sabato 31 agosto 2013

Quanto costa un senatore a vita, quanto costa Berlusconi


Molte critiche a Napolitano per la nomina dei quattro senatori a vita. Critiche soprattutto da destra, ovviamente, ma qualcuna anche da sinistra. Specificamente da destra la critica alla parzialità delle scelte. Si comincia col dire che sono eccellenti ma poi si aggiunge che sarebbero state possibili scelte diverse e politicamente più equilibrate: Zeffirelli, Muti, etc. Probabilmente sì anche se è indubitabile che la cultura, la scienza e l’arte stanno un tantino più a sinistra che a destra e che in quell’area di sinistra è più facile scegliere. Ieri a In Onda (la 7) lo affermava nettamente Gomes, ma lo confermava da altri versanti, Ventura e addirittura Belpietro. Con la chiosa di una alleanza interessata fra sinistra e cultura (uno scambio di favori). Ma tant’è : la dislocazione della cultura a sinistra è un fatto come è un fatto la dislocazione a destra degli uomini di spettacolo più popolari e seduttivi, a partire da quel Mike Bongiorno – ricordava Gomes – che Berlusconi avrebbe voluto senatore a vita. Insomma – riassumerei – a ciascuno la sua dote. E quella della destra apparentemente apolitica di Bongiorno, De Filippi, etc. infine pesa sulle opinioni e –per vie indirette – sulla politica un po’ più che quattro senatori a vita. C’è poi il sospetto – ragionevole – che le nomine servano a rafforzare un presunto Letta bis con altra maggioranza deberlusconizzata. Può darsi. Embè? Le precedenti nomine nella storia della Repubblica erano nomine asettiche e libere da ogni disegno? Ne dubito. La nomina dei senatori a vita è un istituto monarchico, un residuo difficilmente compatibile con la democrazia, come tanti ritengono? Lo si sostiene anche a sinistra; oggi Lerner sul suo blog, ad esempio. Tento una mia risposta. Per me solo una concezione piatta e banale di democrazia giustifica l’opposizione di principio alle nomine. Per me la concezione più banale e piatta fra tutte è quella della democrazia diretta. I suoi esiti spessissimo sono tali che: o i votanti si pentono del voto espresso o il popolo si dissolve in una frantumazione di tesi che occulti manipolatori hanno messo sul tappeto. Una democrazia compiutamente diretta insomma implicherebbe maggioranze quotidianamente variabili e una politica dell’avanti/indietro permanente. Così accadrebbe in partiti e movimenti. Se non ci fosse il “più eguale degli altri” (Grillo, ad esempio) ad attaccare e staccare l’interruttore del web. Così – quel che è peggio – accadrebbe nello Stato. La rappresentanza – fino a prova contraria –continua ad essere il punto di equilibrio fra volontà popolari molteplici e variabili. Si ipotizza – fondatamente, malgrado alcuni momenti quale quello attuale sembrino dimostrare quasi il contrario - che i rappresentanti del popolo non siano meri portavoce ma interpreti chiamati a dar sintesi e coerenza al frastagliato/incoerente. Permane comunque la minaccia dell’argomento platonico: ti affideresti a un timoniere scelto dal popolo o lo vorresti scelto da altri esperti timonieri? L’obiezione democratica è che il timoniere scelto dai timonieri posto di fronte alla scelta sacrificherebbe i passeggeri (il popolo) per salvare i propri elettori. Non si esce mai davvero dai dilemmi drammatici. Si sceglie di tagliare il nodo, sapendo che così non lo si è sciolto. Perché non si può. Il popolo non avrebbe mai scelto gli ultimi senatori a vita. Non sarebbe venuto in mente di candidarli. Se si fossero candidati in libere elezioni (che oggi non ci sono) non avrebbero prevalso su una Santanché e neanche su uno Scilipoti. Insomma la loro nomina appare un correttivo – modesto, ma comunque valido come pro-memoria – alla volontà popolare senza mediazioni. Il Presidente eletto dai rappresentanti del popolo, nomina. In qualche modo il popolo nomina. In attesa che la forbice fra rappresentanti e rappresentati si stringa e che il popolo spontaneamente dibatta se sia Muti o Abbado ad onorare meglio la Patria. Che questo un giorno possa avvenire a me sembra la giusta scommessa di una democrazia radicale. Un giorno. Oggi – prendiamone atto – il popolo non ha preso a calci quei Tizi seducenti che hanno chiesto quanto costerà allo Stato la ipoteticamente lunghissima permanenza al Senato della troppo giovane ricercatrice (51 anni). Io, da matematicamente sprovveduto, non ho neanche capito quale sia la differenza di costo fra 50 anni di stipendio per una giovane o di 25 anni per 2 meno giovani destinati l’uno a subentrare all’altro. E’ un fatto però che segnala l’egemonia culturale di una destra, pur povera di intellettuali, che oggi i blog, oltre che i giornali del perseguitato, siano piene di contumelie per lo spreco di denaro pubblico che le nomine senatoriali comportano. Nell’economia della brava massaia questo è un costo. Non è un costo l’evasione fiscale del padrone di Mediaset. Ancora più difficile spiegare ovviamente il costo connesso a quella operazione criminale che ha potuto costruire fondi per comprare pezzi di Parlamento, già riempito di odalische e analfabeti.

