi e Brambilla” era il titolo di precedenti riflessioni su temi a questo analoghi.
http://www.rossodemocratico.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=2496194
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domenica 4 marzo 2012
A che servono questi quattrini?
Ho assistito al "Nino Manfredi" di Ostia alla commedia "A che servono questi quattrini" rappresentata dalla compagnia di Luigi De Filippo. Non pensavo di divertirmi e pensavo che il lavoro di Armando Curcio mi avrebbe indotto a giudizi critici giacché sono un siciliano refrattario alla “saggezza” di molta produzione meridionale. La commedia era stata rappresentata nel '40 dai fratelli De Filippo e successivamente era diventata un film. Mi sono divertito moderatamente. Ma quel che mi ha agitato durante la rappresentazione è stato il pensiero dell'estrema attualità del testo. In sintesi, è la storia di un nobile, già ricco e poi fallito, un po' professore di filosofia stoica (naturalmente sempre fraintesa dagli allievi) un po' imbroglione, convinto assertore dell'inutilità del lavoro e del denaro e però certo che all'occorrenza basti fingere il possesso del denaro, senza la fatica di guadagnarlo. Insomma penso che per colpa prevalentemente del circolo, di alcuni amici, e degli stimoli ricevuti dal circolo, sono stato lì ad esaminare analogie. Su fb avevo condiviso una storiella che dimostrava come, senza produzione alcuna, 100 euro consegnati all'albergatore, passando per svariate mani e saldando svariati debiti producessero benessere a un gruppo numeroso. E un amico mi aveva fatto notare di aver ideato anche lui una storia simile. Solo che il denaro in oggetto nella sua variante era falso. Ma prima ancora avevo letto un articolo di Federico Rampini che riferiva di una teoria dello sviluppo iperkeinesiana che sta acquistando spazio crescente negli USA, la Modern Monetary Theory. Per capire mi limito a citare il titolo di Rampini. "E se la risposta alla crisi fosse stampare più soldi?" . E’ possibile? E’ possibile che l’economia reale, la fatica degli uomini, lo sforzo imprenditoriale di interpretare i bisogni umani, di organizzare l’impresa, di scegliere tecnologie e competenze sia cosa inutile o secondaria? Che conti solo l’intuizione politica/economica che basti pompare denaro, liquidità nelle vene del sistema perché tutto si aggiusti? Sì, certo, sto pensando alla droga. Ma non fa differenza. Siano vitamine o siano droga i quattrini, che differenza c’è? O la differenza c’è? Se c’è è la differenza fra l’economia di carta e quella reale. Spero che chi avrà imparato a prescindere dall’economia di carta, chi si sarà occupato di produrre banalmente cibo sano, di difendere le colline, Pompei e la scuola alla fine vinca. Come il passista nelle corse di bici che non insegue chi scappa (non teme lo spread). Continua col suo passo e pian piano raggiunge e lascia ai margini della strada un fuggitivo dopo l’altro. Fuor di metafora, mettendo tutti al lavoro. Semplicemente.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/02/21/se-la-risposta-alla-crisi-fosse.html
giovedì 1 marzo 2012
In memoria di Lucio e di noi stessi: come eravamo
Lucio Dalla era mio coetaneo, più vecchio di me di soli tre mesi. Lo ricordo agli inizi di carriera, sul finire del '67. Lo incontrai alla Casa del soldato di Bologna, il ghetto ricreativo di noi militari di allora. Cantò: "Quand'ero soldato". Era un periodo dolce/amaro, prevalentemente amaro. La Sicilia lasciata alle spalle con la mia ragazza - oggi mia moglie - "consegnata" alle cure dell'ex mio compagno di banco perché la facesse svagare un po' , senza perderla di vista. C'era innanzitutto la dolcezza e la passione indimenticata di Bologna. Il percorso per tornare in caserma pieno di osterie da cui si levava - udite, udite - "Bandiera Rossa". E lì, in caserma, un'altra città, un altro mondo, un'altra Costituzione. Il tenente istruttore che nell'ora di educazione civica faceva l'apologia del colpo di Stato dei colonnelli in Grecia. La domenica i soldati inquadrati e condotti alla messa fra imprecazioni e bestemmie degli ufficiali. Io che mi ribello e per tre volte finisco in gattabuia sul tavolaccio. Etc. A causa della mia partecipazione alla protesta per l'assassinio dello studente Paolo Rossi alla Sapienza, non ero stato considerato abile ad alcun grado, neanche di caporale, né a portare armi. Addetto all'Infermeria, come il figlio del generale colpevole di aver militato nella Resistenza. Come il giovane avvocato calabrese maoista, rigorosamente confinato senza gradi nelle cucine. Così eravamo e così conobbi l'ironia dissacrante di Dalla. Eravamo abituati a tollerare tutto. Poi venne il '68 e finalmente smettemmo di tollerare l'intollerabile.
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sabato 11 febbraio 2012
La prostituzione precaria ovvero l'amore delle donne
Prima piccolo artigiano fallito poi operaio licenziato, un uomo di 44 anni del fu ricco nordest, decide di impiccarsi. La moglie, di 7 anni più giovane, lo salva appena in tempo. Poi lei, come le donne innamorate dei film o forse della realtà, lo rassicura dicendogli che ha trovato lavoro come badante di notte. Si tirerà avanti col suo stipendio fino a che lui non troverà un nuovo lavoro. Succede però che un giorno la polizia telefona al marito informandolo che la moglie è stata presa in una retata. Faceva la prostituta. Apparentemente quieta, comprensiva e grata la reazione del marito che anzi fa una sorta di breve relazione socio-economica sul fatto. “E’ una situazione che ho imparato ad accettare, ma che non mi sta assolutamente bene. Per questo continuo nella disperata ricerca di un lavoro. Qualsiasi, purché sia onesto”. E poi: “Non so quanto resista il padrone di casa prima di buttarci fuori. Mia moglie riesce a portare a casa anche centocinquanta euro in una sera, se va bene. Ma spesso torna a mani vuote. Con quello che guadagna riusciamo a mangiare. Ma così non può continuare”. Bene. Forse una volta eravamo intrisi di pregiudizi. Forse una volta a una moglie non sarebbe apparso naturale risolvere il problema drammatico della sopravvivenza in quel modo. Forse una volta un marito come il suo non avrebbe rilasciato una intervista come quella, in cui non appare chiaro se il disappunto sia per la tipologia del lavoro della moglie o per la sua natura precaria (non da posto fisso). Non formulo nessun giudizio morale. Caso mai mi dichiaro sbigottito per quello smisurato amore femminile che è amore per il compagno e – apparentemente (o no?) – disamore per la propria persona. Ho parlato di pregiudizi perché non escludo che la donna possa aver sentito quel prostituirsi come cosa non diversa che offrire il proprio corpo per un lavoro di fabbrica o la propria perizia come cosa non diversa dalla perizia di una manicure. E’ tempo che superiamo i nostri pregiudizi a riguardo? Peraltro da tempo presunte studentesse e casalinghe “insoddisfatte” si propongono nel mercato dei precari del sesso, probabilmente quasi sempre professioniste con forti competenze di marketing. Hanno capito l’attrattiva maggiore di un rapporto con una “dilettante”. Però adesso forse comincia a diventare autentico il mercato del sesso precario.
Significato per qualche aspetto simile attribuisco a un’altra storia di cui ho letto recentemente. Una grossa azienda statunitense di abbigliamento, la Ecko, propone con successo uno scambio: fatevi tatuare sul corpo il nostro marchio e in cambio avrete, vita natural durante, uno sconto del 20% sui nostri prodotti.
Magari l’offerta non “discrimina” gli uomini, ma immagino che per promuovere merci il corpo maschile abbia minor appeal. Mi sto chiedendo comunque: E’ questo l’epilogo della rivendicazione femminista “Il corpo è mio e ne dispongo come voglio?” Lo chiedo non retoricamente. Magari è tutto giusto.
