lunedì 29 luglio 2013

Verso la civiltà del cortile


Qual è la nostra casa? Il luogo in cui mangiamo e dormiamo? La città in cui ci riforniamo di beni e servizi? Lo Stato con le leggi che condividiamo? L’Europa? Il mondo? Un po’ tutto questo, ovviamente, ma con diversa (assai diversa) accentuazione e consapevolezza. La crisi economica – temo – sta producendo, fra varie tossine, un ritorno agli spazi esclusivi e ristretti del cortile. Un episodio di ieri. Ad Ostia, nella centrale e “borghese” via Delle Baleniere. E’ una strada relativamente curata e pulita, per gli standard romani e nazionali. Peraltro negozi e boutique contribuiscono al decoro della via, pagando servizi supplementari di pulizia. Verso sera non c’è molta gente. Anch’io, con moglie, mi avvio verso il lungomare ove d’estate si concentra il passeggio. Vicino a noi cammina una coppia matura. E’ un attimo. Sento qualcosa rotolare vicino ai piedi. C’è una signora in abito di casa, davanti all’ingresso di un condominio. Non ho visto il gesto. Ne sono informato dopo. Intanto le proteste veementi di mia moglie. E’ stata sfiorata e forse schizzata un tantino da una coppa di gelato. Insomma, la sconosciuta signora ha trovato la coppetta poggiata sul muretto del condominio ed ha pensato bene di liberare il suo condominio da quell’oltraggio, mediante una manata che trasferiva la cosa indecorosa lontano, verso il marciapiede che evidentemente non sentiva proprio. Mia moglie e i passanti solidali protestano. Io osservo un po’ incredulo, un po’ rassegnato al peggio in arrivo. Sono, come spesso, affascinato dalla capacità degli uomini di mentire a stessi, di trovare giustificazioni anche all’assurdo. “Non l’ho messa io la coppetta sul muretto. Dovevo lasciarla là?” Piccoli indizi della civiltà prossima ventura. Abbiamo già conosciuto nel passato la civiltà degli spazi ristretti, del cortile e della città. Allora aveva un senso. Era ragionevole. Troppo difficile che il volo di una farfalla nella strada o nel paese vicino influisse più di tanto nel nostro cortile. Ma ora? La condomina mi appare l’avanguardia dei nuovi barbari, senza consapevolezza, rinchiusi nei propri recinti, ottusamente convinti delle loro ragioni. Nei cortili esclusivi e contrapposti che rischiano di essere spazzati via tutti insieme da forze incomprensibili, dal micidiale volo di una farfalla.

sabato 27 luglio 2013

Invece del lavoro


Lo classificherei come un esempio di turismo low cost, abbondantemente oltre i confini del lecito. Oppure della versione giovanile del tirare a campare, dei percettori irregolari di reddito, esclusi dal lavoro produttivo, forse non meno numerosi degli inoccupati. Entro nel bar dello stabilimento balneare e assisto a una scenata impietosa dell'anziana titolare che sta alla cassa. Lui è un giovane saccopelista che, mogio mogio, sorseggia un caffè. Non so come faccia a goderselo. Lei inveisce e lui continua a scusarsi: "le ho chiesto scusa, le ho chiesto scusa". Insomma - capisco dall'invettiva implacabile della titolare - lui ha provato a fregarla asserendo di averle dato un biglietto da 10 euro. Invece era da 5 e lui lo sapeva bene. Perciò non c'è nulla da scusare. Purtroppo credo alla signora. Un po' perché la conosco, ma anche per l'atteggiamento del giovane, tipico di chi è preso con le mani nel sacco. E mentre la politica discute di nulla, tanti, troppi, sempre più sopravvivono rubacchiando nei supermercati, se donne o anziani, lavando vetri o tentando di vendere oggetti orribili e inutili alla gente al mare, se giovani e "abbronzati", esercitando piccoli tentativi di imbroglio, se giovani saccopelisti. La base autenticamente produttiva sempre più ristretta e insofferente alla pressione fiscale, non percepisce come tassa occulta il mantenimento di chi tira a campare. Del resto nel litorale di Ostia ripetutamente incendiato dal racket ci si lagna del rischio dell'incremento dell'1 % di IVA ma mai dell'esproprio progressivo attuato dai clan mafiosi. L'Italia in compenso si assomiglia sempre più. Tanto tempo fa mi sconvolse in Sicilia sentire un venditore di preziosi, intervistato sul pizzo, affermare: "Il peggiore estortore è lo Stato". Prova di viltà assoluta di chi, abituato a subire soprusi, finge (a se stesso) di pensare che è meglio pagare la mafia piuttosto che tasse, scuole e ospedali. Coraggio quindi ai pochi lavoratori veri sopravvissuti. Dovranno lavorare per figli, genitori, mafiosi, venditori di cianfrusaglie e giovani turisti low cost. Però, forse, non pagheranno l'Imu.

