venerdì 17 dicembre 2010

La cultura di Sallusti, di Scilipoti e degli studenti

Lo scorso 15 dicembre, due momenti di Exit sulla 7 mi hanno indotto ad una valutazione pessimistica come mai sul futuro del paese, facendomi cogliere segni eclatanti del disinvestimento in intelligenza e cultura.

La prima volta assistendo ad alcuni momenti degli scontri del 14 scorso a Roma fra studenti e forze dell’ordine. Devo premettere che, da sessantottino, non apprezzai il Pasolini che, dopo gli scontri di Valle Giulia, in forma poetica (Il PCI e i giovani), affermava di preferire i poliziotti agli studenti. Mi sembrò, come sembrò a tanti, una provocazione, nell’equivoco intenzionale fra il piano sociale (i poliziotti proletari, gli studenti borghesi) e quello politico.* Dopo sono riuscito a inquadrare meglio quella provocazione e oggi capisco ancor meglio: Nelle immagini registrate dalla 7 mi ha fatto male rivedere la “mia” Roma, allegramente attraversata con i cortei dell’11 dicembre, incendiata e brutalizzata, vedere picchiare gli inermi (a turno poliziotti e studenti: film già visto questo) e, quasi in una citazione della Corazzata Potemkin, vedere genitori cercare scampo fra il fuoco e gli scontri, spingendo il passeggino di un bimbo. Però mi ha fatto male soprattutto vedere gli scudi degli studenti. Erano gli scudi che giorni prima mi avevano emozionato, con la stupenda intuizione dei titoli di libri fondanti la cultura del tempo presente (o appena passato): Il tropico del cancro - Miller, La nausea - Sartre, etc.

Allora, pochi giorni fa e sembra un secolo, gli studenti se ne facevano scudo contro la barbarie dei tagli alla scuola e alla cultura e contro l’incultura dei governanti. Bellissimo! Che intuizione! Altro che Oliviero Toscani! Cosa farà da grande l’ideatore di quella stupenda idea di comunicazione? Forse l’hanno copiata dagli studenti francesi o inglesi? Bravissimi comunque.

Adesso, sulla 7, vedo quegli scudi utilizzati per coprire i lanciatori di sassi e fumogeni. Lo vedo più volte. Non posso sbagliarmi. Ho una fitta al cuore. Come nella improvvisa rivelazione del tradimento dell’amata. E mi viene da pensare che naturalmente quelli che usano quegli scudi non sono quelli che li hanno ideati. Sono bambini inconsapevoli che scarabocchiano la Gioconda.

Penso ancora a Pasolini, rileggo la sua poesia/invettiva: “Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo), ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri…”

E consulto i miei appunti su una precedente puntata di Exit (1 dicembre). Lì lo studio è collegato con la facoltà di Lettere e filosofia della Sapienza. C’è Adinolfi, con una lucida e spietata analisi della guerra generazionale contro i giovani, risarciti dalle paghette dei padri e dei nonni detentori delle vecchie pensioni retributive. C’è Celi del cui invito al figlio a lasciare l’Italia ancora si parla. C’è l’immancabile Sallusti che al giovane studente brillante, domanda, sapendo di cogliere facilmente nel segno (nel suo segno): “Cosa sta studiando?” La risposta è: “Storia contemporanea”. E allora Sallusti può agevolmente predire un sicuro fallimento. C’è il ministro della gioventù, Giorgia Meloni, ed altri. Siamo tutti con gli studenti occupanti. Quasi tutti, diciamo. Quasi tutti i telespettatori, ritengo. Quelli in studio, tranne Sallusti (ci mancherebbe…) e la Meloni che è prudente e “moderata”. Quando però le tocca dire di non essersi laureata (come Sallusti, peraltro), la moderazione non la salva dal cartello irridente che una studentessa, esponente della generazione frustrata e impaurita, agita dall’aula universitaria: “Per essere ministro non serve la laurea. Per essere precari si (sic, senza accento)”. Inascoltata, la Meloni esibisce le sue inutili giustificazioni (la famiglia non agiata, i suoi lavori umili) e il percorso informale della sua formazione.