Però – ripeto - mi preoccupa un po’ la reazione del marito di cui dicevo prima. Se il corpo femminile ha un mercato che quello maschile non ha, allora la crisi potrebbe lasciare integri i corpi degli uomini e aggredire con sesso e tatuaggi i corpi femminili, ultima riserva di famiglie senza risparmi e senza stato sociale.
Significato per qualche aspetto simile attribuisco a un’altra storia di cui ho letto recentemente. Una grossa azienda statunitense di abbigliamento, la Ecko, propone con successo uno scambio: fatevi tatuare sul corpo il nostro marchio e in cambio avrete, vita natural durante, uno sconto del 20% sui nostri prodotti.
Magari l’offerta non “discrimina” gli uomini, ma immagino che per promuovere merci il corpo maschile abbia minor appeal. Mi sto chiedendo comunque: E’ questo l’epilogo della rivendicazione femminista “Il corpo è mio e ne dispongo come voglio?” Lo chiedo non retoricamente. Magari è tutto giusto.
Però – ripeto - mi preoccupa un po’ la reazione del marito di cui dicevo prima. Se il corpo femminile ha un mercato che quello maschile non ha, allora la crisi potrebbe lasciare integri i corpi degli uomini e aggredire con sesso e tatuaggi i corpi femminili, ultima riserva di famiglie senza risparmi e senza stato sociale.
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Il gelo e i sensi di colpa
Della settimana scorsa e della prima emergenza neve ricordo il senso di colpa. Al normale, quotidiano, senso di colpa verso chi è senza lavoro si aggiungeva il senso di colpa eccezionale per chi andava al lavoro, affrontando pioggia, neve, gelo, mezzi pubblici in tilt. Insomma, mentre in genere il pensionato mi appare come un escluso dai piaceri della vita attiva, all'improvviso sentivo tutto il privilegio di quella condizione. Ero chiuso e protetto nella mia casa calda sul litorale romano, già risparmiato dall'infierire climatico su Roma, mentre anche le mie figlie, come milioni di italiani, non avevano altra scelta che sfidare la tormenta per apparire lavoratrici affidabili.
Così oggi la nemesi. Non posso mancare all'appuntamento in un ospedale lontano da casa nella capitale d'Italia, metropoli troppo estesa. Prendo il trenino e poi il bus imbacuccato come non mai, addirittura con cappello, sciarpa, guanti, ombrello, etc.. Mancano solo i mutandoni di lana e il pigiama felpato che portavo quando d'inverno, a Bologna, ero di guardia all'aperto davanti alla caserma del 17° Reggimento di artiglieria contraerea, giacché con gli anni comunque mi sono ringiovanito e liberato sempre più dei pesi eccessivi. All'andata soffro con moderazione: freddo e nevischio in faccia nello spostamento da un mezzo pubblico all'altro e nient'altro. Al ritorno è un incubo. Un'ora in attesa di un bus che non arriva, mentre la temperatura si abbassa e i piedi si congelano, sotto (???) una pensilina strettissima che finge di ripararti da pioggia, neve e vento. Un'anima buona poi mi avverte che il bus da lì passa ad ore imprecisate. Conviene prenderne un altro in direzione opposta, arrivare alla metro e prendere il trenino per Ostia. Così faccio, sperando di arrivare a casa prima che arrivi il peggio. Insomma ora sono qui di nuovo al calduccio e mi viene da pensare ai lavoratori mostrati l'altro giorno a Piazza Pulita, che fanno il cottimo all'inferno a spostare scatole di surgelati in un ambiente a -30 gradi, rinunciando alle pause per arrivare ai fatidici 1.000 euro al mese. I sensi di colpa e lo stupore per un mondo incomprensibile ritornano.
Così oggi la nemesi. Non posso mancare all'appuntamento in un ospedale lontano da casa nella capitale d'Italia, metropoli troppo estesa. Prendo il trenino e poi il bus imbacuccato come non mai, addirittura con cappello, sciarpa, guanti, ombrello, etc.. Mancano solo i mutandoni di lana e il pigiama felpato che portavo quando d'inverno, a Bologna, ero di guardia all'aperto davanti alla caserma del 17° Reggimento di artiglieria contraerea, giacché con gli anni comunque mi sono ringiovanito e liberato sempre più dei pesi eccessivi. All'andata soffro con moderazione: freddo e nevischio in faccia nello spostamento da un mezzo pubblico all'altro e nient'altro. Al ritorno è un incubo. Un'ora in attesa di un bus che non arriva, mentre la temperatura si abbassa e i piedi si congelano, sotto (???) una pensilina strettissima che finge di ripararti da pioggia, neve e vento. Un'anima buona poi mi avverte che il bus da lì passa ad ore imprecisate. Conviene prenderne un altro in direzione opposta, arrivare alla metro e prendere il trenino per Ostia. Così faccio, sperando di arrivare a casa prima che arrivi il peggio. Insomma ora sono qui di nuovo al calduccio e mi viene da pensare ai lavoratori mostrati l'altro giorno a Piazza Pulita, che fanno il cottimo all'inferno a spostare scatole di surgelati in un ambiente a -30 gradi, rinunciando alle pause per arrivare ai fatidici 1.000 euro al mese. I sensi di colpa e lo stupore per un mondo incomprensibile ritornano.
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martedì 7 febbraio 2012
Shame, prima o dopo la politica
Parlo di un film per allontanarmi dalla politica. Un po’ perché la politica è troppo complicata per me. So quel che mi piace. So quel che non mi piace. Non ho ricette sicure per raggiungere l’obiettivo di quel mondo in cui mi piacerebbe vivere. Non riesco a illudermi – l’ho detto più volte – che basti rimuovere Berlusconi o Martone o Schettino o Monti o la finanza. Non sono neanche sicuro che basti rimuovere il mercato o il capitalismo, anche se questo sarebbe il cambiamento radicale che riesco a immaginare. Pare che abbiamo sperimentato anche questo col socialismo reale. Pare perché forse il socialismo potrebbe essere una cosa diversa. Pare, potrebbe.
Parlo di Shame perché il film mi ricorda decisive ragioni per andare oltre o prima della politica. Così posso sentirmi assolto per la mia “incompetenza”, come incompetenza in ultima analisi riguardante una cosa, grande quanto vuoi, ma comunque minore.
Non ho nemmeno gli strumenti per produrmi in una critica cinematografica. Su questo me la caverò in due righe.
Comincio col dire che non mi era mai capitato prima di essere parte di un cineforum improvviso e informale come un happening, all’uscita dal cinema. Le poche coppie presenti che rompono il ghiaccio con sguardi interrogativi e domande del tipo: “Scusi. Ho perso l’inizio. Ma era successo qualcosa?” “No, non era successo niente e non c’è nulla da spiegare” cerco inutilmente di affermare. Ma non c’è verso. Per spiegare l’abiezione e il dolore del protagonista consumati in ossessivi rituali sessuali qualcuno presume un trauma infantile, chi un incesto ancora lacerante, etc.