sabato 20 luglio 2013

Qual è la normalità?


Da cinque anni a Ostia, lontano dalla Sicilia in cui ho vissuto una vita, mi capita di stupirmi di piccole cose e poi chiedermi se ciò che è nuovo e mi stupisce dipende dal nuovo ambiente o dai cinque anni passati o eventualmente dal fatto che sono cambiato io. E non so proprio rispondere. Se cammino sul marciapiede non succede mai che chi mi viene di fronte - persona o gruppo - si sposti un tantino. E' sempre occupato con qualcosa, mangiare una fetta di pizza, consultare un Ipad o chiacchierare o anche niente, un niente che pare non gli consenta di vedermi. A volte - di fronte a gruppi numerosi - debbo aggirare l'ostacolo scendendo dal marciapiedi. Grande convivialità ma rigorosamente circoscritta al gruppo. Non ho ricordi simili per la Sicilia. Devo stare attento a non operare frettolose deduzione. Forse semplicemente allora mi capitava raramente di passeggiare. Forse. Ma l'altra sera ero a Torvaianica. Sapete quell'orrore edilizio che fa apparire piacevole la maggior parte degli orrori perpetrati sulle coste calabresi e siciliane dove mafia e 'ndrangheta decidono. Attraversavo la strada principale sulle strisce con moglie e una coppia romana. Vedo arrivare un Suv. C'è piena luce e la strada è diritta. Continuo ad attraversare con totale fiducia. Ma il conducente deve avere un'urgenza del diavolo. Sembra addirittura accelerare. E sì, accelera per fare in tempo a superarci a destra senza falciarci. Solo sfiorandoci. Mentre io faccio spallucce, stimolato a farmi le mie oziose domande sul mondo, il mio amico romano urla romanissime imprecazioni. L'indomani a Ostia, dopo un paio d'ore di ozio sulla spiaggia libera, prima di salire in auto, mi dirigo verso la fontanella pubblica per non portare sabbia a casa. Venditori di cocco asiatici mi mettono in imbarazzo, scusandosi se mi faranno aspettare pochi secondi per rinfrescare la loro merce. Mi imbarazzano come se si sentissero ospiti sgraditi nel pianeta Italia. Sicché io cerco di sorridere il più possibile e di rassicurarli. Quando tocca a me, ho appena immerso un piede sotto la fontana che una signora con una bottiglietta da 1/4 semivuota, mi chiede se non posso farle riempire il suo recipiente. Ritiro il piede. Perplesso, però lo ritiro. Ricomincio. No. Arriva un'altra signora. Lei è più "collaborativa" della prima, diciamo così. Mi chiede di potersi lavare le mani. "Ma non si disturbi - precisa - lei continui pure". Ovvero dovrei lavare il mie piede con l'acqua che ha lavato le mani della sconosciuta signora. Invece dico "prego" e ritiro il piede. A me stesso dico tutto e il contrario di tutto. Mi dico che sono un igienista maniaco e, in contraddizione con i miei principi ecologici, uno sperperatore di acqua. Però la fontanella per la verità - come spesso a Roma - è sempre aperta. Mi dico che le signora esprime la promiscuità romana cui io non sono abituato. Non riesco ad escludere d'altra parte che la signora o una delle due signore sia la stessa che al supermercato mi ha chiesto di saltarmi alla cassa perché lei aveva solo due pacchetti e io tre. E che magari sia moglie o sorella di quell'impavido autista di Suv di Torvaianica. Confronto anche il comportamento dei romani con quello degli asiatici venditori di cocco. Differenze culturali nei quali romani e italiani sarebbero soccombenti. Così sono a posto almeno con la coscienza di democratico, aperto alle culture immigrate. Purtroppo stamattina, ancora alla fontana, una famigliola, una coppia con bambino, asiatica - Bangladesh probabilmente - devasta la mia sistematizzazione, il mio tentativo di mettere ordine nella mente, classificare e capire. C'è mia moglie col piede alla fontana. Lui chiede di aggiungere il suo piede a quello di mia moglie. Intanto il bambino la pressa e quasi le si infila sotto la gonna. Mia moglie sarà pure più a sinistra di me, ma è un po' meno comprensiva di me. Infatti sbotta: "E aspetti...". Non è finita. L'uomo è chiaramente disturbato dal fatto che della fontanella ho bisogno anch'io. Anche se sono velocissimo. Non più di quindici secondi. In crisi le spiegazioni culturali/razziali etc. Forse lo spirito dei tempi. Il mondo un circuito in cui superarsi, senza regole, come nella corsa di bighe di Ben Hur. Non solo e non tanto un mondo degli egoismi, non nell'accezione banale del tornaconto materiale. Non credo che la signora, l'asiatico, l'autista di Suv avessero cose urgenti da fare. Semplicemente dovevano dimostrare a se stessi di poter prevalere, superare precedenze e regole e dare così un senso -immagino - alla vita.