Sul blog della 7 poi leggerò i commenti dei telespettatori. Ed è tale Manuela a farmi notare il “si” senza accento di cui non mi ero accorto. Ridicolizza così con efficacia la spocchia dei giovani “colti”. Solo che nell’infierire contro la studentessa commette a sua volta un errore e scrive “che’ quello è il tuo posto” e non ché (congiunzione causale). Così un’altra esponente dell’Italia incattivita che non fa sconti, Roberta, le ringhia addosso la replica. E c’è poi la controreplica, anch’essa efficace:”Io ho sbagliato, ma non farò l’insegnante”. Dibattito insulso in tv e sul blog? Sì, in certo senso, ma molto interessante. Pensate alla ricchezza di spunti che studio tv e blog polarizzati sprecano, non potendo nessuno ammettere le ragioni dell’altro per riflettere su una possibile verità . Pensate quanto ci servirebbe invece condividere un concetto di competenza per decidere e promuovere cosa vale e chi vale, cosa non è segno di competenza o è segno di incompetenza. La laurea? La laurea in storia contemporanea (Sallusti)? L’accento mancato? L’apostrofo invece che l’accento? Non voglio dimenticare il segno di speranza rappresentato dall'intervento di Matteosul blog. "Peccato solo che agli italiani, così solerti nelle offese per un accento o una correzione grammaticale, manchi del tutto un talento fondamentale: la capacità di risolvere i problemi". Appunto.

Torno alla trasmissione del 15 dicembre, per l’altro episodio che mi ha messo in crisi. In collegamento telefonico, Domenico Scilipoti, medico, chirurgo, ginecologo, agopuntore, già deputato dell’Italia dei Valori, cofondatore del gruppo di Responsabilità nazionale, ha cercato di spiegare le ragioni della sua conversione e del voto di fiducia a Berlusconi. “Che coraggio!”, mi viene da pensare, formandomi una sorta di pregiudizio favorevole. Farfuglia ripetutamente qualcosa come ”E un attacco alla mia persona, mascalzoni” e continua così senza saper andare oltre davanti ai sorrisi pietosi di Adinolfi e Pardi (mia traduzione: non si può infierire; non è colpa sua). La D’Amico invero interviene e interrompe assai meno del solito ma, quel poco basta perché Scilipoti possa inventarsi un’altra “narrazione”:”Mi interrompete. Mi interrompete” . Risultato: adesso sono certo che non potrò mai votare Di Pietro, selezionatore dell’onorevole agopuntore di Barcellona Pozzo del Gotto. Faccio altre riflessioni sul tema della competenza e della comunicazione. Berlusconi, senza molta originalità, ha ironizzato durante il dibattito sulla fiducia riguardo la cultura di Di Pietro. La rozzezza di Di Pietro, il vocabolario limitato, la sintassi incerta, la fuga dai congiuntivi non mi sembra pregiudichi la sua capacità comunicativa. Quindi – ribadisco – la sua colpa irrimediabile, in nessun modo scusabile, resta rappresentata dal caso Scilipoti.

Agli studenti arrivano ora contestazioni e consigli. Oso dare il mio consiglio, consapevole di essere poco credibile, con la sicurezza della mia pensione retributiva. Proporrei di rivolgersi agli adulti, ai governanti, alla Meloni, alla Gelmini, a Sacconi: “Cosa mi chiedete di fare per uscire dall’incubo, per avere la certezza di un futuro? Che non studi storia contemporanea? Che studi ingegneria o economia? Che mi laurei con il massimo dei voti? Che faccia l’apprendista idraulico? La cubista? Che sposi un ricco? Che faccia il portaborse di un politico? Che tenti la fortuna all’Enalotto?”.

Sicuramente non avrebbero risposta. Allora, se la cercassero e la trovassero da soli, avrebbero le ragioni e le competenze per assaltare il Palazzo d’Inverno e cambiare il paese, anche ridimensionando la mia pensione retributiva (dopo aver ridimensionato benefit e patrimoni, ovviamente, perché la “rivoluzione” non può colpire i più ricchi fra i poveri, risparmiando i privilegiati).