giovedì 29 agosto 2013

A proposito di Pennac, del corpo e della politica


Realismo: cioè? La storia e l’arte si sono occupate quasi sempre dell’eccezionale: uomini e donne eccezionali che cambiano il mondo, uomini e donne che vivono eventi eccezionali. La storiografia più recente – quella degli Annales, ad esempio – scoprì che la storia non è fatta da uomini o eventi eccezionali, bensì da onde lunghe costituite dalla geografia, dai mutamenti climatici, dalla cultura materiale (del cibo, del sesso, etc.). Rispetto a ciò gli uomini e gli eventi eccezionali sono increspature di onda. La letteratura e il cinema –verismo, neorealismo – scoprirono poi a loro volta il significato e/o la bellezza del quotidiano. Le nostre strade non sono affollate né da Antigone, né da fratelli Karamazov, né ci capita facilmente di tramutarci in un insetto come capita a Gregor ne La metamorfosi di Kafka. Verismo e neorealismo tentarono di interpretare il significato della vita di masse anonime. D sciuscià, di pensionati e di ladri di biciclette. Ma realismo ha altri significati possibili. La maggior parte del tempo degli uomini eccezionali come di quelli normali è speso ad occuparsi del proprio corpo. Il realismo, nelle sue varie declinazioni, si occupa pochissimo della maggior parte del tempo umano. Fa astrazione del tempo speso nel sonno. Fa astrazione del tempo speso nel bagno, fa astrazione del tempo speso a grattarsi, etc. Ritiene di non poter dire nulla di interessante o di emozionante (esteticamente significativo) al riguardo. Ritiene che invaderebbe inutilmente, morbosamente, quella sfera che è considerata intima (interna, segreta, non pubblica). La domanda è se invece possa essere utile o emozionante invadere quella dimensione. La risposta è stata positiva con tutta evidenza per ciò che attiene la sfera sessuale e il genere porno, perifrasi dell’oggetto anatomico. Anche questo genere comunque è mera astrazione. Prescinde da storia e sentimenti e anche dalle sensazioni che la cinepresa e la scrittura, nel porno come nella descrizione anatomica, non possono rappresentare. Insomma qualunque realismo è comunque astrazione, scegliendo un punto di vista che obbliga ad escluderne altri. Il corpo chimico, il corpo chimico, etc. Attorno a realismo quindi, qualunque realismo, immaginiamo sempre le virgolette. Ma parliamo ora di “realismo” del corpo. Di cosa parliamo quando diciamo io, tu, lui, noi, voi, loro? Sono triste, sei felice, è impegnato, siamo attratti, siete respinti, sono sperduti. Le parole che spendiamo nella vita quotidiana parlano pochissimo del corpo come membra e come organi. Quelle dell’arte quasi mai. Parliamo di noi al più parlando dell’intero corpo, dell’intera persona che si sposta, si commuove, vive, muore. Se però, soli con noi stessi, pensiamo, allora pensiamo al braccio destro, al piede sinistro, al fegato a ciò che ci fa male, o ci produce piacere. Quindi, in tal senso, l’arte è sempre lontana dalla realtà o dal realismo o anche da ciò che occupa il maggior spazio della nostra mente. Un altro realismo Daniel Pennac ha tentato l’intentato. Storia di un corpo è la storia del protagonista, dalla età di 12 anni fino alla fine. Storia della sua evoluzione. Storia di sensazioni tattili, di odori, sapori, rumori corporali. L’autore immagina di redigere un diario del proprio corpo, diario da destinare, dopo morto, alla figlia. Il diario dimostra – lo dico subito – che è impossibile parlare del proprio corpo a prescindere dalla propria mente. La mente seleziona, connette e dà senso agli eventi del corpo. Pennac non può infatti a prescindere dalla narrazione della propria rete affettiva, della propria carriera professionale e politica. Dalla Tata indimenticabile che gli insegna come fare pipì e di cui non scorderà mai l’odore del corpo o i colori/sapori/profumi della colazione, alla iniziazione sessuale, dono della compagna partigiana, al rapporto con una giovanissima collaboratrice che all’età di 73 anni gli segnala l’impensata possibilità di riscatto di un corpo provato e ritenuto impotente etc. Diciamo che in tali narrazioni il corpo è l’interlocutore del protagonista, la sorgente e il terminale delle sue emozioni. Sicché ad esempio la paura non è solo