mercoledì 3 luglio 2013

Diario di un viaggio a casa mia: quello che resta e quello che muore


Ogni anno a giugno, per due settimane, il pellegrinaggio in Sicilia. Nella mia Sicilia, sempre meno “mia” e in ultima analisi mai “mia”. Visita doverosa, con moglie, a mamma e suocera. Visita al dolore cui non si porta rimedio. Visita alle istituzioni inventate per contenere vecchiaia, malattia e abbandono: la casa di riposo, la badante. Il muro è caduto anche per questo, perché avessimo badanti a prezzo accessibile. Nella casa di riposo un campionario incredibile di sofferenze, fisiche, mentali e di abbandoni. Lo dico subito: il pellegrinaggio annuale in Sicilia mi allontana radicalmente dalla politica e dalle sue priorità. Ventimila posti di lavoro che saranno contesi da milioni di giovani, il rimando dell’Iva per tre mesi o forse per sei, Renzi o Cuperlo. Cosa dovrebbe appassionarmi? Con gli anni (diciamo pure invecchiando) divento più “radicale”. Nel senso di sentirmi sempre più fuori posto. L’autostrada da Catania a Siracusa mi imbuca in orride gallerie che escludono dal paesaggio. Non saprei dove e come trovare il punto di ristoro in cui si consumava la pagnotta calda condita con olio, sale e origano. Rivedo la mia città e cerco inutilmente di provare emozioni. Poco è cambiato. Ogni tanto un viso che indovino essere un viso incontrato venti anni fa. Qualcosa è peggiorato. Entro nel parcheggio “Talete” sul porto piccolo, un mostro immane di cemento. Il parcheggio è buio, deserto e devastato dalle immondizie. Gli scarti umani vi trovano riparo la notte. Sono andato a trovare un amico già compagno di militanza nel Pci (ora con Diliberto). Lui riaccompagna me e mia moglie al parcheggio, con fare protettivo. Incontro un altro amico, anch’egli vecchio compagno di militanza (ora con Ferrero) nell’agriturismo di cui si occupa, malgrado gli esiti di un ictus. Poi incontro per la pizza annuale gli ex colleghi di lavoro, sempre di meno. Consumiamo il rito della pizza sulle colline circostanti Siracusa presso il Castello Eurialo, baluardo delle fortificazioni nord, inespugnabile, eppure espugnato dall’esercito romano (212 A.C.), malgrado le geniali tecnologie belliche di Archimede, grazie “al tradimento di alcuni siracusani”, come tiene a dire sempre il custode. Lì, in pizzeria, almeno ho il piacere dell’incontro con Laura. Ha voluto incontrarmi, dopo 15 anni. Voleva ringraziarmi perché con lei il mio lavoro di “orientatore” era stato proficuo. L’avevo anche aiutata a superare le resistenze dei genitori per un corso di studi lontano da casa. Poi incontro per una granita di mandorla Marina che da brillantissima precaria collaborava con me e che ora è più precaria e insicura di prima. Nel frattempo il candidato Garozzo, renziano, sostenuto dal PD, dalla sinistra, ma anche (non esplicitamente) da pezzi di destra (a partire da Stefania Prestigiacomo) stravince al ballottaggio. Grande regista il boss Gino Foti, ex Msi, ex DC, ora esponente di spicco del Partito