domenica 15 dicembre 2013

Lontano dal paradiso: mezzo secolo fa ci sembrava giusto così


Ho recuperato ieri sulla 7 Lontano dal paradiso, un film del 2002 di Todd Haynes. Utile per prendere coscienza del nostro essere immemori. E per indurci a sospettare delle nostre certezze odierne. Nella cittadina del Cunnecticut, sul finire degli anni 50, c'è una famiglia apparentemente felice e perfetta. Lui manager di successo, lei moglie e madre esemplare, dedita a beneficienza, volontariato e buone cause, compresa la causa dei neri; ottima causa per i valori dell'epoca; purché non si passi il segno; la schiavitù è finita da un secolo e non sta bene maltrattare i neri; buone maniere e umanità (per così dire...), da non confondere con l'eguaglianza; nessuna promiscuità e che non succeda - così in una delle scene più efficaci del film - che un bimbo nero "sporchi" col suo corpicino la piscina dei bianchi. Lì e allora l'omosessualità è vizio e malattia. Ce lo ricordiamo? Ancora nel mondo e qualcuno fra noi lo crede ancora. L'omosessuale è lui, il manager, che vive con orrore la propria condizione, le pulsioni che tenta di allontanare. Scoperto dalla brava moglie, si affida alle cure di un ottimo e illuminato psichiatra che, appunto, crede di poterlo "curare". Ma la cura non funziona e lui continua a rifiutare la moglie così comprensiva, finendo financo a picchiarla. Lei incontra intanto il giardiniere nero. Sicché entrambi alla fine hanno qualcosa di imperdonabile da farsi perdonare: lui l'omosessualità e il rifiuto del corpo femminile, lei il quasi tradimento (quello emotivo, non quello fisico) e (soprattutto?) il sentimento per il nero. Bene. Così il pregiudizio e l'ignoranza distruggeranno due vite. Sarebbe bastato poco: la quieta scoperta di essere diversi o di essere cambiati, un divorzio consensuale, una famiglia allargata. Negli anni 50 non era possibile. Fra 50 anni, nel 2063, un nuovo Todd Haynes narrerà con lo stesso stupore che nel 2013 gli imprenditori si impiccavano per il fallimento dell'azienda giacché era considerato normale, anzi utile a una cosa chiamata "economia", passare dalle stelle alle stalle; egualmente, nel 2013, sembrava normale aspettare lo sviluppo e la crescita affinché milioni di uomini e donne avessero lavoro o reddito. P.S. Davvero non possiamo evitare di finire così maltrattati nel 2063?

sabato 14 dicembre 2013

Blue Jasmine: l'infelicità è interclassista


L'infelicità è interclassista nell'ultimo Allen, anzi soprattutto colpisce i “fortunati”. Woody Allen ritorna in America, dopo le divagazioni francese e italiana (Midnight in Paris e To Rome with love). I fortunati nel 2013 sono gli uomini della finanza e sono le donne che li incontrano. Jasmine è fra queste donne. L'incontro e il matrimonio con Hal è fondato sullo scambio consueto fra ricchezza/prestigio e bellezza/eleganza. Lui è un perfetto interprete della finanza e della ricchezza del tempo presente. Addirittura politicamente corretto. Molto denaro, molto potere, molta intraprendenza, ma anche la doverosa filantropia perché “chi ha successo deve restituire qualcosa ai meni fortunati”. Neanche insolite le scatole cinesi e i percorsi tortuosi del denaro, intenzionalmente tortuosi affinché gli ingenui risparmiatori possano essere derubati. Jasmine un po' non vede, un po' finge di non vedere. Così Allen ci propone il peggio del “femminile”. Jasmine non vede o non giudica la spregiudicatezza criminale del marito all'origine dei suoi abiti, dei suoi gioielli, delle cene sontuose. Vede però di colpo la serie lunga di tradimenti del coniuge. Non sospettava forse che gli uomini si fanno ladri e si fanno ricchi anche per questo. Per fare collezione di corpi da godere ed esibire. L'infelicità che gli uomini regalano alle donne... La rivelazione del'infedeltà diventa intollerabile perché accompagnata dall'improvvisa certezza dell'abbandono. Hal stavolta si è innamorato (si dice ancora così...) e pensa al divorzio. Quindi Jasmine d'impulso prende la cornetta e denuncia . Denuncia e perde tutto. Perde anche quella specie di felicità trovata per strada. Hal si impiccherà in cella. L'infelicità del precipizio è intollerabile per quelli che furono fortunati. Inizia la nuova vita di Jasmine presso Ginger, la sorella non naturale, adottiva come lei e con un percorso di vita stentato nella workers class. La fortuna, di cui è parte il caso ed anche l'avvenenza, ha diviso drasticamente le sorelle. Però non si può migrare quietamente dagli agi della upper class alle privazioni della middle class assai prossima alla lower class. Quel mondo è popolato da sgradevoli coatti con ventre prominente o ciuffo impomatato o dal dentista che le salta addosso mentre tenta di fare la segretaria. Così si usa nel mondo della classe media. E le crisi nervose di Jasmine si fanno più acute e frequenti come i suoi soliloqui vaneggianti. E quella che le donne regalano agli uomini Lì, in quel mondo estraneo in cui Jasmine è finita, possono essere le donne a regalare infelicità ai loro uomini. L'anarchia dei desideri che non sentono ragione non risparmia le brave ragazze. L'irrequietezza erotica di Ginger lacera legami e progetti. Produce disperazione e infelicità nell'aspirante marito, l'unico con lo sguardo lucido, accogliente e insieme severo verso la mitica Jasmine. Perché il fidanzato coatto è in fondo la figura più ragionevole nel film. Lui riuscirà a riportare a sè Ginger. Tutto si sistema dunque in qualche modo in questo spazio di gente comune dalle aspirazioni contenute. Jasmine che volava in alto non riesce invece ad emanciparsi dal passato e dai suoi fantasmi. Precipita verso la follia.

mercoledì 11 dicembre 2013

Grillo e il primato eversivo


Dispiacerà ai miei amici M5S il mio giudizio e me lo contesteranno. Ma per me la lettera aperta ai responsabili delle forze dell'ordine nel blog di Grillo supera addirittura per incoscienza, irresponsabilità ed eversione il peggiore Berlusconi. Grillo invita quindi le forze dell'ordine a non difendere i palazzi del potere. Vi stanno delinquenti sicuramente eletti molto indirettamente dal popolo. Infatti il popolo - in buona parte - ha votato e sostenuto con entusiasmo chi ha nominato quei delinquenti. Ci stanno i ragazzi del M5S e ci sta Giacchetti oltre i due mesi di sciopero della fame per sollecitare una nuova legge elettorale. Un giorno scopriremo magari che ci sta un nuovo Moro o un nuovo Berlinguer, invisibile fra i delinquenti e oscurato dal casino populista. Invitare le forze dell'ordine a non difendere quei palazzi, oltre che una idiozia eversiva, è un chiaro richiamo ai folli o agli sprovveduti che sono occupati con birrette e slot machine a dilettarsi invece con bombe e pistole.

sabato 7 dicembre 2013

Don Jon e il corpo immaginato


Continuo, come posso, la mia riflessione sulla crisi della coppia uomo-donna con la mediazione della recente filmografia. In Shame il sesso compulsivo e disperato. In La vita di Adele l'opzione omosessuale e lesbica, intensa fino alla minaccia della estinzione della specie. In Giovane e bella la banalizzazione e la mercificazione del sesso. In Don Jon la vittoria del sesso online e la noia per la coppia “reale”. Malgrado l'ottimismo degli amici sull'imperituro rapporto uomo-donna, sospetto che il cinema stia cogliendo indizi di un futuro imminente in uno o in diversi di quegli scenari. Don Jon è il figlio fortunato di una normale famiglia italo- americana, interpretato dall'attore e regista Joseph Gordon-Levitt. Nella normale famiglia italo-americana il padre in canotta davanti alla TV, fra un boccone e l'altro, tenta inutilmente di coinvolgere la famiglia su epiche partite di football. La moglie serve a tavola. La figlia è modernamente immersa nel suo mondo privato con la protesi smartphone. E lui, Don Jon, normalmente alterna lavoro, palestra, pratica dei sacramenti della Chiesa, sesso reale e masturbazione davanti alla sterminata offerta porno di internet. In dettaglio: molto sesso reale variamente deludente e moltissimo sesso virtuale assai più soddisfacente. In effetti la filosofia onanistica del protagonista appare articolata e convincente. Don Jon spiega bene a chi si attardi ancora negli amplessi la superiorità invincibile dell'onanismo. Nessuna donna – spiega – fa mai quello che desidereremmo. Il rapporto sessuale è un compromesso in cui l'altro corpo non si modella alle nostre fantasie. Fin qui l'aspetto più sgradevole e stimolante del film. Intanto c'è l'incontro con la bellissima Scarlett Johansson. C'è lei che non accetta la scoperta della “ossessione” di Jon. C'è anche la sorella che finalmente alza gli occhi dallo smartphone e sentenzia – a ragione – che alla partner di Jon interessa solo imporre i propri valori. Con il che l'autore forse ci suggerisce che nel mondo veicolato dallo smartphone c'è più saggezza che nella normale famiglia italo-americana, delusa per la rottura del legame con la brava ragazza che aiuta anche in cucina. Poi l'autore decide di rassicurarsi e rassicurarci. L'incontro con la donna matura, l'intensa e tormentata Julianne Moore, e la scoperta della possibilità di darsi davvero e perdersi nel partner. Non si nomina la parola “amore”. Resta però il dubbio sul significato della conversione al rapporto di coppia.Come se si riducesse a un percorso da malattia a guarigione la storia di Don Jon. Sfumando e negando il primato virtuale che invece progressivamente ci allontana dai sapori, dagli odori, dalle sensazioni tattili, ma lo fa in nome della libertà dell'immaginazione.

giovedì 5 dicembre 2013

La mafia uccide solo d'estate: fra sorrisi e singhiozzi


Pier Francesco Diliberto (detto Pif) è al suo primo lungometraggio, dopo essere stato aiuto di Marco Tullio Giordana ne I cento passi. L'esempio gli viene da Benigni de La vita è bella. E' possibile sorridire e provare tenerezza anche per storie ambientate in contesti tragici. Il sorriso e la tenerezza possono essere le armi della critica militante alla cupezza del male e alla ferocia e stupidità dei carnefici. Ho visto La mafia uccide solo d'estate con varie emozioni. Compreso il compatimento verso Riina, il boss spietato che davanti al telecomando è sprovveduto come qualunque anziano non digitale; ed è un padre sdolcinato verso la figlia neonata. Del resto – ammetto – ho provato pena per il Riina attuale visto tempo fa in Tv, in carcere circondato dall'affetto del figlio, istupidito, come tutti rischiamo, dall'Alzeimer o dal deterioramento delle arterie e che esibiva i segni di una possibile violenza subita. Una violenza incomparabile a quella di cui lui fu artefice, ma comunque inaccettabile per quelli radicalmente diversi da lui e che pure come umani gli somigliano in qualcosa. Ma il regista suggerisse (anzi lo dice): imparate a riconoscere il male fra la gente che ci somiglia, fra i padri che sorridono teneri alla figlia neonata.Nella mia visione del film ci sono dettagli personali. Che ci sono sempre nello spettatore. Nel mio caso la nostalgia e la malinconia di chi ha visto ripetutamente – in trasferte di lavoro - i luoghi della storia narrata. I luoghi di Palermo, a partire dall'abbagliante splendore della Conca d'oro che mi mozzava il respiro quando dall'autostrada, dopo la curva, si rivelava all'improvviso. Gli iris imbottiti di ricotta con cui il protagonista bambino nel film tenta la conquista della piccola amata e i cannoli con la scorza caramellata di arancia. Mondello e i vialetti che la collegano all'Addaura. Quel vialetto di Mondello, che percorsi tante volte, in cui fu massacrato Lima. L'Addaura, vicinissima, dove Falcone subì il primo attentato. Il ricordare per ogni assassinio, nella lunga martirologia dei caduti: "io ero lì, io facevo questo". Entravo con una battuta scherzosa nella sede del sindacato e nessuno rideva. Così seppi dell'assassinio di Pio La Torre. Vedere la rappresentazione efficace delle due Sicilie, Quella dei mafiosi, invisibili anche se ci passano accanto, dei molti amici e collusi e dei moltissimi che non vedono o vogliono vedere. La Sicilia vigliacca che protesta per l'ululato disturbante delle auto di scorta. “Ma perché non vanno tutti ad abitare fuori città questi giudici?” L'ho vista quella Sicilia, visitando l'albero di Falcone. L'ho vista nella condomina del palazzo in cui viveva il giudice, la condomina che sbuffa per la gente che un po' le ostruisce l'ingresso. E poi l'altra Sicilia, quella che appende biglietti di ringraziamento ai rami dell'albero. Claudia, mia figlia, leggendoli, per un po' pensò di poter restare in Sicilia e studiare a Palermo. L'altra Sicilia c'è. E' quella che ai funerali di Falcone grida furente: fuori la mafia dallo Stato. Ecco, il film è la storia di una transizione dal ventre molle di chi non vede o non vuole vedere verso la Sicilia dei giovani di Addio Pizzo e di quel funerale. Percorriamo quella storia fra sorrisi e singhiozzi. La storia che il film conclude con la proposta di una nuova pedagogia, di educazione delle nuove generazioni. Con il protagonista che illustra al figlio bambino, strada per strada, lapide per lapide, il martirio dei troppi caduti.

sabato 30 novembre 2013

La venere in pelliccia: Polansky che non emoziona


Che sfortuna! Avevo approntato uno schema per un pezzo sull'intreccio “genio/sregolatezza”. Mi sarebbe servito – e davo pregiudizialmente scontato – un giudizio positivo sull'ultimo presunto capolavoro del genio. Spiazzato: ho visto Venere in pelliccia, ma non posso proprio condividere gli entusiasmi di molta critica. Polansky ha riletto Venere in pelliccia, il libro cult di Masoch e del masochismo. Il libro di Masoch è re-interpretato dal protagonista, autore della trasposizione teatrale, e re-re-interpretato dallo stesso che si fa attore/ regista insieme all'attrice che diventerà davvero padrona. Bell'esercizio intellettuale, non nuovissimo e non imprevedibile. E bella regia, belle luci e bella recitazione. Manca solo l'emozione. Assai più coinvolgente il precedente Carnage con i quattro che partivano come due coppie contrapposte e ridefinivano continuamente alleanze, conflitti di coppia e solitudini senza scampo. Sarà per la prossima volta.