enunciata come tale ma è lo strizzamento dei testicoli. E la vecchiaia è il deteriorarsi della pelle e la difficolta di minzione. La storia del corpo è storia di secrezioni. E’ storia dell’intimità che l’arte stenta a dipingere: le deiezioni più degli orgasmi e della “materia” del sesso. Anche quelle comunque non come un trattato di clinica, ma sempre, necessariamente per le rappresentazioni mentali che le accompagnano. Mi sono chiesto se l’autore non abbia avuto tabu. Mi sono risposto che li ha avuti. Descrive le caratteristiche delle proprie feci, con digressioni che includono lo scopino da water, descrive l’imbrattamento da sperma, descrive il nipotino sorpreso a masturbarsi. Il pudore però vince riguardo la descrizione della donna amata. Nulla sappiamo in dettaglio del suo corpo. Sappiamo della sua andatura. Apprendiamo il particolare tenero che l’autore non avrebbe rimediato allo spazio angusto fra la porta del suo studio e la libreria perché questo costringeva la sua donna a quel movimento che lui ha ammirato per decenni. L’attenzione ai discorsi del corpo consente a Pennac di individuare la genesi delle nostre credenze e dei nostri pre-giudizi. Così riguardo il corpo femminile l’autore giunge a ipotizzare che lo scherno maschile sul ciclo, diversamente incomprensibile, sia la ripicca per un senso di inferiorità inconfessato. Il maschio ritiene che il ciclo sia purificatore e che tale purificazione sia preclusa ai maschi. E ritiene altresì che “regole” sia termine che allude al rapporto privilegiato femminile con la natura. Anche su questo, per inciso, rivelatrice del nesso corpo/mente la semplicità con cui il protagonista accenna al fatto che il ciclo non abbia mai interferito nella sua pratica sessuale con la compagna. Lo dice proprio e solo riguardo la compagna, un corpo non confrontabile con altri corpi. Altri parlerebbero, semplicemente o grossolanamente, di amore. L’eros ha gran parte nel romanzo di Pennac. E’ meritoriamente un eros pervasivo quello del romanzo. Dico meritoriamente perché guarda a ciò che è frequente più che a quello che è eccezionale. E’ meritorio voglio dire esplicitare la dimensione erotica di uno shampoo praticato da mani femminili. Un eros democratico – per così dire – che accompagna la vita di tutti ben al di là delle pratiche certificate come sessuali e di quel fenomeno chiamato amore che riempie cinema e letteratura moderni. L’interrogarsi sul corpo e le emozioni altrui, senza l’impaccio dei pregiudizi, consente all’autore la scoperta più intima del punto di vista omosessuale. L’apertura consente scoperte altrimenti impossibili. Così il protagonista può ricevere dal prediletto nipote, omosessuale, la deliziosa lezione: Vi interrogate sempre su chi sia “attivo” o “passivo” nel rapporto omosessuale, ma non capite il vantaggio di un rapporto fra eguali che sanno come dare quello che hanno appena ricevuto; questo è precluso alle coppie eterosessuali. Sì, mi accorgo che ricorro a perifrasi. Non sono Pennac e non mi sento autorizzato a nominare le cose con il nome che diamo loro quando le pensiamo. La politica del corpo L’ultima domanda che mi faccio è questa: al di là dell’emozione estetica, sarebbe utile – pragmaticamente utile, politicamente utile – un’arte che recuperi il giacimento inesplorato della coabitazione col nostro corpo? La mia risposta è sì. Penso che la rappresentazione della sofferenza di una vescica piena nel centro inospitale di Roma, privo di toilette pubbliche e dove, arrivati al bar e consumato il caffè, si trova l’avviso “toilette guasta” possa accompagnarsi nelle antologie del dolore all’evento luttuoso o ad un abbandono. E concorrere ad una politica dei servizi pubblici. Allo stesso modo ”sentire” la sessualità gay, anche nei suoi presupposti fisiologici, darebbe concretezza e vigore nella lotta contro l’omofobia e contro l’amputazione delle potenzialità erotiche dell’uomo. E “sentire” mentre si è politicamente attivi, la fatica del salire le scale o la perdita del respiro suggerirebbe urgenze sulla libertà di morire ben più pressanti dell’Imu ed ora compresse dal malinteso pudore. Ecco, da questo “realismo” la politica può riacquistare senso. Non dallo pseudo realismo della politica politicante.

