mercoledì 24 novembre 2010

I discorsi e le facce della politica

Molti segnali suggeriscono la crisi grave dei discorsi politici e dei discorsi tout court. Oliviero Beha – nel suo blog su I Nuovi Mostri – lo scorso 11 novembre, in un pezzo dal titolo “Se faccio il nome di Berlusconi s’aizza la canizza” sembrava esterrefatto per le risposte ricevute ad un precedente intervento. Come se l’interlocutore si fosse limitato a leggere un nome, prescindendo da tutto il resto, per scatenarsi in una reazione che non teneva conto delle argomentazioni cui avrebbe dovuto replicare. Uno fra i segnali della crisi dei discorsi. Del resto, mi pare, l’ultimo discorso politico è stato il programma dell’Unione di Prodi del 2006, con le sue 281 pagine che pochissimi lessero e che non bastarono a tenere compatta la maggioranza vincente. Da allora, “melodie”, “narrazioni” e “facce”.

A Silvio Berlusconi dobbiamo la scoperta e l’invenzione delle facce e delle narrazioni: “scoperta” perché non sapevamo prima quanto contassero; “invenzione” perché lui le ha rese decisive.

Luisella Costamagno e Luca Telese, il 6 novembre a In onda realizzano il consueto stratagemma di sinistra: opporre alla destra italiana e berlusconiana l’opinione di un uomo non omogeneo alla sinistra, possibilmente classificabile di destra, possibilmente straniero, possibilmente autorevole. Il serbatoio è sterminato ed il gioco è facile, ma è il segno di una perdita di egemonia della sinistra: il riconoscimento che i suoi argomenti non possono essere vincenti per la loro forza argomentativa. Lo sono se provengono da “insospettabili”. In questo caso i giornalisti si servono di Bill Emmott, già direttore di “The economist” ed autore dell’etichettatura di Berlusconi come “unfit” (inaffidabile). Il giornalista naturalmente non delude le aspettative dello studio, con critiche a Berlusconi che è inutile ripetere. Come risponderà Alessandro Sallusti? Questo è interessante. Sallusti sorride come sa sorridere lui. Un po’ come Belpietro, un po’ come Cicchitto, un po’ come Bondi. Ci siamo capiti. C’è una fisiognomica dei berlusconiani, degli alieni. E’ razzismo lombrosiano o antropologia di buon senso? Comunque il discorso sulle facce che io uso come contorno, magari subendo il nuovo senso comune, per “loro” può essere addirittura l’unico criterio di valutazione. Come replica Sallusti a Emmott? Bofonchia qualcosa. “E’ un tipo strano…Ora si capisce perché gli piace Vendola”. Tutti crediamo di capire che c’è una allusione all’omosessualità di Vendola, dichiarata, e a quella di Emmott, percepita da Sallusti. Non saprei giurare di aver capito da cosa. Forse da un fiore all’occhiello della giacca. Poi, dopo questa spiazzante critica, c’è un riferimento al fatto – orrore! – che i professori critici verso Berlusconi quando sono invitati da un politico di sinistra (Vendola), prendono soldi per fare conferenze. Che volete? Ci sono stereotipi di sinistra e stereotipi di destra. Quello del look “strano” e quello degli intellettuali che si fanno pagare è un consolidato stereotipo di destra. Evidentemente i sondaggi ne avranno certificato l’efficacia..

A Ballarò del 9 novembre è Bondi a esercitare il suo talento nella distruzione di un discorso politico delegittimando la faccia che lo pronuncia. Qui è la sociologa Chiara Saraceno, intervistata da Berlino. L’operazione di delegittimazione è più facile perché la Saraceno non è straniera e non è di destra: è solo una intellettuale. Come risponderà quindi Bondi alla Saraceno che dice della pessima immagine all’estero di Berlusconi e del suo governo? Niente di più facile. “Lei, professoressa, è chic…radical chic…di sinistra” Non c’è altro da dire. Non è il caso certamente di rispondere ad argomenti con argomenti. Bondi non è una persona intelligente (bella scoperta!), però è una persona furba, capace di parlare alla pancia della sua gente. Dice “chic” prima di affibbiare l’etichetta distruttiva, ma magari un po’ consunta di “radical chic”. Perché è sull’essere “chic” che deve stimolare la bava della sua gente, del popolo che “non mangia cultura”. In cosa Chiara Saraceno merita quell’appellativo “infamante”? Ha capelli corti e un taglio semplice. Non scorgo gioielli. Indossa due maglioncini, un golf su un collo alto, su diversi sfumature di rosa. Io avrei definito il suo aspetto “sobrio” Non ha la pettinatura “complessa” della Santanchè né i labbroni della Mussolini. “Chic” forse è sinonimo di “sobrio”. Anzi lo è certamente, pur spiazzandomi il premier, utilizzando ieri paradossalmente - proprio lui -il termine per invitare i suoi a litigare di meno.