Il film divide il pubblico, con tutta evidenza. Non per la regia, non per la fotografia, non per la colonna sonora, non per gli attori, elementi tutti apprezzati. Mostrano delusione per il film quelli che vi leggono la storia di una dipendenza da sesso di un giovane, affascinante manager in una New York opulenta e livida. Questa parte del pubblico si affatica a cercare una spiegazione dell'origine della "malattia" e così evita di vedere quello che siamo o stiamo diventando. Cerca nella psicologia ciò che a mio avviso può trovare solo nell’antropologia, nell’uomo com’è oggi o addirittura come è sempre stato. Non servono, per dire, le riflessioni psicoterapiche, con la speranza di salvezza, del Freud più giovane. Servono le riflessioni del Freud più tardo e l’iscrizione di Eros e Thanatos nella parte costitutiva, ineliminabile, dell’umano. Il protagonista, Brandon, è solo l'avanguardia di una umanità vicina a scoprire l’abisso. La "malattia" (l'anomalia) non è di Brandon. E’ nella storia delle illusioni che abbiamo alle spalle: l'amore, la famiglia, la patria, la politica, etc.. Quando le illusioni cadono resta la solitudine davanti all'incubo della cosa impensabile e impronunciabile: la morte. Solo l'orgasmo - la piccola morte, la petite mort dei francesi - può farla dimenticare: per l'intensità anestetica del sesso, replicabile più di altre pratiche anestetiche, nelle innumerevoli formi possibili che il protagonista esibisce, dell'accoppiamento etero, omo, multiplo/orgiastico, dell'onanismo, delle infinite occasioni del sesso virtuale. E’ un eros potenzialmente “democratico” oggi, aperto a tutti, non solo al bellissimo e infelicissimo protagonista. E forse a quanti hanno creduto di assistere alla storia di una banale e rassicurante patologia individuale sfugge che, accanto al protagonista, esibiscono segni dell’invadenza totalitaria dell’eros anche i personaggi minori. La sorella del protagonista, tra un tentativo e l’altro di suicidio intervallato da accoppiamenti “gratuiti”. Così il suo partner di un momento. Così la ragazza incontrata nella metro che gode onanisticamente per quel che sembra l’annuncio di un rapporto. E invece il rapporto non c’è e non è neanche cercato. La ragazza, inutilmente inseguita, sparirà nella folla, sapendo di trovare all’occorrenza altre emozioni, dono di Eros. La vita però -ahimè - non può essere riempita da un orgasmo ininterrotto. Il protagonista attinge al fondo della libido e dello stordimento nella splendida scena dell'orgia mercenaria dai corpi bellissimi scolpiti con una fotografia innamorata e rapita. Lì l’orgasmo si mischia a singhiozzi disperati. Da lì Brandon sembra smettere di inseguire lo stordimento e l'oblio. Cos'altro troverà l'autore non dice. L'alternativa l'aveva già mostrata nell’ultimo tentativo di suicidio della sorella: vincere la morte, andandole incontro.
Penso a queste cose dunque. Alla New York opulenta paradigma dell’occidente opulento dalle opportunità infinite. E mi sembra che la disperazione sia l’esito di quella opulenza, come del suo rovescio, la penuria e la precarietà. Penso anche che in Italia abbiamo incontrato i segni di quella disperazione in analoga forma. E’ strano che non ci si pensi guardando il film. Abbiamo visto un uomo che in sé cumulava ricchezza, potere ed anche amore smisurato di folle adoranti, compromettere tutto per inseguire l’assoluto: il potere assoluto in un paese ridotto all’harem di un sultano. L’abbiamo conosciuto e non lo abbiamo veramente compreso perché non abbiamo compreso la disperazione di quell’uomo. Abbiamo inibito la nostra “comprensione” perché ci sembrava di assolverlo qualora lo avessimo compreso. Era giusto non assolverlo per aver messo in ginocchio un paese solo per disporre dell’harem che gli facesse dimenticare il mausoleo che lo aspetta ad Arcore. Dovevamo comprenderlo però perché ci ha indicato la strada che ci aspetta quando non saremo più distratti dalla fatica, dagli ideali e da quanto inventiamo per dimenticare la morte. E, secondariamente, ha reso pubblica una cosa normalmente taciuta: la sessualità degli anziani ed eros che mai non arretra .
Ora la scoperta di un dio e dell’immortalità mi sembra l’antidoto possibile all’eros distruttivo. Per chi – come me – è lontano da tale scoperta, resta la politica come speranza di superare il dolore della penuria e quello dell’abbondanza. Già, perché la politica viene dopo la filosofia che è la lente con cui guardiamo il mondo e però viene prima perché ci induce a scegliere una lente o un’altra lente. Non ero partito sapendo di arrivare a questo. Comunicando con gli altri comunichiamo con noi stessi e ci cambiamo. Anche Mc Queen, il regista di Shame, sospetto, cominciò a girare il suo film con quel titolo, accorgendosi forse poi che il tema non era la vergogna ma la paura: era Eros e Thanatos. Ma non cambiò il titolo. O forse continuò a pensare di aver parlato della patologia di un uomo. Io invece il mio titolo l’ho cambiato più volte, man mano che scoprivo di cosa veramente volevo parlare.
Parlo di Shame perché il film mi ricorda decisive ragioni per andare oltre o prima della politica. Così posso sentirmi assolto per la mia “incompetenza”, come incompetenza in ultima analisi riguardante una cosa, grande quanto vuoi, ma comunque minore.
Non ho nemmeno gli strumenti per produrmi in una critica cinematografica. Su questo me la caverò in due righe.
Comincio col dire che non mi era mai capitato prima di essere parte di un cineforum improvviso e informale come un happening, all’uscita dal cinema. Le poche coppie presenti che rompono il ghiaccio con sguardi interrogativi e domande del tipo: “Scusi. Ho perso l’inizio. Ma era successo qualcosa?” “No, non era successo niente e non c’è nulla da spiegare” cerco inutilmente di affermare. Ma non c’è verso. Per spiegare l’abiezione e il dolore del protagonista consumati in ossessivi rituali sessuali qualcuno presume un trauma infantile, chi un incesto ancora lacerante, etc.
Il film divide il pubblico, con tutta evidenza. Non per la regia, non per la fotografia, non per la colonna sonora, non per gli attori, elementi tutti apprezzati. Mostrano delusione per il film quelli che vi leggono la storia di una dipendenza da sesso di un giovane, affascinante manager in una New York opulenta e livida. Questa parte del pubblico si affatica a cercare una spiegazione dell'origine della "malattia" e così evita di vedere quello che siamo o stiamo diventando. Cerca nella psicologia ciò che a mio avviso può trovare solo nell’antropologia, nell’uomo com’è oggi o addirittura come è sempre stato. Non servono, per dire, le riflessioni psicoterapiche, con la speranza di salvezza, del Freud più giovane. Servono le riflessioni del Freud più tardo e l’iscrizione di Eros e Thanatos nella parte costitutiva, ineliminabile, dell’umano. Il protagonista, Brandon, è solo l'avanguardia di una umanità vicina a scoprire l’abisso. La "malattia" (l'anomalia) non è di Brandon. E’ nella storia delle illusioni che abbiamo alle spalle: l'amore, la famiglia, la patria, la politica, etc.. Quando le illusioni cadono resta la solitudine davanti all'incubo della cosa impensabile e impronunciabile: la morte. Solo l'orgasmo - la piccola morte, la petite mort dei francesi - può farla dimenticare: per l'intensità anestetica del sesso, replicabile più di altre pratiche anestetiche, nelle innumerevoli formi possibili che il protagonista esibisce, dell'accoppiamento etero, omo, multiplo/orgiastico, dell'onanismo, delle infinite occasioni del sesso virtuale. E’ un eros potenzialmente “democratico” oggi, aperto a tutti, non solo al bellissimo e infelicissimo protagonista. E forse a quanti hanno creduto di assistere alla storia di una banale e rassicurante patologia individuale sfugge che, accanto al protagonista, esibiscono segni dell’invadenza totalitaria dell’eros anche i personaggi minori. La sorella del protagonista, tra un tentativo e l’altro di suicidio intervallato da accoppiamenti “gratuiti”. Così il suo partner di un momento. Così la ragazza incontrata nella metro che gode onanisticamente per quel che sembra l’annuncio di un rapporto. E invece il rapporto non c’è e non è neanche cercato. La ragazza, inutilmente inseguita, sparirà nella folla, sapendo di trovare all’occorrenza altre emozioni, dono di Eros. La vita però -ahimè - non può essere riempita da un orgasmo ininterrotto. Il protagonista attinge al fondo della libido e dello stordimento nella splendida scena dell'orgia mercenaria dai corpi bellissimi scolpiti con una fotografia innamorata e rapita. Lì l’orgasmo si mischia a singhiozzi disperati. Da lì Brandon sembra smettere di inseguire lo stordimento e l'oblio. Cos'altro troverà l'autore non dice. L'alternativa l'aveva già mostrata nell’ultimo tentativo di suicidio della sorella: vincere la morte, andandole incontro.