lunedì 26 agosto 2013

Leader da inventare, leader da consumare


Una volta i leader avevano vita lunga. Occupavano la scena, a destra, sinistra e centro quasi sempre per la durata della loro vita. Si contendevano uno spazio, un passettino avanti, uno indietro, un altro avanti. Perdevano la segreteria del partito e acquisivano la premiership di governo oppure diventavano capicorrente. Se uscivano di scena, questo avveniva morbidamente. De Gasperi, Togliatti, Nenni, Andreotti, Malagodi, La Malfa. Una volta. Erano sintesi stabili degli orientamenti. Ora elenco: Fini, Bossi, Di Pietro, Ingroia, Monti. Di quale malattia si sono ammalati? Scomparso Fini. Una drammatica evoluzione, da Fiuggi al ripudio drastico del fascismo, al “che fai mi cacci?” rivolto impavidamente al padrone d’Italia in una platea servile e ostile. Futuro e libertà fra musica, canti e oratoria del bravo Barbareschi (che poi avvedutamente cambia idea). Apertura ai gay, agli immigrati. Dimenticato il ruolo opaco nei massacri di Genova 2001. Vezzeggiato dalla sinistra. Poi la casa a Montecarlo, l’alleanza con Monti. E la fine. Bossi, grande aggregatore dello scontento del nord. Operai, artigiani, piccoli imprenditori tutti insieme contro il capro espiatorio del Sud e dell’immigrato perché c’è sempre oggi nel leader innanzitutto l’esigenza che sia definito il nemico. Assai meno i risultati attesi dalla sua leadership. Peraltro nella seconda Repubblica la costituzione materiale dice che tutto è permesso se il popolo (una frazione compatta di popolo) lo vuole. Si possono minacciare sollevamenti, fucilate e cannoneggiamenti, come il buon Bossi ha fatto. Chi si azzarderà a minacciare processi? La viltà, non il coraggio, suggerisce che l’avversario sia battuto politicamente, non nei tribunali. L’alibi per l’impotenza. E poiché l’avversario trionfa in una partita a carte truccate, il suggerimento implicito è di subire o di accettare una corsa ad handicap in cui è impossibile vincere. Ma i leader si sconfiggono da se stessi. Ad esempio col il consueto voler troppo. Sistemare, ad esempio, moglie e figli secondo l’odiato costume sudista. Indifendibile. E la fine. Di Pietro, protagonista assoluto di Mani pulite, inquisitore di Craxi. Poi politico rozzamente efficace. Vero antagonista assoluto del padrone d’Italia cui non ha mai concesso sconti. Foto di Vasto, da vincitore. Poi ancora Report, Gabanelli con storie di case e conti confusi fra partito e famiglia. E la fine. Ingroia, idolo del popolo viola e dei militanti della legalità. Incarico in Guatemala. Ritorno in Italia come leader di Rivoluzione civica. Flop. Ridicolizzato da Crozza che non perdona. L’indolenza dolente e la sconfitta. E la fine. Monti, salvatore della patria. Novello Cincinnato lascia l’università, chiamato da Napolitano. E’ scontato: sarà Presidente della Repubblica se ascolta i consigli di Napolitano. Ma non li ascolta. Un disastro elettorale. E la fine. Credo che oggi, più di prima, un leader nasca un po’ per caso. Un mix di talento e di caso. Fra cento o mille leader potenziali ed equivalenti il caso decide. Era nelle cose, possibile ma non fatale, che l’Italia avversa alle regole trovasse un suo leader contro la “gioiosa macchina di guerra” di Occhetto. L’oscuro imprenditore di Arcore prima aveva trovato, con l’aiuto di consulenti e stallieri le risorse economiche, poi per caso incontrò Craxi e il decreto che gli consegnò il potere smisurato di proporre la nuova pedagogia televisiva e di conquistare il cuore di massaie e pensionati, enorme esercito inconsapevolmente al servizio di elusori, trafficanti, frequentatori dei riti del Billionarie. Quindi il pupazzo di neve fu completato col cappello degli intellettuali “eccedenti” nella sinistra che invece nella nuova destra trovarono spazi e retribuzioni impensati. Una forza economica capace di comprare qualsiasi cosa: giovinezza, bellezza, parlamentari. Una valanga nata da un fiocco di neve. Non è diversa la genesi della leadership dell’oppositore di Berlusconi, oppositore di tutto, Beppe Grillo. Certamente irriducibilmente diversi i valori e gli obiettivi. Non diverso il ruolo del caso e, per altri versi, della TV, inventore di leader. Non dal nulla, anche qui, ma privilegiando uno fra cento o fra mille. Un comico di ottima cultura e di buone letture che casualmente incontra un praticone del web e, nella distrazione generale, forse a sua stessa insaputa, occupa uno spazio deserto da cui arringa i piccoli imprenditori delusi, i precari sovra-istruiti, il popolo avverso alle caste. Qui la narrazione vincente è giocata sull’assenza/presenza. Mai presente nei talk show della TV sdegnata, sempre presente e garante di share per la TV che cerca personaggi. Infine l’attraversamento dello stretto vale dieci volte un’apparizione di Berlusconi a rete unificate. Così due Italie hanno trovato i loro campioni. La terza Italia, quella che non amava gli uomini soli al comando è vinta e persuasa. Sarà leader anche qui chi trova un bersaglio attraente e mobilitante. Renzi lo trova nell’apparato del partito. Per la prima volta nella storia del Pci- Ds- Pds- Pd o in quella Dc, Ppi, Margherita, Pd, si può dire “loro”, “voi”, alludendo agli avversari dentro il partito. Anzi si deve dire per vincere. I democratici ora sanno l’essenziale: contro chi sta. Sta contro l’apparato. Il fronte avversario si sfalda. Paradossalmente i rottamati, quelli che lui ha rottamato, passano dalla sua parte. Prima Veltroni e seguito. Poi anche l’ultimo esponente della vecchia Italia e del vecchio PD politicante, Massimo D’Alema, si arrende: sia Renzi il leader. Ah, dimenticavo, vengo anch’io: sia Renzi il leader.