Temo che dovremo imparare a ragionare di questo. Non è tempo di programmi per la politica. Per adesso. E’ tempo di facce. Bisognerà offrire le facce giuste ad un popolo involgarito dall’impero mediatico. Il popolo berlusconiano ha individuato giustamente nella sobrietà una caratteristica tipica della sinistra vissuta come la parte dei ricchi, come dicevano i ragazzi di “Caterina va in città” e con qualche ragione. Qualche. Il blocco berlusconiano è infatti costituito prevalentemente da plebe, corteggiata da uno strato di spregiudicati affaristi che coi suoi consumi lussuosi riesce a far credere di stimolare economia e occupazione. Tale mito o “narrazione” è sostanzialmente subito a sinistra. Sicché la Santanché può impavidamente esaltare l’opera sociale del Billionaire appartenente al pregiudicato Flavio Briatore che con le ostriche e lo champagne dei suoi ricchi avventori garantisce il lavoro di decine di cuochi, camerieri e ragazze immagine. Al contempo Fazio, Benigni e Saviano debbono con imbarazzo difendere i loro contratti perché loro no, quelli di sinistra non producono lavoro, la cultura non si mangia e comunque, essendo di sinistra, non debbono avere retribuzioni superiori ad un metalmeccanico. Praticamente lo dice anche il parlamentare Pd Boccia, parlando di danarosi intellettuali da salotto convenuti allo sciopero della Fiom a Roma. E non si accorge che Berlusconi e il popolo degli affaristi gli suggeriscono il copione.

Facce quindi e, al più, qualche insulto, come quel “vada a farsi fottere” di D’Alema a Sallusti che sollevò per un attimo il morale del popolo di sinistra e – quasi – un ritorno di stima per un leader inviso.

Non per niente il conflitto Carfagna- Mussolini diventa irrimediabile quando la prima apostrofa la seconda napoletanamente “vajassa”: donna dei “bassi” – sguaiata, volgare, incline al pettegolezzo e alla rissa”. Il divorzio dalla Mussolini è quindi la rottura con la nuova plebe dal viso rifatto e dalle meches improbabili. Sappia la Carfagna incontrare, sobrietà, cultura e popolo contro le devastazioni antropologiche della nuova destra. Gli interventi recenti del ministro delle Pari Opportunità contro le circolari dei sindaci leghisti, stupidamente vessatori verso gli immigrati, lasciano ben sperare. Osserverei però al ministro: non si può contestare con linguaggio sguaiato una persona sguaiata. Quando lo avrà capito le darò il benvenuto nella casa della sobrietà e della democrazia.*

* Ho parlato della “conversione” del ministro dall’omofobia in un post,” Mara Carfagna e il fascino della democrazia” su rossodemocratico.ilcannochiale.it

mercoledì 17 novembre 2010

Bersani e Fini: si cercano ma la storia li divide

Vieni via con me ha chiamato Bersani e Fini ad elencare rispettivamente i valori della sinistra e della destra. Evidentemente volendoli considerare rappresentativi di queste polarità. Darei ragione ai contestatori di Fazio. Si fa per dire…. Darei loro ragione non in nome di una impossibile par condicio che sapientemente Fazio ha ridicolizzato con l’elenco interminabile dei partiti aventi diritto a partecipare alla trasmissione. Darei loro ragione piuttosto perché, se “sinistra” e “destra” rappresentano i poli opposti della politica, Bersani e Fini non rappresentano oggi quegli opposti. La coppia “giusta” sarebbe stata Bersani (o Vendola) versus Berlusconi (o magari Santanché).