La magistratura politicizzata


Non si possono e non si debbono contraddire a sproposito Berlusconi e i suoi lacchè. Quando dicono che la magistratura è politicizzata hanno ragione. Purtroppo. Come si fa a pensare che la giustizia e tutto l'apparato circostante (a partire dalla politica) sia imparziale? Non esistono arbitri totalmente imparziali né nei campi sportivi né nei tribunali. Sempre l'arbitro è condizionato dal fattore campo. Talvolta dagli scambi utili alla carriera. Talvolta addirittura dal denaro. Previti, ad esempio, docet. Più o meno come ovunque. Da noi un po' di più. E sempre con una attenzione maggiore verso i big ed i colletti bianchi (con eccezioni, ovviamente). Infatti è del tutto evidente che uno dei maggiori criminali della storia d'Italia l'ha fatta franca ed ha evitato la galera grazie non solo alle leggi ad personam ed alle risorse legali impiegate, ma anche per la "timidezza" di gran parte della magistratura. Trovo stranissimo che i democratici su questo non sappiano replicare alle falsità assolute dei berlusconiani. Lo ammettano. La magistratura è politicizzata. Infatti Berlusconi non ha ancora fatto un giorno di galera. Vige l'ineguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

venerdì 29 novembre 2013

Berlusconi espulso dal Senato: cosa festeggiamo davvero?


Non mi è piaciuta per niente la piazza che fa festa per l'espulsione dal Senato di Berlusconi, il delinquente condannato in via definitiva. Troppo simile alle loro feste. Quelle con prosciutto trangugiato oscenamente ed altri simili pornografie. Ammesso che avvenga e che avvenga in un istante, festeggerei, e non so bene come, la fuoriuscita dal berlusconismo. Ma ce ne accorgeremo quando avverrà? Temo di no. Quei veleni che possiamo intitolare a Berlusconi sono ormai nelle nostre vene e sono parte di noi. Temo che la festa per la sua decadenza sia parte di quei veleni.

lunedì 25 novembre 2013

L'ultima ruota del carro: un po' per capire da dove veniamo


Con Ernesto Fioretti, il protagonista del film, interpretato da un ottimo Elio Germano, Giovanni Veronesi ci fa attraversare l'Italia dell'ultimo quarentennio con lo sguardo di un ultimo. Uno che vive una vita normale e guarda la storia che gli scorre davanti. Dall'assassinio di Moro, all'Italia da bere socialista, al berlusconismo. Tappezziere come il padre, traslocatore e poi patetico cuoco, convinto per poco alla sicurezza del posto fisso, a costo dell'incompetenza. Infine promosso a collaboratore inconsapevole di faccendieri nella fase della "intraprendenza" craxiana. Sempre un po' tirato per la giacca. Il contraltare un efficace Ricky Memphis, nella parte dell'amico Giacinto, capace di avvertire i tempi nuovi e di farsene comprimario. Esilarante la sua analisi del nascente fenomeno berlusconiano, venti anni or sono, con spiazzante inconsapevolezza. “Un uomo che fa spazio ai giovani e alle donne, molto attento alle donne”. Le risate in sala, coinvolgendo quasi l'intero pubblico, appaiono una sorta di referendum sulla storia dell'ultimo ventennio. Vedremo Giacinto alla fine, per l'ennesima volta risorto, al telefono dalla Cina, l'ultimo mito, l'ultima promessa. Ernesto guarda tutto così, senza disapprovazione apparente e senza convinzione. Per lui la vita è accontentarsi di poco, di un lavoro che piace, della famiglia e dell'affetto di Angela, la moglie. La vita è il respiro del tempo scandito dal succedersi del rituale, nelle feste, della declaratoria della formazione della Roma ad opera del più giovane della famiglia: prima Giannini, poi Totti, etc. Con accennata malinconia. Solo alla fine una caduta verso il peggio. Una grossa vincita al gratta e vinci ( o simile diavoleria), compromessa da un biglietto buttato via dalla moglie ignara. Così Ernesto smette di essere portatore dei sani valori “prolerari” (come si diceva). La scenata furibonda alla moglie consegna il protagonista al prototipo del maschio padrone e violento. Ma poi il rinsavimento, lì nella bellissima inquadratura fra le sterminate immondizie della metropoli romana dove Ernesto cerca inutilmente l'introvabile biglietto. La ritrovata saggezza austera che non abbisogna di fortuna. Così l'Ernesto ritrovato propone, a suo modo, con la felicità del ritorno a casa, un modello di “non-crescita” felice. L'ultima ruota del carro è un buon esempio della nuova commedia italiana, dallo sguardo attento agli epifenomeni dei movimenti sociali. Con il suo ultimo lavoro Giovanni Veronesi si propone erede del Dino Risi di Una vita difficile e dell'Ettore Scola di C'eravamo tanto amati .

La violenza sulle donne e la crisi degli uomini


Non so se sia in crescita la violenza sulle donne. Sicuramente se ne parla assai più di ieri. Per fortuna. Ogni tanto si ricorda anche che il luogo di gran lunga privilegiato dalla violenza è la famiglia. E "naturalmente" il carnefice è praticamente sempre lui, il marito, il compagno. Mi pare che i recenti provvedimenti in materia di "femminicidio" possano essere di qualche efficacia. Servirebbero nondimeno presidi antiviolenza diffusi e pubblicizzati. Che però non sono né diffusi né noti. Probabilmente il denaro necessario serve a garantire l'abolizione dell'Irpef sulla prima casa anche per i più abbienti o per altre sciocchezze. Ancor più servirebbe una cultura nuova che al momento non può che partire dalla scuola. Credo più a una cultura che armi le donne piuttosto che a una cultura che disarmi gli uomini. Una cultura che infonda autostima, che indaghi le ragioni della violenza ed informi sui presidi (in accezione lata) esistenti. A costo di soprassedere sui dettagli della prima o seconda guerra punica. Non fingerei di non vedere la crisi della coppia che va ben al di là di mere disfunzioni e casi isolati. L'uomo appare impreparato alla libertà femminile. E si fa scudo di un vecchio armamentario culturale per giustificare la pretesa del controllo e del possesso. "Amore" o anche "stabilità della famiglia" sono parole ed espressioni o da abolire o da leggere sempre criticamente. Sono l'alibi per tenere "l'altra metà del cielo" sotto ricatto permanente. Purtroppo con la frequente acquiescenza e indulgenza femminile. Non sono ottimista. Temo che se avanzerà - come in molti vogliamo, magari perché padri di ragazze - l'emancipazione femminile anche sul terreno lavorativo, se sempre più frequentemente la donna supererà l'uomo in quell'ambito, diventando la maggiore percettrice di reddito in famiglia, la reazione maschile sarà sempre più violenta. A meno che non si riescano a proporre agli uomini obiettivi diversi dal dominio.

sabato 23 novembre 2013

Giovane e bella: verso la mercificazione totale


Cerco nel cinema i segni "popolari" del possibile futuro. Talvolta sgradevoli. Oggi ci provo con Giovane e bella del francese Ozon. La diciassettenne Isabelle inizia il suo percorso sessuale con una delusione. Freddo e meccanico il rapporto con il coetaneo che la libera dell'impaccio della verginità. Voglio notare in ciò l'analogia evidente con l'iniziazione di Adele nel film "La vita di Adele". Solo che in Adele la delusione è propedeutica alla piena realizzazione nel piacere omosessuale. Descritto con tale partecipazione da apparire un manifesto dell'amore omo o addirittura di una prospettiva che escluderà la sessualità etero. Per Isabelle la svolta è invece nella scelta di prostituirsi. Una routine prostitutiva ritualizzata con il cambio di abito (dai jeans adolescenziali all'abbigliamento adulto). Isabelle così accumula un tesoretto giacché non è il consumo che sembra interessarla. Cosa la interessa allora? Il regista non lo dice o appena lo suggerisce. Il solito complesso edipico forse. O semplicemente il desiderio di sapere di valere (300 euro ). Se Ozon non lo spiega però una ragione c'è. L'autore sembra suggerire che quella di Isabelle non è una storia eccezionale. Non è la storia di Isabelle, a parte i dettagli. E' la storia che stiamo vivendo. Il sesso si avvia a diventare compiutamente merce. In vendita come qualsiasi prodotto o servizio. Nel web l'offerta di prestazioni sessuali assume la struttura articolata dei prezzi del parrucchiere: taglio x euro, taglio + piega y euro, taglio, piega e colore z euro. Con la globalizzazione e l'offerta dell'est che contiene i prezzi. Con nuova e positiva attenzione (senza ironia) ai bisogni di una popolazione "di nicchia" (mi pare gli economisti chiamino così i bisogni di pochi che l'imprenditoria più brillante scopre e soddisfa): come i disabili per secoli ignorati, come il disabile di "The sessions" che nell'utile e bel film di Lewin riceve finalmente gioia dalla terapista sessuale. Talvolta il prostituirsi è episodico: per far fronte ad una emergenza o per comprare una borsa costosa. C'è nel film un piccolo spunto che propone con forza tale interpretazione. Il fratellino di Isabelle che racconta alla sorella senza troppo scandalizzarsi di una ragazzina (12, 13 anni, verosimilmente)che a scuola offre con successo "baci con la lingua" per il prezzo di 5 euro. Come ne La vita di Adele, la coppia uomo/donna sparisce. L'uomo non può dare piacere. Per lui il futuro è l'onanismo o il consumo al mercato del sesso, magari con la donna a mo' di stimolo onanistico (una scena di Giovane e bella). Può apparire un incubo. Ma abbiamo già mercificato tante cose. Affidiamo a parrucchieri la cura dei nostri capelli, a badanti le cura dei nostri vecchi, a necrofori la cura dei morti. Avanti tutta allora verso la riduzione a merce di ciò che sembrava resistere. Già alcune madri - lo abbiamo visto anche in Italia - hanno mostrato di accettare e gradire le risorse inaspettate provenienti dall'avvenenza delle figlie. Ci abitueremo quindi. Ci sembrerà normale.