Penso a queste cose dunque. Alla New York opulenta paradigma dell’occidente opulento dalle opportunità infinite. E mi sembra che la disperazione sia l’esito di quella opulenza, come del suo rovescio, la penuria e la precarietà. Penso anche che in Italia abbiamo incontrato i segni di quella disperazione in analoga forma. E’ strano che non ci si pensi guardando il film. Abbiamo visto un uomo che in sé cumulava ricchezza, potere ed anche amore smisurato di folle adoranti, compromettere tutto per inseguire l’assoluto: il potere assoluto in un paese ridotto all’harem di un sultano. L’abbiamo conosciuto e non lo abbiamo veramente compreso perché non abbiamo compreso la disperazione di quell’uomo. Abbiamo inibito la nostra “comprensione” perché ci sembrava di assolverlo qualora lo avessimo compreso. Era giusto non assolverlo per aver messo in ginocchio un paese solo per disporre dell’harem che gli facesse dimenticare il mausoleo che lo aspetta ad Arcore. Dovevamo comprenderlo però perché ci ha indicato la strada che ci aspetta quando non saremo più distratti dalla fatica, dagli ideali e da quanto inventiamo per dimenticare la morte. E, secondariamente, ha reso pubblica una cosa normalmente taciuta: la sessualità degli anziani ed eros che mai non arretra .
Ora la scoperta di un dio e dell’immortalità mi sembra l’antidoto possibile all’eros distruttivo. Per chi – come me – è lontano da tale scoperta, resta la politica come speranza di superare il dolore della penuria e quello dell’abbondanza. Già, perché la politica viene dopo la filosofia che è la lente con cui guardiamo il mondo e però viene prima perché ci induce a scegliere una lente o un’altra lente. Non ero partito sapendo di arrivare a questo. Comunicando con gli altri comunichiamo con noi stessi e ci cambiamo. Anche Mc Queen, il regista di Shame, sospetto, cominciò a girare il suo film con quel titolo, accorgendosi forse poi che il tema non era la vergogna ma la paura: era Eros e Thanatos. Ma non cambiò il titolo. O forse continuò a pensare di aver parlato della patologia di un uomo. Io invece il mio titolo l’ho cambiato più volte, man mano che scoprivo di cosa veramente volevo parlare.
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mercoledì 1 febbraio 2012
Raccomandati, sfigati, incattiviti, impotenti
E’ possibile che io stia diventando buono? Indulgente? Pietoso?
E’ possibile che i miei concittadini esorcizzino l’impotenza contro la paura incombente, scagliandosi contro il primo che passa, vivo o morto che sia?
Senza andare troppo lontano nell’ultimo mese il più facile bersaglio è stato il comandante del Concordia, Francesco Schettino: incapace e codardo. Noi abbiamo trovato per fortuna l’esempio positivo nella grinta del comandante della capitaneria del Giglio, Gregorio De Falco.. Con lui abbiamo gridato a Schettino: “Cazzo, salga sulla nave!” .
Solo dopo qualche giorno dall’incidente tragico e colpevole e dal diluvio di contumelie, mi capita finalmente di sentire diagnosi e implicite proposte di prevenzione da parte del sociologo Domenico Masi e dal giornalista Federico Rampini in una intervista della Gruber. Il primo punta l’indice contro l’assenza manifesta in Italia della cultura delle scienze dell’organizzazione. Tutti sappiamo di Einstein, nessuno di Taylor o Ford che ci avrebbero insegnato a prevenire il disastro., il secondo oppone alla prassi italiana del solitario capro espiatorio la prassi statunitense per cui chi ha nominato il colpevole è colpevole lui stesso e tenuto alle dimissioni. Insomma il povero Schettino non avrebbe mai dovuto essere chiamato a un ruolo di comando e comunque avrebbero dovuto essere previste procedure per rimediare all’impazzimento di un comandante. A disastro compiuto, molte teste dovrebbero cadere. Non sono analisi e diagnosi appassionanti, mi rendo conto, nulla di confrontabile alla goduria che ci offre la registrazione della viltà di un comandante. Sono solo analisi e diagnosi utili e corrette.
Poi, giorni fa – udite, udite! – il viceministro del lavoro, tale Michel Martone, si permette di chiamare “sfigati” i giovani italiani che si laureano dopo i 28 anni. Martone è uno facilmente antipatico per almeno un paio di ragioni:
A. E’ un figlio di famiglia con un padre che gli ha reso agevole una carriera fulminea, dottorato, ricercatore e poi titolare di cattedra universitaria a 33 anni. Quindi consulente ben retribuito nel precedente governo. Infine viceministro. Diciamo che non ho le prove, ma ho la certezza interiore che Martone sia un raccomandato.
B. Martone ha il ghigno del saputello, di quello che ha imparato una lezioncina e la ripete compiaciuto dall’alto della cattedra.
Grazie ancora alla Gruber, seguo l’intervista all’antipatico Martone. E purtroppo anche il bravo Vittorio Zucconi, da New York, infierisce contro il malcapitato. “Per essere equilibrati, dice Zucconi, se Martone ha potuto pronunciare quelle parole infelici, possiamo dirgli che ha detto una cazzata”. E’ facile sparare a zero sul poveretto caduto sul tappeto, no? Non è da meno l’adorabile Luciana Littizzetto che preferisce “minchiata” a cazzata, venendo in soccorso di una causa già vinta.
Io per la verità pensavo che “sfigato” significasse solo sfortunato, ma anche le mie figlie consultate, benché tutte laureate nei tempi giusti e brillantemente, solidarizzano con gli sfigati e sono incavolate col viceministro. “Sfigati” mi spiegano non significa semplicemente sfortunati. Ha una valenza negativa.
Così capisco che è del tutto irrilevante che Martone abbia potuto dire cose ragionevoli: che le imprese non guardano con favore chi impiega 10 anni a conseguire una laurea, soprattutto se non sa spiegare il perché (la condizione di studente lavoratore, ad esempio) o che è preferibile essere un brillante artigiano piuttosto che un laureato che si arrangia nei call center. Cose ragionevoli, anche se io stesso colgo in Martone sfumature classiste che i suoi detrattori non colgono o non esplicitano. Voglio dire che sono pressoché certo che anche il viceministro sarebbe quanto meno profondamente deluso se suo figlio un giorno gli annunciasse di voler fare l’idraulico. Sotto i discorsi ragionevoli persiste il vecchio classismo: l’università per i miei figli, per i tuoi l’officina che è così gratificante. Ma questo non c‘entra col merito della questione che è invece: gli antipatici hanno comunque torto. Così siamo costretti a rifiutare anche le buone pietanze proposte dallo chief che non ha saputo salutarci a dovere. Il compianto Padoa Schioppa che osava più di Martone nel linguaggio, osò dire che le tasse sono belle. Poi chiamò “bamboccioni” i ragazzi che si attardano nelle pareti domestiche. “Bamboccioni” non mi sembra più lieve di “sfigati”. Ma Padoa Schioppa non dovette scusarsi. Lui non aveva fama di raccomandato nel paese in cui l’usciere raccomandato è inflessibile contro il professore raccomandato. Nel paese in cui chi vale 100 deve raccomandarsi per avere 50. Nel paese in cui è stata abrogata la tassa di successione e i mediocri fratelli Elkan ereditano le fortune del brillante nonno.