* http://www.pasolini.net/poesia_ppp_pciaigiovani.htm

mercoledì 24 novembre 2010

I discorsi e le facce della politica

Molti segnali suggeriscono la crisi grave dei discorsi politici e dei discorsi tout court. Oliviero Beha – nel suo blog su I Nuovi Mostri – lo scorso 11 novembre, in un pezzo dal titolo “Se faccio il nome di Berlusconi s’aizza la canizza” sembrava esterrefatto per le risposte ricevute ad un precedente intervento. Come se l’interlocutore si fosse limitato a leggere un nome, prescindendo da tutto il resto, per scatenarsi in una reazione che non teneva conto delle argomentazioni cui avrebbe dovuto replicare. Uno fra i segnali della crisi dei discorsi. Del resto, mi pare, l’ultimo discorso politico è stato il programma dell’Unione di Prodi del 2006, con le sue 281 pagine che pochissimi lessero e che non bastarono a tenere compatta la maggioranza vincente. Da allora, “melodie”, “narrazioni” e “facce”.

A Silvio Berlusconi dobbiamo la scoperta e l’invenzione delle facce e delle narrazioni: “scoperta” perché non sapevamo prima quanto contassero; “invenzione” perché lui le ha rese decisive.

Luisella Costamagno e Luca Telese, il 6 novembre a In onda realizzano il consueto stratagemma di sinistra: opporre alla destra italiana e berlusconiana l’opinione di un uomo non omogeneo alla sinistra, possibilmente classificabile di destra, possibilmente straniero, possibilmente autorevole. Il serbatoio è sterminato ed il gioco è facile, ma è il segno di una perdita di egemonia della sinistra: il riconoscimento che i suoi argomenti non possono essere vincenti per la loro forza argomentativa. Lo sono se provengono da “insospettabili”. In questo caso i giornalisti si servono di Bill Emmott, già direttore di “The economist” ed autore dell’etichettatura di Berlusconi come “unfit” (inaffidabile). Il giornalista naturalmente non delude le aspettative dello studio, con critiche a Berlusconi che è inutile ripetere. Come risponderà Alessandro Sallusti? Questo è interessante. Sallusti sorride come sa sorridere lui. Un po’ come Belpietro, un po’ come Cicchitto, un po’ come Bondi. Ci siamo capiti. C’è una fisiognomica dei berlusconiani, degli alieni. E’ razzismo lombrosiano o antropologia di buon senso? Comunque il discorso sulle facce che io uso come contorno, magari subendo il nuovo senso comune, per “loro” può essere addirittura l’unico criterio di valutazione. Come replica Sallusti a Emmott? Bofonchia qualcosa. “E’ un tipo strano…Ora si capisce perché gli piace Vendola”. Tutti crediamo di capire che c’è una allusione all’omosessualità di Vendola, dichiarata, e a quella di Emmott, percepita da Sallusti. Non saprei giurare di aver capito da cosa. Forse da un fiore all’occhiello della giacca. Poi, dopo questa spiazzante critica, c’è un riferimento al fatto – orrore! – che i professori critici verso Berlusconi quando sono invitati da un politico di sinistra (Vendola), prendono soldi per fare conferenze. Che volete? Ci sono stereotipi di sinistra e stereotipi di destra. Quello del look “strano” e quello degli intellettuali che si fanno pagare è un consolidato stereotipo di destra. Evidentemente i sondaggi ne avranno certificato l’efficacia..

A Ballarò del 9 novembre è Bondi a esercitare il suo talento nella distruzione di un discorso politico delegittimando la faccia che lo pronuncia. Qui è la sociologa Chiara Saraceno, intervistata da Berlino. L’operazione di delegittimazione è più facile perché la Saraceno non è straniera e non è di destra: è solo una intellettuale. Come risponderà quindi Bondi alla Saraceno che dice della pessima immagine all’estero di Berlusconi e del suo governo? Niente di più facile. “Lei, professoressa, è chic…radical chic…di sinistra” Non c’è altro da dire. Non è il caso certamente di rispondere ad argomenti con argomenti. Bondi non è una persona intelligente (bella scoperta!), però è una persona furba, capace di parlare alla pancia della sua gente. Dice “chic” prima di affibbiare l’etichetta distruttiva, ma magari un po’ consunta di “radical chic”. Perché è sull’essere “chic” che deve stimolare la bava della sua gente, del popolo che “non mangia cultura”. In cosa Chiara Saraceno merita quell’appellativo “infamante”? Ha capelli corti e un taglio semplice. Non scorgo gioielli. Indossa due maglioncini, un golf su un collo alto, su diversi sfumature di rosa. Io avrei definito il suo aspetto “sobrio” Non ha la pettinatura “complessa” della Santanchè né i labbroni della Mussolini. “Chic” forse è sinonimo di “sobrio”. Anzi lo è certamente, pur spiazzandomi il premier, utilizzando ieri paradossalmente - proprio lui -il termine per invitare i suoi a litigare di meno.