giovedì 21 novembre 2013

Sardegna, lo sappiamo: non cambierà nulla


Dopo l'ultima devastazione, quella che ha colpito la Sardegna, sento il bisogno di pensare scorrettamente. Per capire. Nell'Italia del Vajont, l'acqua delle dighe, dei torrenti, del mare continua a distruggere e ad uccidere. E, al solito, le parti sono assegnate. Qualcuno dirà dell'imponderabile e dell'incontrollabile forza della natura. Qualcuno parlerà del riscaldamento climatico che spiega il trend di incremento dei disastri: dall'Illinois alle Filippine, alla Sardegna. Per non aver dato l'allarme o averlo dato con scarsa forza, qualcuno accuserà la protezione civile. Altri la Regione o i Comuni. Qualcuno griderà allo sciacallaggio: non si strumentalizzi, oggi cordoglio e lavoro per riparare, dopo si vedrà, etc. Qualcuno inevitabilmente chiederà: non costerebbe meno prevenire? E' questo che voglio capire. Quanto costerebbe prevenire. Non sono convinto che costerebbe meno. Se ciò fosse vero delle tre l'una. O siamo tutti impazziti. O qualcosa – la politica – ha interessi propri diversi da quelli dei citadini. O infine tutti “ragionevolmente” accettiamo il rischio del disastro per non pagare costi maggiori. Escludiamo la pazzia. Ridurre le emissioni che riscaldano i mari? Non si può. Bisognerebbe rinunciare a troppe cose. Ed occorrerrebbe un patto mondiale verso l'austerità giacché una ipotetica singola nazione, ecologicamente virtuosa, nell'agone della competizione globale sarebbe ferocemente punita. Può sembrare che ci si stia provando ad operare tutti insieme – tutti i governi del mondo – per rimuovere le cause dei cambiamenti climatici assassini. Si svolge a Varsavia la conferenza Onu sul clima. Non si apprezzano risultati tranne l'appuntamento a Pargi 2015. Ci si prova, lentamente, molto lentamente, come per dire “qualcosa facciamo” ma intanto, da un appuntamento all'altro, da un protocolo all'altro, la temperatura dei mari continua a crescere. E gli impegni degli Stati vengono rivisti al ribasso. Al ribasso quelli di Australia, Canada e Giappone, ad esempio. Le emissioni crescono, i mari si riscaldano, i ghiacciai si sciolgono perché il saldo netto fra politiche di prevenzione e “normali” pratiche di sviluppo è negativo. Esattamente come per il debito pubblico, magrado questo e malgrado quello. Come svuotare l'oceano con un secchiello. Se non possiamo porre rimedio globale alle cause lontane, potremmo realizzare argini e pretezioni locali. Ma no, pare che non si possa fare neanche questo. La politica, i governi, le amministrazioni locali non possono disinvestire né in armamenti, né in sagre locali, né in favori e scambi. Imporre piani regolatori? Troppi nemici. Rimboschimenti, argini? Troppo costosi. Far pagare i gestori di slot machine? Con molta moderazione. Qualcuno li ha cari probabilmente. Credo infine tristemente che ci sia un consenso diffuso al trend che ci indirizza al disastro. Versate le rituali lacrime e celebrato il doveroso lutto nazionale, altre emergenze prevarrano. E forse ognuno dentro di sé penserà: “d'accordo, è successo, ma chi dice che succederà ancora?” e soprattutto “perché mai dovrebbe succedere a me?” Non appare “pragmatico”, appare irragionevole spendere per rischi ipotetici che difficilmente riguarderanno le generazioni presenti. Comunque pagheranno prima quelli che non possono scegliere dove abitare, dalle Filippine alla Sardegna. Da lì i primi segnali di pericolo. Non sufficienti per modificare modelli di sviluppo e di vita. Continuiamo quindi ad ironizzare sui buontemponi del WWF, di Lega ambiente e di Greenpeace e magari sulla “decrescita felice”. Quando l'acqua lambirà i castelli dell'èlite qualcosa si farà.

venerdì 15 novembre 2013

La moneta, il lavoro o cos'altro: a proposito di Servizio Pubblico del 14 novembre


Bella e difficile la trasmissione di Servizio Pubblico del 14 novembre. Protagonisti soprattutto l'economista Alberto Bagnai e il viceministro per l'Economia Stefano Fassina. Sullo sfondo Grillo. Ma in primis la testimonianza agghiacciante di un ex uomo normale, ora disoccupato. Una testimonianza narrata nell'italiano di uno che non è né analfabeta, né semianalfabeta né analfabeta funzionale. Di uno che non capisce come possa essergli capitato questo: i pasti alla mensa della Caritas e la vergogna cocente a guardare la figlia 22enne. Merito? Demerito? Boh! Leit motiv nello studio il confronto fra le ragioni della macroeconomia e quelle culturali e sociali come spiegazione della crisi. Poi lo scontro virtuale fra Grillo e Fassina sul salario di cittadinanza. Per Alberto Bagnai la crisi nasce nel 1997 con la rivalutazione della lira propedeutica al ritorno al Serpente Monetario Europeo e poi al passaggio all'euro. Tutti gli indicatori peggiorano da quel momento, da quel 1997. Per Bagnai – euroscettico di sinistra – la perdita di autonomia politica e di politica economica conseguente è la conseguenza di quella scelta sbagliata. La metafora è questa : nell'euro siamo come sul Titanic. Eterodiritti e con capacità di manovra ridottissima. Con una barchetta non saremmo finiti contro l'iceberg. Interpretazione fondata? Bagnai fa spallucce sulle spiegazioni di Travaglio e dei giovani brillantissimi italiani migranti. Lotta alla corruzione, alle clientele, meritocrazia? Ma l'Italia che non piace a Travaglio non è nata ora a ridosso della crisi. L'Italia se la cavava benino pur con i suoi mali endemici. Quindi la spiegazione va cercata altrove, in una svolta infelice di politica economica. La macroeconomia e l'infelice rapporto di parità lira/ marco sono a monte del disastro. Santoro e Fassina tentano di mediare: forse le due cause convivono. Mediazione non persuasiva. Penso solo che sarebbe triste se Bagnai avesse ragione. A che pro discutere di istruzione, ricerca, bla bla, bla, se tutto nasce e muore in un colpo solo, in una decisione giusta o in una sbagliata? Poi Grillo e Fassina. Grillo dice cose ragionevolissime sul salario di cittadinanza come esigenza sociale imprescindibile. Ma il contorno è irragionevole. Le macchine che sempre più sostituiscono l'uomo verso un epilogo in cui lavorerà il 10% degli italiani. Più catastrofico del vecchio Ludd della rivoluzione industriale. Insomma con l'invenzione della ruota comincia lo sciagurato processo verso la disoccupazione di massa. E poi è davvero curioso se Grillo così pensa di rafforzare le ragioni del salario di cittadinana. Sarebbe a dire che il 10% dovrebbe lavorare per sé e per un 90% assistito dal salario di cittadinanza? Infatti, Fassina ha buon gioco a ribadire – sbagliando comunque, a mio avviso- le critiche all'Istituto. Il vice ministro ricorda che la Costituziona nel suo articolo 1 vuole la Repubblica fondata sul lavoro. E il lavoro non è solo reddito, ma partecipazione, dignità, cittadinanza. Molto bello. Ma per chi non ha lavoro? Aspettiamo il ciclo economico favorevole che comunque non salverà tutti perché mai tutti sono stati salvati? Insomma è lo scontro a distanza fra due semiragioni, entrambe clamorosamente in torto. Credo che il sostegno al reddito possa e debba essere contestuale alla formazione, al lavoro socialmente utile, alla rimotivazione e all'accompagnamento a nuovi lavori. Ma questo non lo dice né Grillo né Fassina.

domenica 10 novembre 2013

Salernitana-Nocera: il segno della catastrofe


Sarà il malumore per il tempaccio che mi chiude in casa. Ma oggi il Sud mi appare morto, suicidatosi, e l'Italia in ginocchio. Viene proibita (non mi frega niente da chi e perché) la trasferta dei tifosi di Nocera per la partita Salernitana- Nocera. I tifosi della Nocerina, parte dei cittadini di Nocera e di quella Campania invigliacchita che non ha voluto vedere l'arrivo dei veleni che hanno prostrato una regione, con improvviso protagonismo impongono: "la partita non si gioca senza di noi". Per tale causa rischierebbero anche la vita, si capisce. E i giocatori della Nocerina obbediscono. Vili fra i vili, simulano infortuni in campo fino a che la partita è sospesa. Per salvare la pelle? Se è così si squalificheranno i giocatori o la squadra, si commissarierà Nocera, feudo evidente della camorra e della cultura mafiosa? Aspettiamo. Pietà per i giocatori che un giorno dovranno dare spiegazioni ai figli della propria vigliaccheria. E un appello impossibile agli uomini di buona volontà se capiscono che questo è un segno della prossima fine: "smettiamo di dividerci su Grillo o su Renzi, costruiamo insieme l'Italia giusta, coraggiosa, seria e allegra". Scusate: è il maltempo. Mi fa credere che un piccolo episodio rappresenti la catastrofe di cui non ci siamo accorti.

domenica 3 novembre 2013

La vita di Adele: verso la fine della sessualità etero


In sala mormorii di dissenso e di protesta di parte del pubblico. Dissenso e disagio – si racconta – anche delle protagoniste rispetto alle pretese di assoluto realismo del regista. E io stesso a chiedermi se si possa chiedere a un attore di rappresentare un tale livello di intimità senza possibilità di finzione/distacco alcuna. D'accordo, succede già nel porno. Ma nel porno questa è la sostanza, come per il chirurgo prendere in mano le viscere del paziente. L'arte vale tanto più della propria intimità? Domani succederà in nome del realismo che si chieda ad un attore o una attrice di amputarsi una mano? Non lo escludo, se si riterrà di essere partecipi di un capolavoro. Almeno fino a che si crederà nell'autonomia dell'arte. Non è casuale che i due film a più alta intensità erotica – a mio giudizio - degli ultimi anni appartengano allo stesso regista e soprattutto che il regista, Abdel Kechiche, sia un franco-tunisino. L'Occidente e l'Europa si attardano nella rappresentazione di sentimenti banali o, alternativamente, di un porno banale, mentre Kechiche fa intravvedere la fine dell'Occidente come lo abbiamo conosciuto. In Cous Cous la lunghissima danza del ventre dell'immigrata nordafricana salva l'impresa familiare, seducendo il pubblico con la malia di un'arte negata all'Occidente. Nella Vita di Adele alla scommessa per un mondo che riconquisti Eros ed ebbrezza si aggiunge la specifica scommessa lesbica e la scommessa della libertà. Adele è una studentessa liceale della piccola borghesia francese, immersa nella normalità. Alla normalità appartiene l'iniziazione sessuale col coetaneo. E lì la delusione totale. Alla normalità appartiene la bella, implacabile rappresentazione della cattiveria delle compagne ovvero del peggio del femmineo, il bullismo in versione gineceo. Poi l'incontro con Emma e la rivelazione di un'altra possibilità, intensa come una vertigine. Emma appartiene al mondo più emancipato e colto (radical chic?) ove l'accettazione della diversità non è solamente normale o normalmente critica, ma piuttosto prescritta, ritualizzata e banalizzata nelle modalità del politicamente corretto. Questo vi ha letto, credo, l'occhio critico del tunisino Kechiche o almeno questo io leggo. Perché all'autore non interessa l'accettazione, la tolleranza e il politicamente corretto. Kechiche è nutrito dello spirito critico e di rivalsa di un tunisino, ma anche della cultura francese e dalla dottrina del poliamore di Jacques Attali, teoria della fine della coppia e dell'avvento di un erotismo multidirezionale. Nella Vita di Adele il realismo delle scene di Eros appare tutt'altro che gratuito. L'intensità della ricerca tattile e della fusione col corpo dell'altra è tale da suggerire qualcosa di diverso da una semplice alternativa erotica. A me è apparso piuttosto un manifesto apologetico dell'omosessualità o almeno del lesbismo. Vincente sulla meccanicità del rapporto etero e della criticità fallocratica, troppo dipendente da cose caduche e ingovernabili. Sul versante dell'omosessualità maschile avevo annotato nella Storia di un corpo di Daniel Pennac un inciso prezioso. Il nipote prediletto, omosessuale, che spiega al protagonista l'ovvia evidenza della superiorità del rapporto omo che è rapporto con ciò di cui si ha già intimità. Nella Storia di Adele omosessualità o lesbismo, non sono solo naturale alternativa alla vecchia eterosessualità. Piuttosto rivelazione e conquista. Solo un tantino contraddetta dal tradimento etero di Adele che scatena la separazione. Un tradimento che appare però una “distrazione” banale o il breve ritorno al vizio antico dell'eterosessualità. La nuova compagna di Emma ha un figlio nato in una parentesi etero. Probabilmente Kechiche immagina e propone, nell'ambito di quella che chiamiamo “famiglia allargata”, un compromesso possibile fra il piacere omosessuale vincente e le ragioni dell'individuo con le ragioni della procreazione e della specie umana. O anche la possibilità di una separazione definitiva fra la dimensione del piacere e quella della perpetuazione della specie. Quest'ultima magari affidata alle provette e alla tecnologia, previa una tassa su ovulo o seme. Insomma donazione gratuita come servizio alla comunità. O – perché no? - la scoperta che nessuno ci chiede di continuare a perpetuare questa specie. Una ipotesi – immagino – che spaventerà di uno spavento più vero e radicale rispetto alla antica paura del diverso che ancora ci affligge. Già perchè tutti – miscredenti compresi- coltiviamo l'illusione dell'immortalità tramite la nostra discendenza, della specie, se non della famiglia. Ma La vita di Adele ci suggerisce di prepararsi alla fine della illusione. A me lo ha suggerito. La cosa non mi riguarderà per ragioni anagrafiche. Lascio l'appunto a figli e nipoti.

lunedì 21 ottobre 2013

Gli stupratori "di buona famiglia"