democratico. Si prepara la cementificazione del porto (a cura di Caltagirone) con alberghi in mezzo al mare, immagino in stile Dubai, presso le acque in cui la flotta ateniese fu distrutta (412 A.C.) durante la guerra del Peleponneso. Dimentico pure di visitare le latomie dei cappuccini, le cave di pietra in cui furono imprigionati i superstiti dell’esercito ateniese. Avevo promesso a me stesso di rivederle finalmente, anni dopo la riapertura al pubblico . Lì, incredibilmente, in uno scenario infinitamente più suggestivo rispetto ad ogni evento ospitato, da studente avevo recitato I sepolcri di Foscolo e l’ Adelchi di Manzoni. Voglio ricordarlo. Nell’ Adelchi, dopo “S’ode a destra uno squillo di tromba”, “ “A sinistra risponde uno squillo”, avrei dovuto entrare in scena con “D’ambo i lati calpesto rimbomba da cavalli e da fanti il terren”. Ma gli studenti/attori eravamo dispersi in un back stage fra rocce e piante profumate, lontani dal palcoscenico. Ed io ero preso da Rita, minuta e perfetta, che corteggiavo nelle modalità impacciate dei primissimi anni ’60. Insomma miracolosamente sentii il finire della seconda battuta “da cavalli e da fanti il terren”. Nessuno mi aveva detto di preparami. Piantai in asso Rita, cominciando a gridare la mia parte fuori scena, entrando sul palcoscenico più o meno sull’ultima sillaba, stremato. Molto efficace però, al di là delle intenzioni. Perché mi sono dimenticato delle latomie? Forse perché, pur passandoci accanto per comprare i dolci di mandorla, il nuovo assetto urbanistico, con rotatorie e altre diavolerie, mi ha fatto dimenticare dov’ero. O forse ho voluto dimenticare per paura della delusione conseguente al ritorno. Niente altro per due settimane. Sicché decido di verificare almeno se ci sia in Sicilia una Sicilia che mi sembri Sicilia. Decido di cercarla sulle piste di Montalbano. Anche perché è il percorso più vicino alla mia Siracusa. Il barocco ragusano, il mare ragusano, la campagna ragusana. Tutto un po’ meno devastato dall’omologazione del petrolchimico, delle inutili gallerie di cemento, della seconda orribile casa per tutti. Fino a Puntasecca che le insegne annunciano subito con riferimento al commissario. Faccio la mia stupida foto davanti alla terrazza sul mare di Montalbano. Come fanno altri turisti montalbaniani. Rinuncio al bagno perché lì di fronte all’Africa la giornata è troppo ventosa. Poi consumo il mio arancino nel locale di fronte intitolato (guarda caso…) “Gli arancini di Montalbano”. Al ritorno percorro la costa sud verso est in direzione Pachino e Marzamemi (gradevole borgo ed ex tonnara). Faccio le mie provviste di pomodorino secco e di bottarga di tonno. La “vacanza” è finita. Mi aspetta la mia Ostia e la dieta opportuna dopo due settimane di peperoni arrostiti alla brace, granite di mandorla e dolci di ricotta in tutte le varianti possibili (frittelle, cannoli, cassate e cassatine) quel che resta diverso e locale, risparmiato dall’implacabile ed estraneante globalizzazione.