mercoledì 21 agosto 2013

La nostra epoca pacifica


Sulla spiaggia una donna matura se ne sta sdraiata con le palme delle mani sollevate e aperte verso il sole. Posizione yoga o posizione per abbronzare le palme? Sorrido da impenitente scettico. A casa seguo un tantino il tg2. Fra le varie cronache di orrore c'è quella, che viene dalla Germania, di quel tale che fa strage in una riunione di condominio perché - immagino - è inaccettabile che gli altri la pensino diversamente da te. Poi c'è quella, che viene dagli Usa, dei tre ragazzini che sparano, uccidendolo, ad un coetaneo sconosciuto che faceva jogging. Confessano: "non sapevamo che fare". Rivaluto l'innocente mania della signora con le palme rivolte al sole. Andiamo avanti, voltando pagina davanti ad ogni orrore. E' stato detto autorevolmente che questa è l'epoca più pacifica che il mondo abbia conosciuto. Aggiungerei: "e la più stupida". Mai - mi pare - la violenza è stata più gratuita e sciocca di oggi. Se la politica non si interroga su questo, di che diavolo si occupa allora?

martedì 20 agosto 2013

Ecce bombo: un po' divagando


Rivisto ieri su Rai 3 Ecce Bombo, del primo Nanni Moretti. Il regista diceva di se stesso e della sua generazione, narrandone i riti e le elaborazioni senza sbocco. I riti delle radio libere, delle sedute di autocoscienza, dell’amore più o meno libero. Dopodiché non avvenne nulla di liberatorio. La scena fu invece occupata dal terrorismo. Dai suoi riti cruenti. La finzione e l’autoinganno. Fingere di credere che dall’assassinare i migliori scaturisse la salvezza dell’umanità. Il film è del 78, l’anno del sequestro Moro. Dai riti innocenti e vacui dell’autocoscienza ai riti altrettanto vacui e però criminali dei processi rivoluzionari. Perché spesso, innocentemente, dal banale nasce l’orrore. Ecce bombo non mostra i protagonisti del terrorismo. Mostra i giovani rivoluzionari Minzolini e Mughini. Conosciamo l’esito di quelle storie. Una intera generazione “intellettuale” perduta fra le sirene del terrorismo e, dopo, da quelle del populismo padronale che fece incetta di intellettuali sul mercato. Perciò non è del tutto indifferente vedere il film allora o oggi. C’è in Ecce Bombo un mix ambiguo di autocritica e di autocompiacimento. “Faccio cose, vedo gente”. L’autocritica nella forma di evidente metafora esplode nell’episodio della gita notturna ad Ostia in attesa dell’alba. E l’alba che spunta alle spalle dei disorientati aspiranti rivoluzionari. Con altrettanta evidenza e con inusitata violenza c’è invece l’esibizione di un bersaglio pretestuoso. E lì c’è il Moretti che non mi piace affatto. Perché il bersaglio – pensate - è Alberto Sordi. Nel bar ci sono le solite chiacchere da bar e qualcuno dice le solite banalità “rossi e neri tutti eguali”. L’interprete di Ecce Bombo ovvero Nanni Moretti attore, ma anche Nanni Moretti autore, insorge: “Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?” urla più volte. Qui io credo ad un corto circuito dell’intellettuale che pensa sia dovere dell’intellettuale affermare il contrario di ciò che appare. Sordi è stato interprete dei vizi degli italiani. I suoi registi lo hanno usato a tale scopo. Beh, a me pare che quasi sempre al pubblico è stato chiaro che Sordi non era l’italiano gaglioffo che interpretava. No, non butterei a mare ne il Sordi di Monicelli de La Grande Guerra o di Un borghese piccolo piccolo né quello che forse ho preferito di Una vita difficile di Risi. Inviterei invece gli intellettuali di professione a prendere atto che l’intelligenza non è loro monopolio. Talvolta la cuoca vede più lontano. E vede più lontano l’oscuro Massimiliano Bruno, regista della gradevole commediola di un paio di anni fa, Nessuno mi più giudicare. L’oscuro regista infatti punisce Moretti con un calco geniale della sua scena. Stavolta è Rocco Papaleo ad aggredire l’avventore del bar colpevole di dire cose di sinistra, banalmente di sinistra: “Ma che siamo in un film di Nanni Moretti?”. Giustizia è fatta.