Si apprende adesso di una ragazzina sedicenne stuprata nella civilissima Modena da cinque "amici" fra i diciassette e i diciotto, nel corso della solita festa a base di superalcolici. Omertà e silenzio allora fra gli amici non attivi nello stupro, ma attenti evidentemente a non rischiare l'emarginazione opponendosi allo scempio. Omertà perdurante. Gli stupratori dichiarati nei verbali - udite, udite - "di buona famiglia". Cioè - immagino - appartenenti alla classe sociale di imprenditori, professionisti, etc. cui quasi sempre è risparmiata pena e galera. Perché il malsano senso comune è pronto a trovare giustificazioni a bizzeffe per i delitti dei colletti bianchi. Che poi schierano i più brillanti avvocati in difesa dei figli e delle loro "ragazzate". Loro, i padri, se evadono o frodano il fisco, sono da ringraziare perché comunque danno tanto e danno troppo. Se inquinano, danno comunque lavoro, e meritano di essere tutelati dai giudici sovversivi. Se comprano la freschezza di una minorenne si deve tener conto che la ragazzina dimostrava diversi anni di più. Alla faccia del formalismo che si attacca all'anagrafe. E le mogli e madri indulgenti verso mariti e figli. In cambio della quiete, della inutile seconda o terza casa che è così bello arredare. In una rete vischiosa di ricatti reciproci. Beh, sì, provo a indovinare, con la presunzione di fare centro. Ho conosciuto qualche esempio di famiglia per bene. Oggi solo il perbenismo criminogeno di quelle famiglie può essere un' attenuante per i comportamenti criminosi di quei ragazzi sommersi e "silenziati" con una valanga di sì. Dovremo pensare, prima o dopo, quando sarà archiviata l'era in cui ci si fa guerra per cambiare nome all'Imu, quando verrà l'epoca della serietà, dovremo pensare - voglio dire - a una prevenzione vera. Ne farà parte insegnare il valore del dono dell'eros. Quello consensuale, perché lo stupro è tutt'altra cosa. Dovremo pensare anche a una lunga fase di repressione di taglio educativo fino a che non si affermi un nuovo senso comune. Immagino, col senso comune di domani, che i genitori cui capiti la disgrazia di un figlio stupratore lo consegnino alla giustizia, rifiutino di pagare le onerose parcelle degli avvocati. Immagino non la pena di una squallida galera in cui si rischi a propria volta di subire uno stupro. Immagino però che cinque o dieci anni di lavori socialmente utili (utili e preziosi perché sgradevoli) sarebbero una pena educativa. Abbiamo toilette pubbliche indecenti. Chi se ne dovrebbe occupare se non gli stupratori? E perché mai gli stupratori, a parte il risarcimento pesante a carico dei genitori che - pazienza - venderanno la terza casa, non dovrebbero risarcire la persona offesa, vita natural durante, con un prelievo forzoso del 20 o 30% dei futuri guadagni? Ho qualche dubbio che padri e madri sarebbero d'accordo. Se non saranno d'accordo sarà segno che la famiglia è una istituzione irrevocabilmente. Incorreggibile, da superare.

giovedì 10 ottobre 2013

Il patriottismo nell'Italia malata


Assisto a Ballarò al doloroso confronto fra i servizi pubblici di trasporto di due capitali: Helsinki e Roma. Inutile dettagliare troppo. A parte la guerra romana di tutti contro tutti per un posto sul tram, si noti almeno che a Helsinki i servizi pubblici sono ampi e puliti come - immagino - i servizi delle case private. Di contro - si sa - la nostra pedagogia nazionale ci suggerisce che "pubblico" significa "di nessuno" e quindi... Oggi il mio amico Fabio, da Londra, con controllata amarezza, confronta Londra e il suo spirito innovativo con la stagnazione malata che colpisce l'Italia e le sue città. Dulcis in fundo, leggo ora i risultati dell'indagine Ocse-Piacc (Isfol per l'Italia) sulle competenze alfabetiche e matematiche. Sempre peggio. Prima eravamo fra gli ultimi. Oggi, fra i Paesi dell'Ocse, siamo ultimi nelle competenze alfabetiche e penultimi in quelle matematiche. Ho qualche difficoltà a unirmi al coro disfattista. Confesso di cercare (patriotticamente?) giustificazioni e attenuanti. Forse la tale indagine non tiene conto che in Italia abbiamo una intelligenza diversa che i test internazionali non riescono ad apprezzare. Forse in Italia abbiamo vesciche più continenti per cui giustamente non dissipiamo risorse in troppo costose toilette pubbliche addirittura pulite. Forse, forse... No, non so cosa dire. Escludo solo le spiegazioni etniche. Poi mi chiedo cosa diavolo sia questa specie di amore per il mio Paese. Compassione? Un grido disperato: "dai, dai, facciamo vedere che possiamo avere i trasporti e le toilette di Helsinki, insieme alla dolcezza italiana". Non mi direte che i nostri disastri sono il rovescio della medaglia della nostra dolcezza? Non ci credo. Mi piace · · Promuovi · Condividi

domenica 6 ottobre 2013

Sacro GRA, l'inferno che abbiamo costruito


Sacro GRA di Gianfranco Rosi è un documentario “recitato”: storie parallele attorno al Grande Raccordo Anulare di Roma. Storie di solitudini disegnate dall'architettura che abbiamo inventato. Avendo visto prima La grande bellezza, mi è spontaneo pensare che questo film ne è la replica come una sorta di La grande bruttezza. La bellezza scioccante di Roma e la bruttezza scioccante di ciò che la alimenta. Il territorio inciso da un grande progetto viario che ha lasciato ai suoi margini l'antico, insieme a nuove orride escrescenze. L'antico sono le pecore pascolanti sulla collina sovrastante il raccordo, indifferenti alla sua vita metallica. L'antico è l'anguillaro espertissimo che non sa a chi trasferire la sua sapienza. Alle pseudo verità e ai disastri del sapere globale impavido oppone la sconfitta sapienza antica che racconta alla donna silente. Silente perché non c'è nulla di cui valga la pena parlare. Antiche sono le palme divorate dai parassiti e inutilmente moderno è lo scienziato hobbista che le studia non si sa bene perchè. Antico il nobilastro dell'ignoto ordine nobiliare che intreccia rapporti con altrettanti ignoti notabili dell'est europeo. Il nuovo è sempre orrido e triste. I palazzoni quasi disabitati da cui ci si affaccia per scrutare indizi di vita o intravvedere Roma lontana. Le ragazze immagine nel localino così così, l'immigrato che negozia con la paziente prostituta prestazioni low cost. E poi il pezzo più cupo e meno recitato. I necrofori al lavoro, dettagliatamente seguiti mentre liberano le bare dal cemento, le aprono e portano via i resti in un mondo che appare immane produzione di cadaveri, oltre che di merci. La professionalità, la routine di un lavoro inventato perché decidemmo che nessuno dovesse più occuparsi dei propri morti. E infine l'operatore del 118 che soccorre le vittime del GRA, con vite che si rincorrono, ignote e indifferenti ognuna alle altre. Lì anche l'eccezione di vera umanità. La tenerezza senza riserve dell'operatore accanto alla madre demente. L'amore, insomma, quello vero e gratuito. Non quella cosa che gli uomini chiamano amore per sentirsi autorizzati a far male. Infine i monitor che a decine seguono la normalità del Grande Raccordo Anulare. Ignorando lo scempio circostante.

sabato 28 settembre 2013

Il maestro riluttante di Massimo Recalcati e l'eros indirizzato al sapere


Nel numero di Repubblica dello scorso 20 settembre un bel pezzo di Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano. Recalcati polemizza con due interpretazioni a suo avviso erronee del mestiere di docente. La prima è quello del docente che tenta di travasare saperi. Inutilmente perché il discente non è un sacco vuoto da riempire. Penso intendesse dire che nessun sapere può essere ospitato eguale a se stesso in ogni discente. Ospitiamo solo trasformando ciò che ci è proposto. Oppure semplicemente lo rigettiamo perché per noi privo di senso. Il maestro riluttante del titolo è Socrate che appunto rifiuta l'invito del discepolo a trasferigli il suo sapere. Al docente che travasa,che tenta di travasare, è coerente l'ossessione burocratica e valutativa. Giacché si può amministrare e pesare solo ciò che è numerabile. E inutile, vuole dire Recalcati. L'altro no è verso il docente- psicologo che intrattiene rapporti personali con gli allievi e tende a surrogare il genitore assente. Qui consento parzialmente. Voglio dire che di una figura siffatta i giovani avrebbero sì bisogno. Ma è tutt'altra cosa del docente. Lo chiamerei tutor o mentore e sarebbe prezioso per una consulenza personale su progetti di vita e di lavoro. Ma Recalcati propone un'altra tipologia di docente: l'unica che abbia senso per lui. E anche per me. Il docente che trasmette passione, eros verso il sapere. Cita una sobria docente di lettere in tailleur grigio che ebbe la fortuna di incontrare in un istituto professionale e che gli cambiò la vita. Giulia Terzaghi il suo nome. Lo capisco. Anch'io ricordo un nome o poco più. Gli altri docenti sono facce senza nome. Il mio nome, o almeno il primo è: Letizia Polto. La penso somigliante alla Giulia Terzaghi di Recanati. Insegnante di lettere al ginnasio. Memorabile la lettura dei Sepolcri con lei. “arbore amica le ceneri di molli ombre consoli” Perché “arbore amica e non albero amico”? E i tentativi di risposta di noi allievi: “è un latinismo”. “Sì, ma perché usa un latinismo? Non sentite che il maschile non vi suggerirebbe eguale protezione sulle tombe?” E poi le sue valutazioni sobrie, precise e “orientanti” che ti suggerivano punti di forza e di debolezza. Quando annunciò che ero il migliore in italiano e poi aggiunse “almeno nello scritto”. O quando mi riconsegnò le mie stupidissime poesie che le avevo dato su pressione dei compagni. Riconsegnate senza un commento, come per dire: “non è il tuo genere”. Aveva ragione: non ho più scritto una poesia in vita mia. Aggiungo il docente di latino e greco al liceo, Attilio Rametta. Da lui ho appreso forse più filosofia che dal docente titolare di filosofia di cui non c'è traccia apparente nella mia mente. Anche da lui infine – senza sfrenati psicologismi – mi sono sentito compreso e aiutato a comprendermi. “Venuleo, e tu adesso le passerai la versione, no?”, osservando la bella compagna di classe che improvvisamente è diventata carina con me. Oppure, riferendosi al mio spirito contemplativo: “Quando ci sarà la fine del mondo, Venuleo si godrà lo spettacolo, fumando in cima a una collina”. All'Università, Santo Mazzarino che mi fa sentire un imbecille per aver accolto acriticamente la storia raccontataci al liceo. Nerone, pazzo e incendiario, Caligola che fa generale il cavallo? Ma chi scriveva la storia se non i senatori espropriati di potere e privilegi dagli imperatori? Nerone per di più è il peggiore di tutti perché realizza una riforma monetaria che punisce i possessori di oro. L'esatto contrario fece Costantino, penalizzando i più poveri. E infatti sarà sempre considerato il Grande Imperatore. Da qui il tentativo di Mazzarino di una Storia dei vinti, maltrattati o ignorati dalla storiografia. Da allora – credo - una mia vocazione al sospetto verso ciò che appare chiaro, evidente, acquisito. Quando Recalcati parla del docente che infonde eros per il sapere, credo che intenda questo. A che serve “svolgere il programma”, dalla preistoria alla seconda guerra mondiale o ai giorni nostri, un programma di cui progressivamente perderemo traccia? L'unica cosa che serve è prendere un pezzettino qualsiasi dello scibile possibile e farne analisi critica, esibirne la esemplarità tale che poi autonomamente si possa continuare ad apprendere, fino alla fine, non fino al diploma scolastico o di laurea. Dovrebbe discenderne una riflessione vera sul rapporto fra apprendimenti formali e informali. Se ne parla fra addetti ai lavori. Solo fra loro. Nulla cambia però nel modo in cui pensiamo alla scuola e all'apprendimento lungo tutto l'arco della vita. Forse solo qualche lampo di pensiero subito compresso dall'abitudine alle cose come stanno e resteranno, all'assurdo invincibile.

domenica 22 settembre 2013

Br, Rodotà, Alfano: comprendere e non comprendere


Le Br in un comunicato tentano di collegarsi alla No-Tav, promuovendola come nuova occasione di scontro violento. Stefano Rodotà commenta:" parole deprecabili ma comprensibili". Bufera. Per Alfano questo è tipico dei cattivi maestri. Anche a dispetto della storia personale di Rodotà mai indulgente col terrorismo. Cosa avrebbe potuto o dovuto dire Rodotà? Che quelle delle Br erano parole incomprensibili? Che lui non le capiva? Che non era abbastanza intelligente per capirle? Rodotà ha dovuto precisare l'ovvio: che comprendere non significa giustificare. Alfano non è abbastanza intelligente per non capire la differenza? Forse. O forse gioca col senso comune e con il logoramento del nostro linguaggio. Per prendere le distanze da qualcuno o qualcosa siamo avvezzi a definire quel qualcuno o qualcosa: "incomprensibile". A forza di dire così però finiamo per non capire davvero e di censurare l'intelligenza. Comunque credo che Alfano, che non è un'aquila, non sia neanche così stupido. Semplicemente gioca sporco.