Oggi, dulcis in fundo, mi capita di leggere su un blog commenti alla scomparsa del presidente Scalfaro e trovo, accanto a legittime critiche al suo passato di magistrato e a sue giovanili gesta da moralista, questi sintetici giudizi ad opera di coraggiosi autori dai fantasiosi nickname:
Wheel: uno in meno che percepisce i nostri soldi!
Kiko: uno stronzo con 3 autoblu in meno per gli italiani
Xxx: una pensione di senatore in meno
L’Italia frantumata degli impavidi, spietati critici di Schettino, come di Martone, come di Scalfaro non sa, non può, non vuole trovare progetti unificanti. L’Italia dei forconi vuole menare le mani col primo che passa. Si accontenterà di 15 centesimi di sconto sul carburante, del salvataggio di una industria decotta. Raccoglie con lo scolapasta i marosi della globalizzazione, boicottando le calze dell’Omsa delocalizzante. Non è capace di dire cose discutibili ma radicali. Potrebbe dire e pretendere, salendo compatta sui tetti o attendandosi presso i luoghi delle decisioni politiche:
Galera a chi usi il proprio ruolo per uso personale (raccomandazioni e illeciti lucri) .
Galera agli evasori
Disincentivazione delle merci troppo viaggianti e inquinanti
Blocco delle merci provenienti da paesi e fabbriche che violino i diritti umani
Elevata tassa di successione fino eventualmente all’esproprio
Prestito d’onore generalizzato per lo studio, per fare impresa, per fare casa
Subito il salario minimo sociale.
Ma quell’Italia non è interessata ad un nuovo senso comune. Ha paura di affermare principi per cui dovrebbe pagare un prezzo. E’ felice di potersi sfogare contro Schettino, Martone e i morti. Poi va a nanna.
E’ possibile che i miei concittadini esorcizzino l’impotenza contro la paura incombente, scagliandosi contro il primo che passa, vivo o morto che sia?
Senza andare troppo lontano nell’ultimo mese il più facile bersaglio è stato il comandante del Concordia, Francesco Schettino: incapace e codardo. Noi abbiamo trovato per fortuna l’esempio positivo nella grinta del comandante della capitaneria del Giglio, Gregorio De Falco.. Con lui abbiamo gridato a Schettino: “Cazzo, salga sulla nave!” .
Solo dopo qualche giorno dall’incidente tragico e colpevole e dal diluvio di contumelie, mi capita finalmente di sentire diagnosi e implicite proposte di prevenzione da parte del sociologo Domenico Masi e dal giornalista Federico Rampini in una intervista della Gruber. Il primo punta l’indice contro l’assenza manifesta in Italia della cultura delle scienze dell’organizzazione. Tutti sappiamo di Einstein, nessuno di Taylor o Ford che ci avrebbero insegnato a prevenire il disastro., il secondo oppone alla prassi italiana del solitario capro espiatorio la prassi statunitense per cui chi ha nominato il colpevole è colpevole lui stesso e tenuto alle dimissioni. Insomma il povero Schettino non avrebbe mai dovuto essere chiamato a un ruolo di comando e comunque avrebbero dovuto essere previste procedure per rimediare all’impazzimento di un comandante. A disastro compiuto, molte teste dovrebbero cadere. Non sono analisi e diagnosi appassionanti, mi rendo conto, nulla di confrontabile alla goduria che ci offre la registrazione della viltà di un comandante. Sono solo analisi e diagnosi utili e corrette.
Poi, giorni fa – udite, udite! – il viceministro del lavoro, tale Michel Martone, si permette di chiamare “sfigati” i giovani italiani che si laureano dopo i 28 anni. Martone è uno facilmente antipatico per almeno un paio di ragioni:
A. E’ un figlio di famiglia con un padre che gli ha reso agevole una carriera fulminea, dottorato, ricercatore e poi titolare di cattedra universitaria a 33 anni. Quindi consulente ben retribuito nel precedente governo. Infine viceministro. Diciamo che non ho le prove, ma ho la certezza interiore che Martone sia un raccomandato.
B. Martone ha il ghigno del saputello, di quello che ha imparato una lezioncina e la ripete compiaciuto dall’alto della cattedra.
Grazie ancora alla Gruber, seguo l’intervista all’antipatico Martone. E purtroppo anche il bravo Vittorio Zucconi, da New York, infierisce contro il malcapitato. “Per essere equilibrati, dice Zucconi, se Martone ha potuto pronunciare quelle parole infelici, possiamo dirgli che ha detto una cazzata”. E’ facile sparare a zero sul poveretto caduto sul tappeto, no? Non è da meno l’adorabile Luciana Littizzetto che preferisce “minchiata” a cazzata, venendo in soccorso di una causa già vinta.
Io per la verità pensavo che “sfigato” significasse solo sfortunato, ma anche le mie figlie consultate, benché tutte laureate nei tempi giusti e brillantemente, solidarizzano con gli sfigati e sono incavolate col viceministro. “Sfigati” mi spiegano non significa semplicemente sfortunati. Ha una valenza negativa.
Così capisco che è del tutto irrilevante che Martone abbia potuto dire cose ragionevoli: che le imprese non guardano con favore chi impiega 10 anni a conseguire una laurea, soprattutto se non sa spiegare il perché (la condizione di studente lavoratore, ad esempio) o che è preferibile essere un brillante artigiano piuttosto che un laureato che si arrangia nei call center. Cose ragionevoli, anche se io stesso colgo in Martone sfumature classiste che i suoi detrattori non colgono o non esplicitano. Voglio dire che sono pressoché certo che anche il viceministro sarebbe quanto meno profondamente deluso se suo figlio un giorno gli annunciasse di voler fare l’idraulico. Sotto i discorsi ragionevoli persiste il vecchio classismo: l’università per i miei figli, per i tuoi l’officina che è così gratificante. Ma questo non c‘entra col merito della questione che è invece: gli antipatici hanno comunque torto. Così siamo costretti a rifiutare anche le buone pietanze proposte dallo chief che non ha saputo salutarci a dovere. Il compianto Padoa Schioppa che osava più di Martone nel linguaggio, osò dire che le tasse sono belle. Poi chiamò “bamboccioni” i ragazzi che si attardano nelle pareti domestiche. “Bamboccioni” non mi sembra più lieve di “sfigati”. Ma Padoa Schioppa non dovette scusarsi. Lui non aveva fama di raccomandato nel paese in cui l’usciere raccomandato è inflessibile contro il professore raccomandato. Nel paese in cui chi vale 100 deve raccomandarsi per avere 50. Nel paese in cui è stata abrogata la tassa di successione e i mediocri fratelli Elkan ereditano le fortune del brillante nonno.
Oggi, dulcis in fundo, mi capita di leggere su un blog commenti alla scomparsa del presidente Scalfaro e trovo, accanto a legittime critiche al suo passato di magistrato e a sue giovanili gesta da moralista, questi sintetici giudizi ad opera di coraggiosi autori dai fantasiosi nickname:
Wheel: uno in meno che percepisce i nostri soldi!
Kiko: uno stronzo con 3 autoblu in meno per gli italiani
Xxx: una pensione di senatore in meno
L’Italia frantumata degli impavidi, spietati critici di Schettino, come di Martone, come di Scalfaro non sa, non può, non vuole trovare progetti unificanti. L’Italia dei forconi vuole menare le mani col primo che passa. Si accontenterà di 15 centesimi di sconto sul carburante, del salvataggio di una industria decotta. Raccoglie con lo scolapasta i marosi della globalizzazione, boicottando le calze dell’Omsa delocalizzante. Non è capace di dire cose discutibili ma radicali. Potrebbe dire e pretendere, salendo compatta sui tetti o attendandosi presso i luoghi delle decisioni politiche:
Galera a chi usi il proprio ruolo per uso personale (raccomandazioni e illeciti lucri) .