Il fatto quotidiano il giorno dopo la trasmissione ha giudicato giustamente “complementari” gli elenchi e i valori declamati dal leader del PD e dal leader di Futuro e Libertà. Lo ha confermato a Ballarò un Crozza particolarmente in forma, tratteggiando i due leader come due amiconi che si passano la palla (e i testi). Del resto più che complementare, sovrapponibile, soprattutto nel linguaggio, era apparso il manifesto di Perugia di Futuro e libertà rispetto al manifesto veltroniano del Lingotto. Vediamo un po’. A mio avviso Bersani è riuscito a suggerire alcune idee forza della sinistra. Soprattutto in queste parole: “La sinistra è l’idea che se guardi il mondo con gli occhi dei più deboli, puoi fare davvero un mondo migliore per tutti…….Nessuno sta bene da solo. Sta bene se anche gli altri stanno un po’ bene”. Magari, per esorcizzare i rischi di una sinistra “contemplativa”, “compassionevole” e impotente avrebbe potuto dire:”Se agisci per rendere forti anche i deboli”. Però ha detto abbastanza bene. E poi ha detto altre cose di ampio respiro: “Dobbiamo lasciare il pianeta meglio di come lo abbiamo trovato perché non abbiamo il diritto di distruggere quello che non è nostro”. Impegno arduo, altruistico e masochista, se tramutato in azione, perché guardare ai nipoti non paga. Impegno impossibile e quasi per definizione di sinistra, giacché alla destra appartengono le battaglie facili. Non paga salvaguardare l’ambiente contro il consumismo come non paga ridurre il debito pubblico che erediteranno i nipoti. Per fortuna Bersani ha aggiunto l’impegno più popolare per il lavoro e la precarietà (con qualche accenno di concretezza: “un’ora di lavoro precario non può costare meno di un’ora di lavoro stabile”) che almeno riguarda corde più sensibili, noi stessi ed i figli. E poi il ruolo della donna come termometro della civiltà e la dedizione degli insegnanti coraggiosi e via via verso valori condivisi e universali, oltre la sinistra.

Struttura analoga ha avuto l’elenco di Fini che, cercando faticosamente nella sua storia di destra (stavo per dire, sbagliando, “nelle sue radici”: ma sono estirpate), non ha trovato di meglio che l’Italia, declamata con la “I” molto maiuscola, e senza riferimenti a devoluzioni “locali” o “planetarie”, e l’esaltazione delle Forze Armate. Poi, via via, sfumando anche lui verso valori più facilmente condivisibili: la legalità, lo Stato non invadente, l’autorevolezza e il buon esempio delle istituzioni. E qui naturalmente l’avversario era palese e non stava a sinistra. Era il leader di un’altra destra, quella “con la bava alla bocca”, ammesso che oggi Fini, come per lo più si ritiene, sia ancora collocabile a destra. Fini ha rivendicato quindi la cultura del merito e la eguaglianza delle opportunità “per i figli dei datori di lavoro come per i figli degli impiegati e degli operai” (di Lapo Elkan e del turnista della Fiat?). Valori cari al liberalismo conservatore e a quello progressista: profondamente velleitari, a mio avviso, come parodia dell’eguaglianza di fatto, giacché senza interventi radicali (socialismo) o continuamente correttivi (Stato interventista) le diseguaglianze di nascita e di censo, spostate in avanti, dopo la culla, dopo la scuola dell’obbligo, dopo l’università, comunque si riproducono. In Italia soprattutto.

Da notare poi le coincidenze nei due discorsi, a proposito di cittadinanza ed immigrati. Anche l’appello alla laicità di Bersani, a proposito di accanimento terapeutico (caso Welby e Englaro) credo potesse essere condiviso da Fini, in altre occasioni aperto su questi temi.

Insomma il vero avversario della destra e della sinistra presenti in studio stava altrove: era Berlusconi. Un comprimario assente un po’ amico, un po’ avversario, lontano da Fini e soprattutto da Bersani era Casini che – guarda caso – immediatamente prima ad Otto e mezzo aveva polemizzato contro la prevista apologia che Vieni via con me avrebbe fatto della laicità e della “buona morte”, differenziandosi molto da Bersani e abbastanza da Fini.

Riassumo. La destra e la sinistra presenti in studio erano tutt’altro che distanti. Per merito dell’evoluzione finiana, dei suoi molti passi avanti, se non dei passi indietro della sinistra. Perché allora non chiamare Fini e Bersani “centro” o, volendo cogliere le sfumature, “centrodestra” e “centrosinistra”, e chiamare Berlusconi “destra” populista o peronista o monarchica o magari, sbrigativamente, fascista e Casini destra “costituzionale” e confessionale? Non si può. Non si può con Fini e Bersani. Le etichette acquisite con la storia, pare non si possano cancellare: Fini e Bersani debbono dirsi distanti anche quando sono vicini. Li costringono il passato e il senso comune imposto da quelli che hanno inventato la sovranità popolare come proprietà del 30% degli elettori ed hanno inventato “ribaltone”, “tradimento”, etc. Come i figli delle storiche famiglie rivali, Montecchi e Capuleti, i leader del PD e di FLI, scoprono reciproco interesse e attrazione. Nella leggenda l’attrazione e il presente vinsero sulla storia. Nella politica oggi è più facile vincano la storia ed etichette troppo adesive.

Quanto coraggio servirebbe a vincere l’inerzia delle vecchie appartenenze per una Alleanza costituzionale, da Fini a Vendola, che ci liberi dai barbari? In attesa che il PD si muova dalla sua stagione contemplativa verso una sinistra di lotta che realizzi nell’azione quotidiana i valori declamati da Bersani.