giovedì 12 settembre 2013

L'undici settembre di Salvador Allende


L'undici settembre di quarant'anni fa, moriva Salvador Allende, Presidente della Repubblica cilena. Conserviamo foto e ricordo di lui affacciato a una finestra del Palazzo de La Moneda, con elmetto e fucile, perché fosse chiara e visibile con la sua impossibile resistenza l'opposizione al golpe che consegnava il Cile alla dittatura di Pinochet. Fra le sue ultime parole infatti queste: Ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento. Ha avuto ragione. Non per caso questo circolo oggi lo ricorda con gratitudine mentre Pinochet è confinato da morto nel disprezzo di tutti i democratici. Ha avuto ragione. A cosa serve prolungare la vita a costo di renderla detestabile? Aveva tentato, da Presidente minoritario, vincitore, ma con la maggioranza del parlamento ostile, di realizzare il cambiamento socialista nella democrazia e nella legalità assoluta. Nazionalizzazioni, esproprio dei latifondi e svariate misure di sostegno ai deboli. Coalizzò contro di sé forze smisurate, interne ed esterne: gli Usa, i militari, i latifondisti, le corporazioni (a partire dagli autotrasporti). Non poteva farcela. Enrico Berlinguer trasse ispirazione dalla tragedia cilena per una svolta strategica verso il compromesso storico. Impossibile il socialismo o il governo della sinistra senza il sostegno della grande maggioranza del popolo o di una larga coalizione di forze.

sabato 31 agosto 2013

Quanto costa un senatore a vita, quanto costa Berlusconi


Molte critiche a Napolitano per la nomina dei quattro senatori a vita. Critiche soprattutto da destra, ovviamente, ma qualcuna anche da sinistra. Specificamente da destra la critica alla parzialità delle scelte. Si comincia col dire che sono eccellenti ma poi si aggiunge che sarebbero state possibili scelte diverse e politicamente più equilibrate: Zeffirelli, Muti, etc. Probabilmente sì anche se è indubitabile che la cultura, la scienza e l’arte stanno un tantino più a sinistra che a destra e che in quell’area di sinistra è più facile scegliere. Ieri a In Onda (la 7) lo affermava nettamente Gomes, ma lo confermava da altri versanti, Ventura e addirittura Belpietro. Con la chiosa di una alleanza interessata fra sinistra e cultura (uno scambio di favori). Ma tant’è : la dislocazione della cultura a sinistra è un fatto come è un fatto la dislocazione a destra degli uomini di spettacolo più popolari e seduttivi, a partire da quel Mike Bongiorno – ricordava Gomes – che Berlusconi avrebbe voluto senatore a vita. Insomma – riassumerei – a ciascuno la sua dote. E quella della destra apparentemente apolitica di Bongiorno, De Filippi, etc. infine pesa sulle opinioni e –per vie indirette – sulla politica un po’ più che quattro senatori a vita. C’è poi il sospetto – ragionevole – che le nomine servano a rafforzare un presunto Letta bis con altra maggioranza deberlusconizzata. Può darsi. Embè? Le precedenti nomine nella storia della Repubblica erano nomine asettiche e libere da ogni disegno? Ne dubito. La nomina dei senatori a vita è un istituto monarchico, un residuo difficilmente compatibile con la democrazia, come tanti ritengono? Lo si sostiene anche a sinistra; oggi Lerner sul suo blog, ad esempio. Tento una mia risposta. Per me solo una concezione piatta e banale di democrazia giustifica l’opposizione di principio alle nomine. Per me la concezione più banale e piatta fra tutte è quella della democrazia diretta. I suoi esiti spessissimo sono tali che: o i votanti si pentono del voto espresso o il popolo si dissolve in una frantumazione di tesi che occulti manipolatori hanno messo sul tappeto. Una democrazia compiutamente diretta insomma implicherebbe maggioranze quotidianamente variabili e una politica dell’avanti/indietro permanente. Così accadrebbe in partiti e movimenti. Se non ci fosse il “più eguale degli altri” (Grillo, ad esempio) ad attaccare e staccare l’interruttore del web. Così – quel che è peggio – accadrebbe nello Stato. La rappresentanza – fino a prova contraria –continua ad essere il punto di equilibrio fra volontà popolari molteplici e variabili. Si ipotizza – fondatamente, malgrado alcuni momenti quale quello attuale sembrino dimostrare quasi il contrario - che i rappresentanti del popolo non siano meri portavoce ma interpreti chiamati a dar sintesi e coerenza al frastagliato/incoerente. Permane comunque la minaccia dell’argomento platonico: ti affideresti a un timoniere scelto dal popolo o lo vorresti scelto da altri esperti timonieri? L’obiezione democratica è che il timoniere scelto dai timonieri posto di fronte alla scelta sacrificherebbe i passeggeri (il popolo) per salvare i propri elettori. Non si esce mai davvero dai dilemmi drammatici. Si sceglie di tagliare il nodo, sapendo che così non lo si è sciolto. Perché non si può. Il popolo non avrebbe mai scelto gli ultimi senatori a vita. Non sarebbe venuto in mente di candidarli. Se si fossero candidati in libere elezioni (che oggi non ci sono) non avrebbero prevalso su una Santanché e neanche su uno Scilipoti. Insomma la loro nomina appare un correttivo – modesto, ma comunque valido come pro-memoria – alla volontà popolare senza mediazioni. Il Presidente eletto dai rappresentanti del popolo, nomina. In qualche modo il popolo nomina. In attesa che la forbice fra rappresentanti e rappresentati si stringa e che il popolo spontaneamente dibatta se sia Muti o Abbado ad onorare meglio la Patria. Che questo un giorno possa avvenire a me sembra la giusta scommessa di una democrazia radicale. Un giorno. Oggi – prendiamone atto – il popolo non ha preso a calci quei Tizi seducenti che hanno chiesto quanto costerà allo Stato la ipoteticamente lunghissima permanenza al Senato della troppo giovane ricercatrice (51 anni). Io, da matematicamente sprovveduto, non ho neanche capito quale sia la differenza di costo fra 50 anni di stipendio per una giovane o di 25 anni per 2 meno giovani destinati l’uno a subentrare all’altro. E’ un fatto però che segnala l’egemonia culturale di una destra, pur povera di intellettuali, che oggi i blog, oltre che i giornali del perseguitato, siano piene di contumelie per lo spreco di denaro pubblico che le nomine senatoriali comportano. Nell’economia della brava massaia questo è un costo. Non è un costo l’evasione fiscale del padrone di Mediaset. Ancora più difficile spiegare ovviamente il costo connesso a quella operazione criminale che ha potuto costruire fondi per comprare pezzi di Parlamento, già riempito di odalische e analfabeti.

giovedì 29 agosto 2013

A proposito di Pennac, del corpo e della politica


Realismo: cioè? La storia e l’arte si sono occupate quasi sempre dell’eccezionale: uomini e donne eccezionali che cambiano il mondo, uomini e donne che vivono eventi eccezionali. La storiografia più recente – quella degli Annales, ad esempio – scoprì che la storia non è fatta da uomini o eventi eccezionali, bensì da onde lunghe costituite dalla geografia, dai mutamenti climatici, dalla cultura materiale (del cibo, del sesso, etc.). Rispetto a ciò gli uomini e gli eventi eccezionali sono increspature di onda. La letteratura e il cinema –verismo, neorealismo – scoprirono poi a loro volta il significato e/o la bellezza del quotidiano. Le nostre strade non sono affollate né da Antigone, né da fratelli Karamazov, né ci capita facilmente di tramutarci in un insetto come capita a Gregor ne La metamorfosi di Kafka. Verismo e neorealismo tentarono di interpretare il significato della vita di masse anonime. D sciuscià, di pensionati e di ladri di biciclette. Ma realismo ha altri significati possibili. La maggior parte del tempo degli uomini eccezionali come di quelli normali è speso ad occuparsi del proprio corpo. Il realismo, nelle sue varie declinazioni, si occupa pochissimo della maggior parte del tempo umano. Fa astrazione del tempo speso nel sonno. Fa astrazione del tempo speso nel bagno, fa astrazione del tempo speso a grattarsi, etc. Ritiene di non poter dire nulla di interessante o di emozionante (esteticamente significativo) al riguardo. Ritiene che invaderebbe inutilmente, morbosamente, quella sfera che è considerata intima (interna, segreta, non pubblica). La domanda è se invece possa essere utile o emozionante invadere quella dimensione. La risposta è stata positiva con tutta evidenza per ciò che attiene la sfera sessuale e il genere porno, perifrasi dell’oggetto anatomico. Anche questo genere comunque è mera astrazione. Prescinde da storia e sentimenti e anche dalle sensazioni che la cinepresa e la scrittura, nel porno come nella descrizione anatomica, non possono rappresentare. Insomma qualunque realismo è comunque astrazione, scegliendo un punto di vista che obbliga ad escluderne altri. Il corpo chimico, il corpo chimico, etc. Attorno a realismo quindi, qualunque realismo, immaginiamo sempre le virgolette. Ma parliamo ora di “realismo” del corpo. Di cosa parliamo quando diciamo io, tu, lui, noi, voi, loro? Sono triste, sei felice, è impegnato, siamo attratti, siete respinti, sono sperduti. Le parole che spendiamo nella vita quotidiana parlano pochissimo del corpo come membra e come organi. Quelle dell’arte quasi mai. Parliamo di noi al più parlando dell’intero corpo, dell’intera persona che si sposta, si commuove, vive, muore. Se però, soli con noi stessi, pensiamo, allora pensiamo al braccio destro, al piede sinistro, al fegato a ciò che ci fa male, o ci produce piacere. Quindi, in tal senso, l’arte è sempre lontana dalla realtà o dal realismo o anche da ciò che occupa il maggior spazio della nostra mente. Un altro realismo Daniel Pennac ha tentato l’intentato. Storia di un corpo è la storia del protagonista, dalla età di 12 anni fino alla fine. Storia della sua evoluzione. Storia di sensazioni tattili, di odori, sapori, rumori corporali. L’autore immagina di redigere un diario del proprio corpo, diario da destinare, dopo morto, alla figlia. Il diario dimostra – lo dico subito – che è impossibile parlare del proprio corpo a prescindere dalla propria mente. La mente seleziona, connette e dà senso agli eventi del corpo. Pennac non può infatti a prescindere dalla narrazione della propria rete affettiva, della propria carriera professionale e politica. Dalla Tata indimenticabile che gli insegna come fare pipì e di cui non scorderà mai l’odore del corpo o i colori/sapori/profumi della colazione, alla iniziazione sessuale, dono della compagna partigiana, al rapporto con una giovanissima collaboratrice che all’età di 73 anni gli segnala l’impensata possibilità di riscatto di un corpo provato e ritenuto impotente etc. Diciamo che in tali narrazioni il corpo è l’interlocutore del protagonista, la sorgente e il terminale delle sue emozioni. Sicché ad esempio la paura non è solo enunciata come tale ma è lo strizzamento dei testicoli. E la vecchiaia è il deteriorarsi della pelle e la difficolta di minzione. La storia del corpo è storia di secrezioni. E’ storia dell’intimità che l’arte stenta a dipingere: le deiezioni più degli orgasmi e della “materia” del sesso. Anche quelle comunque non come un trattato di clinica, ma sempre, necessariamente per le rappresentazioni mentali che le accompagnano. Mi sono chiesto se l’autore non abbia avuto tabu. Mi sono risposto che li ha avuti. Descrive le caratteristiche delle proprie feci, con digressioni che includono lo scopino da water, descrive l’imbrattamento da sperma, descrive il nipotino sorpreso a masturbarsi. Il pudore però vince riguardo la descrizione della donna amata. Nulla sappiamo in dettaglio del suo corpo. Sappiamo della sua andatura. Apprendiamo il particolare tenero che l’autore non avrebbe rimediato allo spazio angusto fra la porta del suo studio e la libreria perché questo costringeva la sua donna a quel movimento che lui ha ammirato per decenni. L’attenzione ai discorsi del corpo consente a Pennac di individuare la genesi delle nostre credenze e dei nostri pre-giudizi. Così riguardo il corpo femminile l’autore giunge a ipotizzare che lo scherno maschile sul ciclo, diversamente incomprensibile, sia la ripicca per un senso di inferiorità inconfessato. Il maschio ritiene che il ciclo sia purificatore e che tale purificazione sia preclusa ai maschi. E ritiene altresì che “regole” sia termine che allude al rapporto privilegiato femminile con la natura. Anche su questo, per inciso, rivelatrice del nesso corpo/mente la semplicità con cui il protagonista accenna al fatto che il ciclo non abbia mai interferito nella sua pratica sessuale con la compagna. Lo dice proprio e solo riguardo la compagna, un corpo non confrontabile con altri corpi. Altri parlerebbero, semplicemente o grossolanamente, di amore. L’eros ha gran parte nel romanzo di Pennac. E’ meritoriamente un eros pervasivo quello del romanzo. Dico meritoriamente perché guarda a ciò che è frequente più che a quello che è eccezionale. E’ meritorio voglio dire esplicitare la dimensione erotica di uno shampoo praticato da mani femminili. Un eros democratico – per così dire – che accompagna la vita di tutti ben al di là delle pratiche certificate come sessuali e di quel fenomeno chiamato amore che riempie cinema e letteratura moderni. L’interrogarsi sul corpo e le emozioni altrui, senza l’impaccio dei pregiudizi, consente all’autore la scoperta più intima del punto di vista omosessuale. L’apertura consente scoperte altrimenti impossibili. Così il protagonista può ricevere dal prediletto nipote, omosessuale, la deliziosa lezione: Vi interrogate sempre su chi sia “attivo” o “passivo” nel rapporto omosessuale, ma non capite il vantaggio di un rapporto fra eguali che sanno come dare quello che hanno appena ricevuto; questo è precluso alle coppie eterosessuali. Sì, mi accorgo che ricorro a perifrasi. Non sono Pennac e non mi sento autorizzato a nominare le cose con il nome che diamo loro quando le pensiamo. La politica del corpo L’ultima domanda che mi faccio è questa: al di là dell’emozione estetica, sarebbe utile – pragmaticamente utile, politicamente utile – un’arte che recuperi il giacimento inesplorato della coabitazione col nostro corpo? La mia risposta è sì. Penso che la rappresentazione della sofferenza di una vescica piena nel centro inospitale di Roma, privo di toilette pubbliche e dove, arrivati al bar e consumato il caffè, si trova l’avviso “toilette guasta” possa accompagnarsi nelle antologie del dolore all’evento luttuoso o ad un abbandono. E concorrere ad una politica dei servizi pubblici. Allo stesso modo ”sentire” la sessualità gay, anche nei suoi presupposti fisiologici, darebbe concretezza e vigore nella lotta contro l’omofobia e contro l’amputazione delle potenzialità erotiche dell’uomo. E “sentire” mentre si è politicamente attivi, la fatica del salire le scale o la perdita del respiro suggerirebbe urgenze sulla libertà di morire ben più pressanti dell’Imu ed ora compresse dal malinteso pudore. Ecco, da questo “realismo” la politica può riacquistare senso. Non dallo pseudo realismo della politica politicante.