Galera agli evasori
Disincentivazione delle merci troppo viaggianti e inquinanti
Blocco delle merci provenienti da paesi e fabbriche che violino i diritti umani
Elevata tassa di successione fino eventualmente all’esproprio
Prestito d’onore generalizzato per lo studio, per fare impresa, per fare casa
Subito il salario minimo sociale.
Ma quell’Italia non è interessata ad un nuovo senso comune. Ha paura di affermare principi per cui dovrebbe pagare un prezzo. E’ felice di potersi sfogare contro Schettino, Martone e i morti. Poi va a nanna.
giovedì 12 gennaio 2012
La ricchezza e il covone di letame
La destra periodicamente contesta alla sinistra di criminalizzare la ricchezza. Questo è uno di quei momenti. I poveri, o i non abbastanza ricchi, per i quali parlerebbe la sinistra sono accusati di invidia sociale. Invidia è il desiderio di qualità o cose possedute da altri. Fra queste cose la ricchezza. Al desiderio – è vero – si associa frequentemente l’odio verso la persona che detiene l’oggetto posseduto. C’è in questo momento invidia sociale verso i ricchi? Direi di sì, come spesso, se non sempre. Specifico del momento è invece la reazione stizzita all’invidia. La Santanchè né è un ragguardevole campione. Del resto l’offensiva contro l’invidia e la cosiddetta criminalizzazione della ricchezza si avvale di sponde autorevolissime. L’invidia è fra i sette vizi capitali nella dottrina della chiesa. Certo si gioca parecchio sull’ambiguità. Sembra talvolta che si voglia reagire a una presunta contestazione all’accumulazione come tale, il lavoro paziente della formica che accumula e ripara le provviste per l’inverno. Come se l’invidia per il ricco fosse condanna per la ricchezza, il risparmio, l’accumulazione.. Con altro disinvolto passaggio dialettico si finisce con il difendere il valore sociale del lusso e dello spreco che – storia antica – sarebbe fonte di lavoro e di occupazione. Magnifica in tal senso l’affermazione impavida di quel tale a passeggio per Cortina, anch’essa criminalizzata, impellicciato e accompagnato da avvenente impellicciata (se no, a cosa serve la ricchezza?), che proclama, da economista in vacanza, intollerante a possibili repliche :”L’austerità non fa girare l’economia!”. Insomma, solo grazie al consumo dei ricchi i poveri vivono o almeno sopravvivono. La sinistra è sostanzialmente in difesa rispetto a questo, come di fronte a tutto da qualche tempo. “No, per carità, nessuno criminalizza il ricco, purché paghi le tasse”, si balbetta a sinistra. Certo meglio che niente, pagare le tasse. E’ tutta qui la proposta dei progressisti? Una volta pensavo che la giustizia sociale fosse il loro (il nostro) obiettivo. La sinistra fa fatica a proporre linguaggi nuovi, abrogare parole vuote o dotare le parole consumate di nuovo significato.
Proverei - voglio dire – a menar vanto dell’invidia. L’invidia è il nome imposto dai privilegiati alla sete di giustizia sociale e di eguaglianza. Caso mai distinguerei l’invidia intelligente dall’invidia stupida. Stupido è invidiare una barca da 30 metri da chi c’è l’ha da 15. Stupido è invidiare la casa di 500 metri quadrati che non si riuscirà mai ad abitare. Ma questa variante stupida dell’invidia è l’ invidia dei ricchi verso i più ricchi. Però, per fortuna, in questa battaglia per il vocabolario che vede la sinistra tuttora soccombente qualche esempio di rivincita ci viene dal basso.
In TV, all’ultimo Infedele ho sentito, nel collegamento con un circolo del Pd di Lecco, un militante proporre una efficacissima metafora: la ricchezza è come il letame; il letame, se resta ammassato in un covone è sterile, se distribuito nel campo è prezioso. Sarebbe il caso di reclutare quel militante nell'esercito per un nuovo senso comune.
Proverei - voglio dire – a menar vanto dell’invidia. L’invidia è il nome imposto dai privilegiati alla sete di giustizia sociale e di eguaglianza. Caso mai distinguerei l’invidia intelligente dall’invidia stupida. Stupido è invidiare una barca da 30 metri da chi c’è l’ha da 15. Stupido è invidiare la casa di 500 metri quadrati che non si riuscirà mai ad abitare. Ma questa variante stupida dell’invidia è l’ invidia dei ricchi verso i più ricchi. Però, per fortuna, in questa battaglia per il vocabolario che vede la sinistra tuttora soccombente qualche esempio di rivincita ci viene dal basso.
In TV, all’ultimo Infedele ho sentito, nel collegamento con un circolo del Pd di Lecco, un militante proporre una efficacissima metafora: la ricchezza è come il letame; il letame, se resta ammassato in un covone è sterile, se distribuito nel campo è prezioso. Sarebbe il caso di reclutare quel militante nell'esercito per un nuovo senso comune.
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giovedì 5 gennaio 2012
Beppe Grillo, la malattia del linguaggio
Dissenso e condanna ha suscitato Beppe Grillo per il post “I botti di fine anno di Equitalia” nel suo blog, sul tema dei ripetuti attentati alla sedi dell’agenzia, esattore fiscale dello Stato. Cosa ha detto Grillo? “Se Equitalia è diventata un bersaglio bisognerebbe capirne le ragioni oltre che condannare le violenze. Un avviso di pagamento di Equitalia è diventato il terrore di ogni italiano. Se non paga l'ingiunzione "entro e non oltre" non sa più cosa può succedergli. Non c'è umanità in tutto questo e neppure buon senso. Monti riveda immediatamente il funzionamento di Equitalia, se non ci riesce la chiuda. Nessuno ne sentirà la mancanza”.
E’ un fatto che in Equitalia, pur nella sua natura di mero esattore e non certo di decisore delle politiche fiscali, si individui un bersaglio facile fra gli italiani confusamente alla ricerca di capri espiatori (ne ho voluto parlare in “Il capro espiatorio del 99%). Equitalia diventa così il parafulmine della rabbia sia per la debole lotta alla grande evasione sia per l’ implacabile repressione verso i piccoli evasori e i morosi. Ha ragione Grillo:” Non c’è umanità in tutto questo e neppure buon senso”.
Aggiungerei che c’è ancor meno umanità e buon senso nel fatto che a un pensionato sociale venga chiesto il rimborso a tappe forzate per emolumenti non dovuti per cui il pensionato disperato finisce col togliersi la vita.
Piccola digressione autobiografica. Informato di quanto può accadere in qualsiasi momento a un pensionato, ho avuto qualche remora, avendo ricevuto arretrati per la mia trascorsa attività lavorativa, a chiedere la conseguente rivalutazione della mia pensione. Temevo che rifacessero i conti e che, invece che aggiungere, mi chiedessero di rimborsare qualcosa, forse tanto, forse troppo. Spero bene quindi. Però questo è uno stress di cui il pensionato dovrebbe essere esentato..
Ma, tornando a Grillo e ai “giustizieri”, il punto è: Chi deve pagare il fio della colpa per tanta disumanità, il dirigente degli esattori o addirittura il malcapitato impiegato?
Grillo ha ammesso che bisogna “condannare le violenze” (stavo per dire: “meno male”). Ha “solo” aggiunto che “bisognerebbe capirne le ragioni”. Ingenuamente chiedo: e certo, di cosa non dovremmo capire le ragioni? Dobbiamo sempre capire le ragioni, se capire significa capere, afferrare, prendere, cioè intelligere (impossessarsi con la mente). Capire un fatto significa trovarne le ragioni, le cause, cioè esercitarvi l’intelligenza. Non dovremmo cercare di capire gli stupratori, gli assassini, gli evasori (e poi condannarli, metterli in galera, ovviamente)? Dovremmo forse preferire non capire, essere stupidi? O forse capire vuol dire giustificare, assolvere? E allora per dire semplicemente capire (senza annessa giustificazione o assoluzione alcuna) quali parole dobbiamo usare?