lunedì 19 agosto 2013

L'imprevista attualità di Umberto D


Si dice che il prodotto dell’arte sia sempre attuale. E’ un po’ vero. Resta intatta la capacità di emozionare. Talvolta però persiste attuale la storia, la narrazione, non solo l’emozione. Così mi capita di pensare rivedendo Umberto D, il capolavoro neorealistico del '52 di De Sica, sceneggiato da Zavattini. L’emozione, il colore emotivo del film è nella solitudine opprimente e senza speranza del pensionato. La materia, la storia è nella fatica quotidiana di sopravvivere, trovare un pasto e un tetto. Una materia che ci sembrava datata. Dopo Umberto D ci fu lo sviluppo e il miracolo economico. Per anni abbiamo creduto che tutto sarebbe stato sempre più facile. Il lavoro, la pensione, la sicurezza. Avremmo potuto archiviare Umberto D nel cassetto dei classici, delle emozioni estetiche, nel vasto repertorio del come eravamo . Non è andata così. Umberto D è un anonimo ex impiegato ministeriale, pensionato che nell’Italia in ricostruzione dei primi anni ‘50 indossa gli abiti dignitosissimi e formali di chi una volta era integrato. Ma ora, senza famiglia e senza più lavoro, c’è il deserto delle relazioni insieme alla fatica di sopravvivere. Il cibo nelle mense preposte alla carità. Il tetto in una stanza in affitto che è sempre più difficile pagare. Flaik, il cane che lo accompagna, è il solo vero affetto, quello che lo dissuaderà dal concludere una vita senza gioia. Dopo la rivisitazione di Umberto D, ammetto di guardare con occhi diversi i tanti miei concittadini così impegnati ad accudire i loro animali, a costo di complicarsi la vita. Dicevo di analogie e di ritorno. Nel gioco delle analogie – 60 anni dopo – la vendita dell’orologio di Umberto per racimolare la pigione di casa somiglia troppo alla nuova moda della vendita dell’oro. Anche oggi per pagare un affitto, verosimilmente. Oggi come allora gli anziani privi di tetto o compagnia sognano un letto di ospedale. Nel labirinto dello stato sociale, ora come allora bisogna, fingersi qualcos’altro – malato – perché essere vecchi non dà titoli sufficienti. E lì nell’ospedale in cui Umberto D trova provvisorio riparo, c’è la perla interpretativa di Memmo Carotenuto, un tipo umano che sopravvive dalla commedia classica. La furbizia, il saper navigare nello stagno in cui la vita ti confina. La furbizia degli sconfitti che insegnano come diventare clienti di una suora perché da lei, non dal primario, negli oscuri rapporti di potere, dipende la possibilità di prolungare il soggiorno nel reparto. A proposito di pedagogia della furbizia e della sopravvivenza, l’acquirente dell’orologio, conclusa la rapina legale, con flessibilità - si direbbe oggi - atteggia la mano facendosi mendicante. Ho visto qualcosa di simile oggi nei rom che fra un bidone esplorato di immondizie e l’altro, strada facendo, ti chiedono qualche centesimo. Beh, però questo nella dialettica fra ciò che ritorna e ciò che permane, è una relativa novità. Ai tempi di Umberto D lo spreco non aveva le dimensioni di oggi. Grazie allo spreco i bidoni sulle strade sono pieni di risorse per il popolo dei rom e quelli del mercato consentono a pensionati simili ad Umberto D di racimolare scarti di verdure. E’ l’effetto benefico della ricchezza che, mutatis mutandis, nella filosofia di Daniela Santanché del Viva i ricchi, fa arrivare occupazione e briciole commestibili a quelli che non hanno meritato di meglio. Una filosofia assolutamente vincente, a pensarci, a parte gli esibiti eccessi di tanta rappresentante della nostra destra e dei nostri tempi. Tante cose sono mutate. E’ mutata la condizione giovanile che nell’epoca del neorealismo non era un problema. I giovani erano destinati a salire la scala della condizione sociale assegnata alla nascita. Uno, due, tanti gradini, a seconda del merito e della fortuna. E’ mutata in meglio la condizione femminile, nella consapevolezza dei diritti, ad esempio. E la libertà sessuale, il faticoso riconoscimento di ogni identità sessuale, etc. Gli anziani invece sono tornati nella solitudine di allora, in un mondo tutto indaffarato nella ricerca di un lavoro, del successo o del prestigioso