lunedì 26 agosto 2013

Leader da inventare, leader da consumare


Una volta i leader avevano vita lunga. Occupavano la scena, a destra, sinistra e centro quasi sempre per la durata della loro vita. Si contendevano uno spazio, un passettino avanti, uno indietro, un altro avanti. Perdevano la segreteria del partito e acquisivano la premiership di governo oppure diventavano capicorrente. Se uscivano di scena, questo avveniva morbidamente. De Gasperi, Togliatti, Nenni, Andreotti, Malagodi, La Malfa. Una volta. Erano sintesi stabili degli orientamenti. Ora elenco: Fini, Bossi, Di Pietro, Ingroia, Monti. Di quale malattia si sono ammalati? Scomparso Fini. Una drammatica evoluzione, da Fiuggi al ripudio drastico del fascismo, al “che fai mi cacci?” rivolto impavidamente al padrone d’Italia in una platea servile e ostile. Futuro e libertà fra musica, canti e oratoria del bravo Barbareschi (che poi avvedutamente cambia idea). Apertura ai gay, agli immigrati. Dimenticato il ruolo opaco nei massacri di Genova 2001. Vezzeggiato dalla sinistra. Poi la casa a Montecarlo, l’alleanza con Monti. E la fine. Bossi, grande aggregatore dello scontento del nord. Operai, artigiani, piccoli imprenditori tutti insieme contro il capro espiatorio del Sud e dell’immigrato perché c’è sempre oggi nel leader innanzitutto l’esigenza che sia definito il nemico. Assai meno i risultati attesi dalla sua leadership. Peraltro nella seconda Repubblica la costituzione materiale dice che tutto è permesso se il popolo (una frazione compatta di popolo) lo vuole. Si possono minacciare sollevamenti, fucilate e cannoneggiamenti, come il buon Bossi ha fatto. Chi si azzarderà a minacciare processi? La viltà, non il coraggio, suggerisce che l’avversario sia battuto politicamente, non nei tribunali. L’alibi per l’impotenza. E poiché l’avversario trionfa in una partita a carte truccate, il suggerimento implicito è di subire o di accettare una corsa ad handicap in cui è impossibile vincere. Ma i leader si sconfiggono da se stessi. Ad esempio col il consueto voler troppo. Sistemare, ad esempio, moglie e figli secondo l’odiato costume sudista. Indifendibile. E la fine. Di Pietro, protagonista assoluto di Mani pulite, inquisitore di Craxi. Poi politico rozzamente efficace. Vero antagonista assoluto del padrone d’Italia cui non ha mai concesso sconti. Foto di Vasto, da vincitore. Poi ancora Report, Gabanelli con storie di case e conti confusi fra partito e famiglia. E la fine. Ingroia, idolo del popolo viola e dei militanti della legalità. Incarico in Guatemala. Ritorno in Italia come leader di Rivoluzione civica. Flop. Ridicolizzato da Crozza che non perdona. L’indolenza dolente e la sconfitta. E la fine. Monti, salvatore della patria. Novello Cincinnato lascia l’università, chiamato da Napolitano. E’ scontato: sarà Presidente della Repubblica se ascolta i consigli di Napolitano. Ma non li ascolta. Un disastro elettorale. E la fine. Credo che oggi, più di prima, un leader nasca un po’ per caso. Un mix di talento e di caso. Fra cento o mille leader potenziali ed equivalenti il caso decide. Era nelle cose, possibile ma non fatale, che l’Italia avversa alle regole trovasse un suo leader contro la “gioiosa macchina di guerra” di Occhetto. L’oscuro imprenditore di Arcore prima aveva trovato, con l’aiuto di consulenti e stallieri le risorse economiche, poi per caso incontrò Craxi e il decreto che gli consegnò il potere smisurato di proporre la nuova pedagogia televisiva e di conquistare il cuore di massaie e pensionati, enorme esercito inconsapevolmente al servizio di elusori, trafficanti, frequentatori dei riti del Billionarie. Quindi il pupazzo di neve fu completato col cappello degli intellettuali “eccedenti” nella sinistra che invece nella nuova destra trovarono spazi e retribuzioni impensati. Una forza economica capace di comprare qualsiasi cosa: giovinezza, bellezza, parlamentari. Una valanga nata da un fiocco di neve. Non è diversa la genesi della leadership dell’oppositore di Berlusconi, oppositore di tutto, Beppe Grillo. Certamente irriducibilmente diversi i valori e gli obiettivi. Non diverso il ruolo del caso e, per altri versi, della TV, inventore di leader. Non dal nulla, anche qui, ma privilegiando uno fra cento o fra mille. Un comico di ottima cultura e di buone letture che casualmente incontra un praticone del web e, nella distrazione generale, forse a sua stessa insaputa, occupa uno spazio deserto da cui arringa i piccoli imprenditori delusi, i precari sovra-istruiti, il popolo avverso alle caste. Qui la narrazione vincente è giocata sull’assenza/presenza. Mai presente nei talk show della TV sdegnata, sempre presente e garante di share per la TV che cerca personaggi. Infine l’attraversamento dello stretto vale dieci volte un’apparizione di Berlusconi a rete unificate. Così due Italie hanno trovato i loro campioni. La terza Italia, quella che non amava gli uomini soli al comando è vinta e persuasa. Sarà leader anche qui chi trova un bersaglio attraente e mobilitante. Renzi lo trova nell’apparato del partito. Per la prima volta nella storia del Pci- Ds- Pds- Pd o in quella Dc, Ppi, Margherita, Pd, si può dire “loro”, “voi”, alludendo agli avversari dentro il partito. Anzi si deve dire per vincere. I democratici ora sanno l’essenziale: contro chi sta. Sta contro l’apparato. Il fronte avversario si sfalda. Paradossalmente i rottamati, quelli che lui ha rottamato, passano dalla sua parte. Prima Veltroni e seguito. Poi anche l’ultimo esponente della vecchia Italia e del vecchio PD politicante, Massimo D’Alema, si arrende: sia Renzi il leader. Ah, dimenticavo, vengo anch’io: sia Renzi il leader.

mercoledì 21 agosto 2013

La nostra epoca pacifica


Sulla spiaggia una donna matura se ne sta sdraiata con le palme delle mani sollevate e aperte verso il sole. Posizione yoga o posizione per abbronzare le palme? Sorrido da impenitente scettico. A casa seguo un tantino il tg2. Fra le varie cronache di orrore c'è quella, che viene dalla Germania, di quel tale che fa strage in una riunione di condominio perché - immagino - è inaccettabile che gli altri la pensino diversamente da te. Poi c'è quella, che viene dagli Usa, dei tre ragazzini che sparano, uccidendolo, ad un coetaneo sconosciuto che faceva jogging. Confessano: "non sapevamo che fare". Rivaluto l'innocente mania della signora con le palme rivolte al sole. Andiamo avanti, voltando pagina davanti ad ogni orrore. E' stato detto autorevolmente che questa è l'epoca più pacifica che il mondo abbia conosciuto. Aggiungerei: "e la più stupida". Mai - mi pare - la violenza è stata più gratuita e sciocca di oggi. Se la politica non si interroga su questo, di che diavolo si occupa allora?

martedì 20 agosto 2013

Ecce bombo: un po' divagando


Rivisto ieri su Rai 3 Ecce Bombo, del primo Nanni Moretti. Il regista diceva di se stesso e della sua generazione, narrandone i riti e le elaborazioni senza sbocco. I riti delle radio libere, delle sedute di autocoscienza, dell’amore più o meno libero. Dopodiché non avvenne nulla di liberatorio. La scena fu invece occupata dal terrorismo. Dai suoi riti cruenti. La finzione e l’autoinganno. Fingere di credere che dall’assassinare i migliori scaturisse la salvezza dell’umanità. Il film è del 78, l’anno del sequestro Moro. Dai riti innocenti e vacui dell’autocoscienza ai riti altrettanto vacui e però criminali dei processi rivoluzionari. Perché spesso, innocentemente, dal banale nasce l’orrore. Ecce bombo non mostra i protagonisti del terrorismo. Mostra i giovani rivoluzionari Minzolini e Mughini. Conosciamo l’esito di quelle storie. Una intera generazione “intellettuale” perduta fra le sirene del terrorismo e, dopo, da quelle del populismo padronale che fece incetta di intellettuali sul mercato. Perciò non è del tutto indifferente vedere il film allora o oggi. C’è in Ecce Bombo un mix ambiguo di autocritica e di autocompiacimento. “Faccio cose, vedo gente”. L’autocritica nella forma di evidente metafora esplode nell’episodio della gita notturna ad Ostia in attesa dell’alba. E l’alba che spunta alle spalle dei disorientati aspiranti rivoluzionari. Con altrettanta evidenza e con inusitata violenza c’è invece l’esibizione di un bersaglio pretestuoso. E lì c’è il Moretti che non mi piace affatto. Perché il bersaglio – pensate - è Alberto Sordi. Nel bar ci sono le solite chiacchere da bar e qualcuno dice le solite banalità “rossi e neri tutti eguali”. L’interprete di Ecce Bombo ovvero Nanni Moretti attore, ma anche Nanni Moretti autore, insorge: “Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?” urla più volte. Qui io credo ad un corto circuito dell’intellettuale che pensa sia dovere dell’intellettuale affermare il contrario di ciò che appare. Sordi è stato interprete dei vizi degli italiani. I suoi registi lo hanno usato a tale scopo. Beh, a me pare che quasi sempre al pubblico è stato chiaro che Sordi non era l’italiano gaglioffo che interpretava. No, non butterei a mare ne il Sordi di Monicelli de La Grande Guerra o di Un borghese piccolo piccolo né quello che forse ho preferito di Una vita difficile di Risi. Inviterei invece gli intellettuali di professione a prendere atto che l’intelligenza non è loro monopolio. Talvolta la cuoca vede più lontano. E vede più lontano l’oscuro Massimiliano Bruno, regista della gradevole commediola di un paio di anni fa, Nessuno mi più giudicare. L’oscuro regista infatti punisce Moretti con un calco geniale della sua scena. Stavolta è Rocco Papaleo ad aggredire l’avventore del bar colpevole di dire cose di sinistra, banalmente di sinistra: “Ma che siamo in un film di Nanni Moretti?”. Giustizia è fatta.