Faccio l’ingenuo perché - ahimè - è vero che in Italia capire significa ormai quasi sempre giustificare e assolvere. E in questo spazio equivoco si è mosso Grillo. Che ora può tranquillamente dire di non avere giustificato un bel niente e che però, visto che usa l’italiano del 21° secolo, con i significati sedimentati negli anni recenti, e si rivolge agli italiani del 2012, sa bene che capire le ragioni degli aggressori significa non capire le ragioni degli aggrediti perché capire nel pessimo italiano di questi anni significa questo.
E poi Grillo non ha dimostrato di capire un bel niente, se non ha indirizzato la rabbia legittima di alcuni tartassati su bersagli più corretti: il governo attuale, quelli passati, gli italiani che hanno votato questo parlamento, etc. A parte che mi sento di escludere che gli attentatori siano dei tartassati. E’ più probabile siano esponenti di quella folla, prevalentemente giovanile, annoiata, che ha voglia di menare le mani, di fare l’ultra negli stadi, di tirar fuori il coltello al semaforo, di devastare una città infiltrandosi in una manifestazione, di lanciare le bombe di capodanno a costo di amputarsi una mano o di uccidere un bambino: una umanità unita dal buio dell’intelligenza, più che divisa da pretestuose divisioni politiche. Direi che fra gli attentatori e i tartassati c'è lo stesso rapporto che ci fu tra le cosiddette Brigate rosse e la classe operaia cui dicevano di riferirsi: zero.
E’ questo che bisognerebbe capire secondo Grillo? Non lo ha detto.
Insomma, forse il succo semplice di questo discorso è che bisogna trovare un altro modo per dire capire giacché mettendo in soffitta un vocabolo diventato pericoloso, senza saperlo sostituire, rischiamo di contribuire a mettere in soffitta la comprensione, cioè l’intelligenza. Non possiamo permettercelo. E qualcuno dovrebbe preoccuparsi di curare il nostro linguaggio ammalato.
E’ un fatto che in Equitalia, pur nella sua natura di mero esattore e non certo di decisore delle politiche fiscali, si individui un bersaglio facile fra gli italiani confusamente alla ricerca di capri espiatori (ne ho voluto parlare in “Il capro espiatorio del 99%). Equitalia diventa così il parafulmine della rabbia sia per la debole lotta alla grande evasione sia per l’ implacabile repressione verso i piccoli evasori e i morosi. Ha ragione Grillo:” Non c’è umanità in tutto questo e neppure buon senso”.
Aggiungerei che c’è ancor meno umanità e buon senso nel fatto che a un pensionato sociale venga chiesto il rimborso a tappe forzate per emolumenti non dovuti per cui il pensionato disperato finisce col togliersi la vita.
Piccola digressione autobiografica. Informato di quanto può accadere in qualsiasi momento a un pensionato, ho avuto qualche remora, avendo ricevuto arretrati per la mia trascorsa attività lavorativa, a chiedere la conseguente rivalutazione della mia pensione. Temevo che rifacessero i conti e che, invece che aggiungere, mi chiedessero di rimborsare qualcosa, forse tanto, forse troppo. Spero bene quindi. Però questo è uno stress di cui il pensionato dovrebbe essere esentato..
Ma, tornando a Grillo e ai “giustizieri”, il punto è: Chi deve pagare il fio della colpa per tanta disumanità, il dirigente degli esattori o addirittura il malcapitato impiegato?
Grillo ha ammesso che bisogna “condannare le violenze” (stavo per dire: “meno male”). Ha “solo” aggiunto che “bisognerebbe capirne le ragioni”. Ingenuamente chiedo: e certo, di cosa non dovremmo capire le ragioni? Dobbiamo sempre capire le ragioni, se capire significa capere, afferrare, prendere, cioè intelligere (impossessarsi con la mente). Capire un fatto significa trovarne le ragioni, le cause, cioè esercitarvi l’intelligenza. Non dovremmo cercare di capire gli stupratori, gli assassini, gli evasori (e poi condannarli, metterli in galera, ovviamente)? Dovremmo forse preferire non capire, essere stupidi? O forse capire vuol dire giustificare, assolvere? E allora per dire semplicemente capire (senza annessa giustificazione o assoluzione alcuna) quali parole dobbiamo usare?
Faccio l’ingenuo perché - ahimè - è vero che in Italia capire significa ormai quasi sempre giustificare e assolvere. E in questo spazio equivoco si è mosso Grillo. Che ora può tranquillamente dire di non avere giustificato un bel niente e che però, visto che usa l’italiano del 21° secolo, con i significati sedimentati negli anni recenti, e si rivolge agli italiani del 2012, sa bene che capire le ragioni degli aggressori significa non capire le ragioni degli aggrediti perché capire nel pessimo italiano di questi anni significa questo.
E poi Grillo non ha dimostrato di capire un bel niente, se non ha indirizzato la rabbia legittima di alcuni tartassati su bersagli più corretti: il governo attuale, quelli passati, gli italiani che hanno votato questo parlamento, etc. A parte che mi sento di escludere che gli attentatori siano dei tartassati. E’ più probabile siano esponenti di quella folla, prevalentemente giovanile, annoiata, che ha voglia di menare le mani, di fare l’ultra negli stadi, di tirar fuori il coltello al semaforo, di devastare una città infiltrandosi in una manifestazione, di lanciare le bombe di capodanno a costo di amputarsi una mano o di uccidere un bambino: una umanità unita dal buio dell’intelligenza, più che divisa da pretestuose divisioni politiche. Direi che fra gli attentatori e i tartassati c'è lo stesso rapporto che ci fu tra le cosiddette Brigate rosse e la classe operaia cui dicevano di riferirsi: zero.
E’ questo che bisognerebbe capire secondo Grillo? Non lo ha detto.
Insomma, forse il succo semplice di questo discorso è che bisogna trovare un altro modo per dire capire giacché mettendo in soffitta un vocabolo diventato pericoloso, senza saperlo sostituire, rischiamo di contribuire a mettere in soffitta la comprensione, cioè l’intelligenza. Non possiamo permettercelo. E qualcuno dovrebbe preoccuparsi di curare il nostro linguaggio ammalato.