oggetto inutile. Un mondo che scompare al momento del pensionamento. Si è deciso - non so come - che il continuum riguardi la vita dalla nascita, all’età evolutiva, allo studio, al lavoro e che poi debba intervenire la netta cesura del pensionamento. Occuparsi di questi “fortunati” appare un lusso. Quindi solo loro, se pensionati al minimo o vicini al minimo e con canone da pagare, si accorgono che le ridotte protezioni contro l’inflazione aggiungono fragilità a fragilità. Sospettano che sia ingiusto che il legislatore approfitti della loro forza contrattuale pari a zero per realizzare le economie che sembra impossibile realizzare sui fortunati veri. Fanno quindi ogni tanto un corteo come quello con cui si apre Umberto D. Poi, fra sensi di colpa e impotenza, imparano dai Memmo Carotenuto le tecniche della sopravvivenza. Umberto D per un attimo decide di passare il confine. Prima tenta di servirsi del suo cane per raccogliere elemosine. Poi, per un attimo, in una delle scene più intense, apre lui la mano. Solo per un attimo. Subito la mano si rivolta offrendo alla vista il dorso e non più il palmo. Perché diventare poveri è più difficile ancora che nascere poveri. Bisogna dare spiegazioni a chi prima ti era pari. Il neorealismo indagò la triste normalità di chi non fa notizia. Ebbe critiche dalla politica. Le ebbe “da destra” e un po’ anche “da sinistra”. Il giovane sottosegretario Andreotti, visionato Umberto D, non era così ingenuo da contestarlo tout court. Diceva: De Sica ha voluto dipingere una piaga sociale e l'ha fatto con valente maestria, ma nulla ci mostra nel film che dia quel minimo di insegnamento[...] E se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti - erroneamente - a ritenere che quella di De Sica è l'Italia del ventesimo secolo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria. A proposito di ritorni, sembra di ascoltare la polemica di Berlusconi verso Saviano che avrebbe danneggiato l’Italia mostrando l’infezione mafiosa. O, all’indietro, le reprimende del regime fascista verso i “disfattisti”. Mi interessa però evidenziare la critica, diversa, ma non troppo di Pietro Ingrao (Rinascita, febbraio 1952): Altre volte abbiamo parlato della concezione del mondo ingenua, spaventata e mitica che si ritrova anche nelle opere più efficaci del cinema realista italiano. Umberto D conferma questa osservazione. Interpreto così il significato delle due critiche. Per Andreotti Umberto D fa torto al Paese come se suggerisse che quella condizione umana è di tutti gli italiani. Anche per Ingrao De Sica e Zavattini sbagliano. Anche per Ingrao quel realismo non dice tutto. Il colore grigio del film non è dovuto alla assenza dalla scena delle forze produttive e dei ceti emergenti. E’ dovuto invece a quella assenza di coraggio e di prospettiva che fa apparire l'arte di De Sica “spaventata”, incapace di mobilitare speranze di cambiamento. Direi che le critiche legittimamente possono esibire ciò che è assente in un prodotto artistico. A me pare che, a dispetto del termine, il neorealismo colga inevitabilmente solo frammenti della realtà. Quello di De Sica, ad esempio, riducendo i corpi a poca cosa. Corpi che necessitano di cibo e di riparo. Assenti odori, sapori e sensazioni tattili, pulsioni, mal di stomaco e secrezioni. Mi sembra una delle ragioni per cui tanti anziani si riconoscono nelle gesta erotiche del leader della destra piuttosto che in Umberto D. Quel leader propone una prospettiva conviviale e il sogno dell’eros senza scadenze anagrafiche. Assai più che un cibo per saziarsi o un tetto per ripararsi. Perché è difficile desiderare la vita se la vita è solo questo. Non è la prospettiva che Ingrao trovava assente in Umberto D. Ma può essere un contenuto della prospettiva di cambiamento politico di cui Ingrao lamentava l’assenza in De Sica. Sì, dispiacerebbe sia a Berlusconi che ad Ingrao questa spregiudicata connessione. Però a me piace cogliere i tesori e le promesse confuse fra lo sterco. Dobbiamo imparare a separarle ed apprezzarle. Intanto sto leggendo Diario di un corpo di Daniel Pennac. Altra tipologia di realismo. Quanti realismi…Vorrei parlarne.