lunedì 19 agosto 2013

L'imprevista attualità di Umberto D


Si dice che il prodotto dell’arte sia sempre attuale. E’ un po’ vero. Resta intatta la capacità di emozionare. Talvolta però persiste attuale la storia, la narrazione, non solo l’emozione. Così mi capita di pensare rivedendo Umberto D, il capolavoro neorealistico del '52 di De Sica, sceneggiato da Zavattini. L’emozione, il colore emotivo del film è nella solitudine opprimente e senza speranza del pensionato. La materia, la storia è nella fatica quotidiana di sopravvivere, trovare un pasto e un tetto. Una materia che ci sembrava datata. Dopo Umberto D ci fu lo sviluppo e il miracolo economico. Per anni abbiamo creduto che tutto sarebbe stato sempre più facile. Il lavoro, la pensione, la sicurezza. Avremmo potuto archiviare Umberto D nel cassetto dei classici, delle emozioni estetiche, nel vasto repertorio del come eravamo . Non è andata così. Umberto D è un anonimo ex impiegato ministeriale, pensionato che nell’Italia in ricostruzione dei primi anni ‘50 indossa gli abiti dignitosissimi e formali di chi una volta era integrato. Ma ora, senza famiglia e senza più lavoro, c’è il deserto delle relazioni insieme alla fatica di sopravvivere. Il cibo nelle mense preposte alla carità. Il tetto in una stanza in affitto che è sempre più difficile pagare. Flaik, il cane che lo accompagna, è il solo vero affetto, quello che lo dissuaderà dal concludere una vita senza gioia. Dopo la rivisitazione di Umberto D, ammetto di guardare con occhi diversi i tanti miei concittadini così impegnati ad accudire i loro animali, a costo di complicarsi la vita. Dicevo di analogie e di ritorno. Nel gioco delle analogie – 60 anni dopo – la vendita dell’orologio di Umberto per racimolare la pigione di casa somiglia troppo alla nuova moda della vendita dell’oro. Anche oggi per pagare un affitto, verosimilmente. Oggi come allora gli anziani privi di tetto o compagnia sognano un letto di ospedale. Nel labirinto dello stato sociale, ora come allora bisogna, fingersi qualcos’altro – malato – perché essere vecchi non dà titoli sufficienti. E lì nell’ospedale in cui Umberto D trova provvisorio riparo, c’è la perla interpretativa di Memmo Carotenuto, un tipo umano che sopravvive dalla commedia classica. La furbizia, il saper navigare nello stagno in cui la vita ti confina. La furbizia degli sconfitti che insegnano come diventare clienti di una suora perché da lei, non dal primario, negli oscuri rapporti di potere, dipende la possibilità di prolungare il soggiorno nel reparto. A proposito di pedagogia della furbizia e della sopravvivenza, l’acquirente dell’orologio, conclusa la rapina legale, con flessibilità - si direbbe oggi - atteggia la mano facendosi mendicante. Ho visto qualcosa di simile oggi nei rom che fra un bidone esplorato di immondizie e l’altro, strada facendo, ti chiedono qualche centesimo. Beh, però questo nella dialettica fra ciò che ritorna e ciò che permane, è una relativa novità. Ai tempi di Umberto D lo spreco non aveva le dimensioni di oggi. Grazie allo spreco i bidoni sulle strade sono pieni di risorse per il popolo dei rom e quelli del mercato consentono a pensionati simili ad Umberto D di racimolare scarti di verdure. E’ l’effetto benefico della ricchezza che, mutatis mutandis, nella filosofia di Daniela Santanché del Viva i ricchi, fa arrivare occupazione e briciole commestibili a quelli che non hanno meritato di meglio. Una filosofia assolutamente vincente, a pensarci, a parte gli esibiti eccessi di tanta rappresentante della nostra destra e dei nostri tempi. Tante cose sono mutate. E’ mutata la condizione giovanile che nell’epoca del neorealismo non era un problema. I giovani erano destinati a salire la scala della condizione sociale assegnata alla nascita. Uno, due, tanti gradini, a seconda del merito e della fortuna. E’ mutata in meglio la condizione femminile, nella consapevolezza dei diritti, ad esempio. E la libertà sessuale, il faticoso riconoscimento di ogni identità sessuale, etc. Gli anziani invece sono tornati nella solitudine di allora, in un mondo tutto indaffarato nella ricerca di un lavoro, del successo o del prestigioso oggetto inutile. Un mondo che scompare al momento del pensionamento. Si è deciso - non so come - che il continuum riguardi la vita dalla nascita, all’età evolutiva, allo studio, al lavoro e che poi debba intervenire la netta cesura del pensionamento. Occuparsi di questi “fortunati” appare un lusso. Quindi solo loro, se pensionati al minimo o vicini al minimo e con canone da pagare, si accorgono che le ridotte protezioni contro l’inflazione aggiungono fragilità a fragilità. Sospettano che sia ingiusto che il legislatore approfitti della loro forza contrattuale pari a zero per realizzare le economie che sembra impossibile realizzare sui fortunati veri. Fanno quindi ogni tanto un corteo come quello con cui si apre Umberto D. Poi, fra sensi di colpa e impotenza, imparano dai Memmo Carotenuto le tecniche della sopravvivenza. Umberto D per un attimo decide di passare il confine. Prima tenta di servirsi del suo cane per raccogliere elemosine. Poi, per un attimo, in una delle scene più intense, apre lui la mano. Solo per un attimo. Subito la mano si rivolta offrendo alla vista il dorso e non più il palmo. Perché diventare poveri è più difficile ancora che nascere poveri. Bisogna dare spiegazioni a chi prima ti era pari. Il neorealismo indagò la triste normalità di chi non fa notizia. Ebbe critiche dalla politica. Le ebbe “da destra” e un po’ anche “da sinistra”. Il giovane sottosegretario Andreotti, visionato Umberto D, non era così ingenuo da contestarlo tout court. Diceva: De Sica ha voluto dipingere una piaga sociale e l'ha fatto con valente maestria, ma nulla ci mostra nel film che dia quel minimo di insegnamento[...] E se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti - erroneamente - a ritenere che quella di De Sica è l'Italia del ventesimo secolo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria. A proposito di ritorni, sembra di ascoltare la polemica di Berlusconi verso Saviano che avrebbe danneggiato l’Italia mostrando l’infezione mafiosa. O, all’indietro, le reprimende del regime fascista verso i “disfattisti”. Mi interessa però evidenziare la critica, diversa, ma non troppo di Pietro Ingrao (Rinascita, febbraio 1952): Altre volte abbiamo parlato della concezione del mondo ingenua, spaventata e mitica che si ritrova anche nelle opere più efficaci del cinema realista italiano. Umberto D conferma questa osservazione. Interpreto così il significato delle due critiche. Per Andreotti Umberto D fa torto al Paese come se suggerisse che quella condizione umana è di tutti gli italiani. Anche per Ingrao De Sica e Zavattini sbagliano. Anche per Ingrao quel realismo non dice tutto. Il colore grigio del film non è dovuto alla assenza dalla scena delle forze produttive e dei ceti emergenti. E’ dovuto invece a quella assenza di coraggio e di prospettiva che fa apparire l'arte di De Sica “spaventata”, incapace di mobilitare speranze di cambiamento. Direi che le critiche legittimamente possono esibire ciò che è assente in un prodotto artistico. A me pare che, a dispetto del termine, il neorealismo colga inevitabilmente solo frammenti della realtà. Quello di De Sica, ad esempio, riducendo i corpi a poca cosa. Corpi che necessitano di cibo e di riparo. Assenti odori, sapori e sensazioni tattili, pulsioni, mal di stomaco e secrezioni. Mi sembra una delle ragioni per cui tanti anziani si riconoscono nelle gesta erotiche del leader della destra piuttosto che in Umberto D. Quel leader propone una prospettiva conviviale e il sogno dell’eros senza scadenze anagrafiche. Assai più che un cibo per saziarsi o un tetto per ripararsi. Perché è difficile desiderare la vita se la vita è solo questo. Non è la prospettiva che Ingrao trovava assente in Umberto D. Ma può essere un contenuto della prospettiva di cambiamento politico di cui Ingrao lamentava l’assenza in De Sica. Sì, dispiacerebbe sia a Berlusconi che ad Ingrao questa spregiudicata connessione. Però a me piace cogliere i tesori e le promesse confuse fra lo sterco. Dobbiamo imparare a separarle ed apprezzarle. Intanto sto leggendo Diario di un corpo di Daniel Pennac. Altra tipologia di realismo. Quanti realismi…Vorrei parlarne.

sabato 17 agosto 2013

Le due Sicilie secondo la 7


Ieri la 7 propone tutto il giorno due Sicilie. Una è quella della spiaggia di Pachino, nella provincia di Siracusa, nel sud est dell’isola. La barca degli immigrati arenata e il popolo dei bagnanti che si tuffa a soccorrere. Anzi due donne scendono in acqua vestite e portano a riva una sorella che viene da lontano. Napolitano si dice molto ammirato. L’altra Sicilia è quella, lontana dalla prima, delle spiagge palermitane con l’accumulo osceno di fresche immondizie del ferragosto. Tutti, a partire dal sindaco Orlando, sono scandalizzati La 7 suggerisce che si tratta di due Sicilie irriducibilmente, antropologicamente diverse. Sono tentato di crederci. Una tentazione municipalistica perché sono nato nella Sicilia che appare tanto generosa. Però non posso diventare superficiale come un leghista. Forse le scene esibite dalla 7 sono invece due momenti della stessa Sicilia, forse della stessa Italia. La Sicilia e l’Italia generosa che, dopo aver soccorso i fratelli dell’altra sponda del mediterraneo, torna tranquillamente ai riti della vacanza e alla pratica distruttiva dell’habitat. Dobbiamo farcene una ragione. Così sono i siciliani, così sono gli umani. Non ci sono due Sicilie e l’uomo è un impasto coeso di generosità e di scelleratezza.

domenica 4 agosto 2013

Guerra civile?


Guerra civile? Gli italiani si dividono come per un colpo di accetta, se si parla di lui. Come ai tempi di Coppi e Bartali. I coppiani e i bartaliani però condividevano gli stessi valori e gli stessi piaceri, con lievi sfumature. Come ora. Tutti a gustare le stesse granite, tutti sui lettini al mare. Qualche volta tiro a indovinare. Che giornale starà leggendo il mio vicino di cui ho letto uno sguardo di ammirazione simile al mio verso il bikini rosso fuoco? Io leggo la Repubblica. Lui starà leggendo Repubblica o il Giornale? Accidenti, sta leggendo il Giornale. Staremo in due eserciti contrapposti nella guerra civile di Bondi, pur amando le stesse granite, lo stesso mare, lo stesso bikini? No, non è come nel mondo arabo, purtroppo diviso su tutto - cibo, alcol, sessualità - dal discrimine "laici" e "integralisti". In Italia solo i miracolati dal berlusconismo, quattro gatti, un milioncino di parassiti al massimo, con Bondi in testa e accanto Daniela Santanché, rischierebbero la guerra civile, tentando di farla combattere alla massaia berlusconiana e al pensionato che ammira tanto Berlusconi perché lui è "maschio". Mi impegnerò a chiarire al pensionato che anch'io, come lui, sono ammirato per quello splendido bikini rosso. Se bisognerà sparare, alla fine spareremo nella stessa direzione. Visualizzazioni: 2

lunedì 29 luglio 2013

Verso la civiltà del cortile


Qual è la nostra casa? Il luogo in cui mangiamo e dormiamo? La città in cui ci riforniamo di beni e servizi? Lo Stato con le leggi che condividiamo? L’Europa? Il mondo? Un po’ tutto questo, ovviamente, ma con diversa (assai diversa) accentuazione e consapevolezza. La crisi economica – temo – sta producendo, fra varie tossine, un ritorno agli spazi esclusivi e ristretti del cortile. Un episodio di ieri. Ad Ostia, nella centrale e “borghese” via Delle Baleniere. E’ una strada relativamente curata e pulita, per gli standard romani e nazionali. Peraltro negozi e boutique contribuiscono al decoro della via, pagando servizi supplementari di pulizia. Verso sera non c’è molta gente. Anch’io, con moglie, mi avvio verso il lungomare ove d’estate si concentra il passeggio. Vicino a noi cammina una coppia matura. E’ un attimo. Sento qualcosa rotolare vicino ai piedi. C’è una signora in abito di casa, davanti all’ingresso di un condominio. Non ho visto il gesto. Ne sono informato dopo. Intanto le proteste veementi di mia moglie. E’ stata sfiorata e forse schizzata un tantino da una coppa di gelato. Insomma, la sconosciuta signora ha trovato la coppetta poggiata sul muretto del condominio ed ha pensato bene di liberare il suo condominio da quell’oltraggio, mediante una manata che trasferiva la cosa indecorosa lontano, verso il marciapiede che evidentemente non sentiva proprio. Mia moglie e i passanti solidali protestano. Io osservo un po’ incredulo, un po’ rassegnato al peggio in arrivo. Sono, come spesso, affascinato dalla capacità degli uomini di mentire a stessi, di trovare giustificazioni anche all’assurdo. “Non l’ho messa io la coppetta sul muretto. Dovevo lasciarla là?” Piccoli indizi della civiltà prossima ventura. Abbiamo già conosciuto nel passato la civiltà degli spazi ristretti, del cortile e della città. Allora aveva un senso. Era ragionevole. Troppo difficile che il volo di una farfalla nella strada o nel paese vicino influisse più di tanto nel nostro cortile. Ma ora? La condomina mi appare l’avanguardia dei nuovi barbari, senza consapevolezza, rinchiusi nei propri recinti, ottusamente convinti delle loro ragioni. Nei cortili esclusivi e contrapposti che rischiano di essere spazzati via tutti insieme da forze incomprensibili, dal micidiale volo di una farfalla.

sabato 27 luglio 2013

Invece del lavoro


Lo classificherei come un esempio di turismo low cost, abbondantemente oltre i confini del lecito. Oppure della versione giovanile del tirare a campare, dei percettori irregolari di reddito, esclusi dal lavoro produttivo, forse non meno numerosi degli inoccupati. Entro nel bar dello stabilimento balneare e assisto a una scenata impietosa dell'anziana titolare che sta alla cassa. Lui è un giovane saccopelista che, mogio mogio, sorseggia un caffè. Non so come faccia a goderselo. Lei inveisce e lui continua a scusarsi: "le ho chiesto scusa, le ho chiesto scusa". Insomma - capisco dall'invettiva implacabile della titolare - lui ha provato a fregarla asserendo di averle dato un biglietto da 10 euro. Invece era da 5 e lui lo sapeva bene. Perciò non c'è nulla da scusare. Purtroppo credo alla signora. Un po' perché la conosco, ma anche per l'atteggiamento del giovane, tipico di chi è preso con le mani nel sacco. E mentre la politica discute di nulla, tanti, troppi, sempre più sopravvivono rubacchiando nei supermercati, se donne o anziani, lavando vetri o tentando di vendere oggetti orribili e inutili alla gente al mare, se giovani e "abbronzati", esercitando piccoli tentativi di imbroglio, se giovani saccopelisti. La base autenticamente produttiva sempre più ristretta e insofferente alla pressione fiscale, non percepisce come tassa occulta il mantenimento di chi tira a campare. Del resto nel litorale di Ostia ripetutamente incendiato dal racket ci si lagna del rischio dell'incremento dell'1 % di IVA ma mai dell'esproprio progressivo attuato dai clan mafiosi. L'Italia in compenso si assomiglia sempre più. Tanto tempo fa mi sconvolse in Sicilia sentire un venditore di preziosi, intervistato sul pizzo, affermare: "Il peggiore estortore è lo Stato". Prova di viltà assoluta di chi, abituato a subire soprusi, finge (a se stesso) di pensare che è meglio pagare la mafia piuttosto che tasse, scuole e ospedali. Coraggio quindi ai pochi lavoratori veri sopravvissuti. Dovranno lavorare per figli, genitori, mafiosi, venditori di cianfrusaglie e giovani turisti low cost. Però, forse, non pagheranno l'Imu.

sabato 20 luglio 2013

Qual è la normalità?