domenica 1 gennaio 2012
L'anno che è arrivato e l'epoca attesa
La discontinuità fra un anno e l’altro è ovviamente un “gioco”. Oggi, 1 gennaio, probabilmente non sarà tanto diverso da ieri, 31 dicembre dell’anno trascorso. E già sappiamo che somiglia molto al 1 gennaio del 2011: botti per festeggiare il nuovo anno, morti, feriti, amputazioni, accecamenti, anche di bimbi innocenti affidati alla protezione della “sacra famiglia” ovvero a padri stupidi e criminali e a madri colpevolmente passive. Le discontinuità geografiche/amministrative possono essere altrettanto futili di quelle temporali. Ricordo un gioco che facevo durante certi lunghi tragitti in auto con le mie figlie ancora bambine. Quando sull’autostrada veniva segnalata la fine del territorio campano e l’inizio di quello laziale e così via, regione dopo regione, mi divertivo a spiazzare le bambine, dicendo: “Inizia il Lazio. Vedete come è tutto diverso?”. Le figlie guardavano fuori dai finestrini e poi guardavano me, perplesse, ma senza saper obiettare. Ogni tanto ho pensato che questo giochino potesse essere un elemento di una pedagogia opposta alle pedagogie dell’identità e dei confini (Lega, Padania e, etc.). Vabbè, diciamo che con gli auguri per il nuovo anno ci esercitiamo semplicemente a immaginare il futuro e a pensare al futuro che vorremmo, all’epoca che vorremmo si aprisse. Una nuova epoca però non si apre in consonanza col calendario gregoriano. Può aprirsi di ottobre (12 ottobre 1492, scoperta dell’America) o di luglio (14 luglio 1789, presa della Bastiglia). Non so se qualcuno pensò che stesse aprendosi un’epoca il 12 ottobre del 1492 o il 14 luglio del 1789. Mi chiedo invece come io individuerei l’inizio di una nuova epoca, quale evento in Italia segnalerebbe una discontinuità paragonabile alla caduta del muro, ad esempio. Nella storia recente l’intervallo fra discesa in campo di Berlusconi 18 anni fa e la sua recente caduta segnano, se non un’epoca, una fase. Anche le fasi (brevi epoche “reversibili”) possono avere datazioni incerte o convenzionali. Allora potremmo dire, con attenzione alle discontinuità “istituzionali” che la fase si chiude con le dimissioni di Berlusconi (12 novembre 2011) oppure, con attenzione ai segni di una nuova antropologia (che preferisco), con la prima conferenza stampa del nuovo governo (4 dicembre 2011) e le lacrime della Fornero, i sentimenti ovvero, per così dire, la “tecnica” femminile al potere.
Noi, i democratici, e il Pd, abbiamo aperto questa fase facendo prevalere le ragioni culturali e di stile sulle opzioni economiche e sociali in senso proprio. Non avrei (non avremmo) perdonato a Berlusconi l’odiosa e classista deindicizzazione delle pensioni. Ma noi respiriamo per lo stile sobrio e professorale del governo Monti. E qualcuno (come me) si commuove per la commozione della ministra Fornero che tanto ha irritato gli italiani implacabili che si chiedono : “Perché versa il latte e poi piange?”. Diciamo che il governo Monti è l’anticamera per un’Italia dialogante in cui si parlerà finalmente delle cose e si decideranno cose. Nondimeno non avverto ancora segni di passaggio di epoca. I pensionati continuano a rubare al supermercato (così come i detenuti, i lavoratori licenziati e i piccoli imprenditori falliti continuano a suicidarsi). Come in un film ripetutamente visto, il direttore del supermercato chiama i carabinieri. I carabinieri offrono un pasto in caserma al ”delinquente”. “Non essere buoni, ma fare il mondo buono” proponeva qualcuno (Brecht, Sartre). La penso così. So che abbiamo le risorse per evitare di umiliare i pensionati e poi sentirci buoni perché non li denunziamo. E abbiamo le risorse per salvare figli e nipoti dal rischio dell’istupidimento effetto di un sistema anarchico che è incapace di dire cosa ci aspettiamo da loro e cosa garantiremo se sapranno – non più viziati, ma aiutati - studiare e impegnarsi in progetti condivisi che sapremo premiare, archiviando l’arbitrio e il favore. Il passaggio di epoca può essere colto da segnali diversi, purché radicali, giacché in ogni caso, certi mutamenti implicano altri mutamenti anche in aree distanti. Se allora un nuovo governo, anziché compiacersi dei 7 miliardi che confluiscono nell’erario per il gioco d’azzardo che costa agli italiani (guarda un po’ quelli meno abbienti) 70 miliardi l’anno, fosse capace di eliminare tale rapina, semplicemente chiudendo le sale giochi e facendo insegnare ai bambini e agli adulti in una scuola nuova la stupidità dell’azzardo a carte truccate, se un governo nuovo potesse far questo ricevendo il consenso dei cittadini per una esplicita tassazione sostitutiva di quella per l’azzardo, allora questo governo e questi cittadini sarebbero il governo e i cittadini di una nuova epoca. Né l’uno né gli altri potrebbero accettare l’abusivismo con l’alibi che creerebbe occupazione. Né l’uno né gli altri accetterebbero che si allevino ad alto costo intelligenze da regalare all’estero. E nonni e genitori sarebbero felici di pagare 100, 200 euro per costruire un sistema che garantisca a figli e nipoti, invece che la paghetta di nonni e genitori, un lavoro coerente con i loro studi o, per brevi intervalli, comunque un reddito. Un piccolo segnale radicale, l’abolizione delle sale giochi o la sanzione di 5 anni di lavori socialmente utili a chi insozzi per gusto vandalico una scuola o un monumento sarebbe fra i sassolini di una valanga, il segno di un cambiamento d’epoca verso un’Italia non più imbronciata: seria, sobria, severa, allegra, sviluppata.
Noi, i democratici, e il Pd, abbiamo aperto questa fase facendo prevalere le ragioni culturali e di stile sulle opzioni economiche e sociali in senso proprio. Non avrei (non avremmo) perdonato a Berlusconi l’odiosa e classista deindicizzazione delle pensioni. Ma noi respiriamo per lo stile sobrio e professorale del governo Monti. E qualcuno (come me) si commuove per la commozione della ministra Fornero che tanto ha irritato gli italiani implacabili che si chiedono : “Perché versa il latte e poi piange?”. Diciamo che il governo Monti è l’anticamera per un’Italia dialogante in cui si parlerà finalmente delle cose e si decideranno cose. Nondimeno non avverto ancora segni di passaggio di epoca. I pensionati continuano a rubare al supermercato (così come i detenuti, i lavoratori licenziati e i piccoli imprenditori falliti continuano a suicidarsi). Come in un film ripetutamente visto, il direttore del supermercato chiama i carabinieri. I carabinieri offrono un pasto in caserma al ”delinquente”. “Non essere buoni, ma fare il mondo buono” proponeva qualcuno (Brecht, Sartre). La penso così. So che abbiamo le risorse per evitare di umiliare i pensionati e poi sentirci buoni perché non li denunziamo. E abbiamo le risorse per salvare figli e nipoti dal rischio dell’istupidimento effetto di un sistema anarchico che è incapace di dire cosa ci aspettiamo da loro e cosa garantiremo se sapranno – non più viziati, ma aiutati - studiare e impegnarsi in progetti condivisi che sapremo premiare, archiviando l’arbitrio e il favore. Il passaggio di epoca può essere colto da segnali diversi, purché radicali, giacché in ogni caso, certi mutamenti implicano altri mutamenti anche in aree distanti. Se allora un nuovo governo, anziché compiacersi dei 7 miliardi che confluiscono nell’erario per il gioco d’azzardo che costa agli italiani (guarda un po’ quelli meno abbienti) 70 miliardi l’anno, fosse capace di eliminare tale rapina, semplicemente chiudendo le sale giochi e facendo insegnare ai bambini e agli adulti in una scuola nuova la stupidità dell’azzardo a carte truccate, se un governo nuovo potesse far questo ricevendo il consenso dei cittadini per una esplicita tassazione sostitutiva di quella per l’azzardo, allora questo governo e questi cittadini sarebbero il governo e i cittadini di una nuova epoca. Né l’uno né gli altri potrebbero accettare l’abusivismo con l’alibi che creerebbe occupazione. Né l’uno né gli altri accetterebbero che si allevino ad alto costo intelligenze da regalare all’estero. E nonni e genitori sarebbero felici di pagare 100, 200 euro per costruire un sistema che garantisca a figli e nipoti, invece che la paghetta di nonni e genitori, un lavoro coerente con i loro studi o, per brevi intervalli, comunque un reddito. Un piccolo segnale radicale, l’abolizione delle sale giochi o la sanzione di 5 anni di lavori socialmente utili a chi insozzi per gusto vandalico una scuola o un monumento sarebbe fra i sassolini di una valanga, il segno di un cambiamento d’epoca verso un’Italia non più imbronciata: seria, sobria, severa, allegra, sviluppata.
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