sabato 17 agosto 2013

Le due Sicilie secondo la 7


Ieri la 7 propone tutto il giorno due Sicilie. Una è quella della spiaggia di Pachino, nella provincia di Siracusa, nel sud est dell’isola. La barca degli immigrati arenata e il popolo dei bagnanti che si tuffa a soccorrere. Anzi due donne scendono in acqua vestite e portano a riva una sorella che viene da lontano. Napolitano si dice molto ammirato. L’altra Sicilia è quella, lontana dalla prima, delle spiagge palermitane con l’accumulo osceno di fresche immondizie del ferragosto. Tutti, a partire dal sindaco Orlando, sono scandalizzati La 7 suggerisce che si tratta di due Sicilie irriducibilmente, antropologicamente diverse. Sono tentato di crederci. Una tentazione municipalistica perché sono nato nella Sicilia che appare tanto generosa. Però non posso diventare superficiale come un leghista. Forse le scene esibite dalla 7 sono invece due momenti della stessa Sicilia, forse della stessa Italia. La Sicilia e l’Italia generosa che, dopo aver soccorso i fratelli dell’altra sponda del mediterraneo, torna tranquillamente ai riti della vacanza e alla pratica distruttiva dell’habitat. Dobbiamo farcene una ragione. Così sono i siciliani, così sono gli umani. Non ci sono due Sicilie e l’uomo è un impasto coeso di generosità e di scelleratezza.

domenica 4 agosto 2013

Guerra civile?


Guerra civile? Gli italiani si dividono come per un colpo di accetta, se si parla di lui. Come ai tempi di Coppi e Bartali. I coppiani e i bartaliani però condividevano gli stessi valori e gli stessi piaceri, con lievi sfumature. Come ora. Tutti a gustare le stesse granite, tutti sui lettini al mare. Qualche volta tiro a indovinare. Che giornale starà leggendo il mio vicino di cui ho letto uno sguardo di ammirazione simile al mio verso il bikini rosso fuoco? Io leggo la Repubblica. Lui starà leggendo Repubblica o il Giornale? Accidenti, sta leggendo il Giornale. Staremo in due eserciti contrapposti nella guerra civile di Bondi, pur amando le stesse granite, lo stesso mare, lo stesso bikini? No, non è come nel mondo arabo, purtroppo diviso su tutto - cibo, alcol, sessualità - dal discrimine "laici" e "integralisti". In Italia solo i miracolati dal berlusconismo, quattro gatti, un milioncino di parassiti al massimo, con Bondi in testa e accanto Daniela Santanché, rischierebbero la guerra civile, tentando di farla combattere alla massaia berlusconiana e al pensionato che ammira tanto Berlusconi perché lui è "maschio". Mi impegnerò a chiarire al pensionato che anch'io, come lui, sono ammirato per quello splendido bikini rosso. Se bisognerà sparare, alla fine spareremo nella stessa direzione. Visualizzazioni: 2