Da cinque anni a Ostia, lontano dalla Sicilia in cui ho vissuto una vita, mi capita di stupirmi di piccole cose e poi chiedermi se ciò che è nuovo e mi stupisce dipende dal nuovo ambiente o dai cinque anni passati o eventualmente dal fatto che sono cambiato io. E non so proprio rispondere. Se cammino sul marciapiede non succede mai che chi mi viene di fronte - persona o gruppo - si sposti un tantino. E' sempre occupato con qualcosa, mangiare una fetta di pizza, consultare un Ipad o chiacchierare o anche niente, un niente che pare non gli consenta di vedermi. A volte - di fronte a gruppi numerosi - debbo aggirare l'ostacolo scendendo dal marciapiedi. Grande convivialità ma rigorosamente circoscritta al gruppo. Non ho ricordi simili per la Sicilia. Devo stare attento a non operare frettolose deduzione. Forse semplicemente allora mi capitava raramente di passeggiare. Forse. Ma l'altra sera ero a Torvaianica. Sapete quell'orrore edilizio che fa apparire piacevole la maggior parte degli orrori perpetrati sulle coste calabresi e siciliane dove mafia e 'ndrangheta decidono. Attraversavo la strada principale sulle strisce con moglie e una coppia romana. Vedo arrivare un Suv. C'è piena luce e la strada è diritta. Continuo ad attraversare con totale fiducia. Ma il conducente deve avere un'urgenza del diavolo. Sembra addirittura accelerare. E sì, accelera per fare in tempo a superarci a destra senza falciarci. Solo sfiorandoci. Mentre io faccio spallucce, stimolato a farmi le mie oziose domande sul mondo, il mio amico romano urla romanissime imprecazioni. L'indomani a Ostia, dopo un paio d'ore di ozio sulla spiaggia libera, prima di salire in auto, mi dirigo verso la fontanella pubblica per non portare sabbia a casa. Venditori di cocco asiatici mi mettono in imbarazzo, scusandosi se mi faranno aspettare pochi secondi per rinfrescare la loro merce. Mi imbarazzano come se si sentissero ospiti sgraditi nel pianeta Italia. Sicché io cerco di sorridere il più possibile e di rassicurarli. Quando tocca a me, ho appena immerso un piede sotto la fontana che una signora con una bottiglietta da 1/4 semivuota, mi chiede se non posso farle riempire il suo recipiente. Ritiro il piede. Perplesso, però lo ritiro. Ricomincio. No. Arriva un'altra signora. Lei è più "collaborativa" della prima, diciamo così. Mi chiede di potersi lavare le mani. "Ma non si disturbi - precisa - lei continui pure". Ovvero dovrei lavare il mie piede con l'acqua che ha lavato le mani della sconosciuta signora. Invece dico "prego" e ritiro il piede. A me stesso dico tutto e il contrario di tutto. Mi dico che sono un igienista maniaco e, in contraddizione con i miei principi ecologici, uno sperperatore di acqua. Però la fontanella per la verità - come spesso a Roma - è sempre aperta. Mi dico che le signora esprime la promiscuità romana cui io non sono abituato. Non riesco ad escludere d'altra parte che la signora o una delle due signore sia la stessa che al supermercato mi ha chiesto di saltarmi alla cassa perché lei aveva solo due pacchetti e io tre. E che magari sia moglie o sorella di quell'impavido autista di Suv di Torvaianica. Confronto anche il comportamento dei romani con quello degli asiatici venditori di cocco. Differenze culturali nei quali romani e italiani sarebbero soccombenti. Così sono a posto almeno con la coscienza di democratico, aperto alle culture immigrate. Purtroppo stamattina, ancora alla fontana, una famigliola, una coppia con bambino, asiatica - Bangladesh probabilmente - devasta la mia sistematizzazione, il mio tentativo di mettere ordine nella mente, classificare e capire. C'è mia moglie col piede alla fontana. Lui chiede di aggiungere il suo piede a quello di mia moglie. Intanto il bambino la pressa e quasi le si infila sotto la gonna. Mia moglie sarà pure più a sinistra di me, ma è un po' meno comprensiva di me. Infatti sbotta: "E aspetti...". Non è finita. L'uomo è chiaramente disturbato dal fatto che della fontanella ho bisogno anch'io. Anche se sono velocissimo. Non più di quindici secondi. In crisi le spiegazioni culturali/razziali etc. Forse lo spirito dei tempi. Il mondo un circuito in cui superarsi, senza regole, come nella corsa di bighe di Ben Hur. Non solo e non tanto un mondo degli egoismi, non nell'accezione banale del tornaconto materiale. Non credo che la signora, l'asiatico, l'autista di Suv avessero cose urgenti da fare. Semplicemente dovevano dimostrare a se stessi di poter prevalere, superare precedenze e regole e dare così un senso -immagino - alla vita.

mercoledì 3 luglio 2013

Diario di un viaggio a casa mia: quello che resta e quello che muore


Ogni anno a giugno, per due settimane, il pellegrinaggio in Sicilia. Nella mia Sicilia, sempre meno “mia” e in ultima analisi mai “mia”. Visita doverosa, con moglie, a mamma e suocera. Visita al dolore cui non si porta rimedio. Visita alle istituzioni inventate per contenere vecchiaia, malattia e abbandono: la casa di riposo, la badante. Il muro è caduto anche per questo, perché avessimo badanti a prezzo accessibile. Nella casa di riposo un campionario incredibile di sofferenze, fisiche, mentali e di abbandoni. Lo dico subito: il pellegrinaggio annuale in Sicilia mi allontana radicalmente dalla politica e dalle sue priorità. Ventimila posti di lavoro che saranno contesi da milioni di giovani, il rimando dell’Iva per tre mesi o forse per sei, Renzi o Cuperlo. Cosa dovrebbe appassionarmi? Con gli anni (diciamo pure invecchiando) divento più “radicale”. Nel senso di sentirmi sempre più fuori posto. L’autostrada da Catania a Siracusa mi imbuca in orride gallerie che escludono dal paesaggio. Non saprei dove e come trovare il punto di ristoro in cui si consumava la pagnotta calda condita con olio, sale e origano. Rivedo la mia città e cerco inutilmente di provare emozioni. Poco è cambiato. Ogni tanto un viso che indovino essere un viso incontrato venti anni fa. Qualcosa è peggiorato. Entro nel parcheggio “Talete” sul porto piccolo, un mostro immane di cemento. Il parcheggio è buio, deserto e devastato dalle immondizie. Gli scarti umani vi trovano riparo la notte. Sono andato a trovare un amico già compagno di militanza nel Pci (ora con Diliberto). Lui riaccompagna me e mia moglie al parcheggio, con fare protettivo. Incontro un altro amico, anch’egli vecchio compagno di militanza (ora con Ferrero) nell’agriturismo di cui si occupa, malgrado gli esiti di un ictus. Poi incontro per la pizza annuale gli ex colleghi di lavoro, sempre di meno. Consumiamo il rito della pizza sulle colline circostanti Siracusa presso il Castello Eurialo, baluardo delle fortificazioni nord, inespugnabile, eppure espugnato dall’esercito romano (212 A.C.), malgrado le geniali tecnologie belliche di Archimede, grazie “al tradimento di alcuni siracusani”, come tiene a dire sempre il custode. Lì, in pizzeria, almeno ho il piacere dell’incontro con Laura. Ha voluto incontrarmi, dopo 15 anni. Voleva ringraziarmi perché con lei il mio lavoro di “orientatore” era stato proficuo. L’avevo anche aiutata a superare le resistenze dei genitori per un corso di studi lontano da casa. Poi incontro per una granita di mandorla Marina che da brillantissima precaria collaborava con me e che ora è più precaria e insicura di prima. Nel frattempo il candidato Garozzo, renziano, sostenuto dal PD, dalla sinistra, ma anche (non esplicitamente) da pezzi di destra (a partire da Stefania Prestigiacomo) stravince al ballottaggio. Grande regista il boss Gino Foti, ex Msi, ex DC, ora esponente di spicco del Partito democratico. Si prepara la cementificazione del porto (a cura di Caltagirone) con alberghi in mezzo al mare, immagino in stile Dubai, presso le acque in cui la flotta ateniese fu distrutta (412 A.C.) durante la guerra del Peleponneso. Dimentico pure di visitare le latomie dei cappuccini, le cave di pietra in cui furono imprigionati i superstiti dell’esercito ateniese. Avevo promesso a me stesso di rivederle finalmente, anni dopo la riapertura al pubblico . Lì, incredibilmente, in uno scenario infinitamente più suggestivo rispetto ad ogni evento ospitato, da studente avevo recitato I sepolcri di Foscolo e l’ Adelchi di Manzoni. Voglio ricordarlo. Nell’ Adelchi, dopo “S’ode a destra uno squillo di tromba”, “ “A sinistra risponde uno squillo”, avrei dovuto entrare in scena con “D’ambo i lati calpesto rimbomba da cavalli e da fanti il terren”. Ma gli studenti/attori eravamo dispersi in un back stage fra rocce e piante profumate, lontani dal palcoscenico. Ed io ero preso da Rita, minuta e perfetta, che corteggiavo nelle modalità impacciate dei primissimi anni ’60. Insomma miracolosamente sentii il finire della seconda battuta “da cavalli e da fanti il terren”. Nessuno mi aveva detto di preparami. Piantai in asso Rita, cominciando a gridare la mia parte fuori scena, entrando sul palcoscenico più o meno sull’ultima sillaba, stremato. Molto efficace però, al di là delle intenzioni. Perché mi sono dimenticato delle latomie? Forse perché, pur passandoci accanto per comprare i dolci di mandorla, il nuovo assetto urbanistico, con rotatorie e altre diavolerie, mi ha fatto dimenticare dov’ero. O forse ho voluto dimenticare per paura della delusione conseguente al ritorno. Niente altro per due settimane. Sicché decido di verificare almeno se ci sia in Sicilia una Sicilia che mi sembri Sicilia. Decido di cercarla sulle piste di Montalbano. Anche perché è il percorso più vicino alla mia Siracusa. Il barocco ragusano, il mare ragusano, la campagna ragusana. Tutto un po’ meno devastato dall’omologazione del petrolchimico, delle inutili gallerie di cemento, della seconda orribile casa per tutti. Fino a Puntasecca che le insegne annunciano subito con riferimento al commissario. Faccio la mia stupida foto davanti alla terrazza sul mare di Montalbano. Come fanno altri turisti montalbaniani. Rinuncio al bagno perché lì di fronte all’Africa la giornata è troppo ventosa. Poi consumo il mio arancino nel locale di fronte intitolato (guarda caso…) “Gli arancini di Montalbano”. Al ritorno percorro la costa sud verso est in direzione Pachino e Marzamemi (gradevole borgo ed ex tonnara). Faccio le mie provviste di pomodorino secco e di bottarga di tonno. La “vacanza” è finita. Mi aspetta la mia Ostia e la dieta opportuna dopo due settimane di peperoni arrostiti alla brace, granite di mandorla e dolci di ricotta in tutte le varianti possibili (frittelle, cannoli, cassate e cassatine) quel che resta diverso e locale, risparmiato dall’implacabile ed estraneante globalizzazione.