Temo che dovremo imparare a ragionare di questo. Non è tempo di programmi per la politica. Per adesso. E’ tempo di facce. Bisognerà offrire le facce giuste ad un popolo involgarito dall’impero mediatico. Il popolo berlusconiano ha individuato giustamente nella sobrietà una caratteristica tipica della sinistra vissuta come la parte dei ricchi, come dicevano i ragazzi di “Caterina va in città” e con qualche ragione. Qualche. Il blocco berlusconiano è infatti costituito prevalentemente da plebe, corteggiata da uno strato di spregiudicati affaristi che coi suoi consumi lussuosi riesce a far credere di stimolare economia e occupazione. Tale mito o “narrazione” è sostanzialmente subito a sinistra. Sicché la Santanché può impavidamente esaltare l’opera sociale del Billionaire appartenente al pregiudicato Flavio Briatore che con le ostriche e lo champagne dei suoi ricchi avventori garantisce il lavoro di decine di cuochi, camerieri e ragazze immagine. Al contempo Fazio, Benigni e Saviano debbono con imbarazzo difendere i loro contratti perché loro no, quelli di sinistra non producono lavoro, la cultura non si mangia e comunque, essendo di sinistra, non debbono avere retribuzioni superiori ad un metalmeccanico. Praticamente lo dice anche il parlamentare Pd Boccia, parlando di danarosi intellettuali da salotto convenuti allo sciopero della Fiom a Roma. E non si accorge che Berlusconi e il popolo degli affaristi gli suggeriscono il copione.

Facce quindi e, al più, qualche insulto, come quel “vada a farsi fottere” di D’Alema a Sallusti che sollevò per un attimo il morale del popolo di sinistra e – quasi – un ritorno di stima per un leader inviso.

Non per niente il conflitto Carfagna- Mussolini diventa irrimediabile quando la prima apostrofa la seconda napoletanamente “vajassa”: donna dei “bassi” – sguaiata, volgare, incline al pettegolezzo e alla rissa”. Il divorzio dalla Mussolini è quindi la rottura con la nuova plebe dal viso rifatto e dalle meches improbabili. Sappia la Carfagna incontrare, sobrietà, cultura e popolo contro le devastazioni antropologiche della nuova destra. Gli interventi recenti del ministro delle Pari Opportunità contro le circolari dei sindaci leghisti, stupidamente vessatori verso gli immigrati, lasciano ben sperare. Osserverei però al ministro: non si può contestare con linguaggio sguaiato una persona sguaiata. Quando lo avrà capito le darò il benvenuto nella casa della sobrietà e della democrazia.*

* Ho parlato della “conversione” del ministro dall’omofobia in un post,” Mara Carfagna e il fascino della democrazia” su rossodemocratico.ilcannochiale.it

mercoledì 17 novembre 2010

Bersani e Fini: si cercano ma la storia li divide

Vieni via con me ha chiamato Bersani e Fini ad elencare rispettivamente i valori della sinistra e della destra. Evidentemente volendoli considerare rappresentativi di queste polarità. Darei ragione ai contestatori di Fazio. Si fa per dire…. Darei loro ragione non in nome di una impossibile par condicio che sapientemente Fazio ha ridicolizzato con l’elenco interminabile dei partiti aventi diritto a partecipare alla trasmissione. Darei loro ragione piuttosto perché, se “sinistra” e “destra” rappresentano i poli opposti della politica, Bersani e Fini non rappresentano oggi quegli opposti. La coppia “giusta” sarebbe stata Bersani (o Vendola) versus Berlusconi (o magari Santanché).

Il fatto quotidiano il giorno dopo la trasmissione ha giudicato giustamente “complementari” gli elenchi e i valori declamati dal leader del PD e dal leader di Futuro e Libertà. Lo ha confermato a Ballarò un Crozza particolarmente in forma, tratteggiando i due leader come due amiconi che si passano la palla (e i testi). Del resto più che complementare, sovrapponibile, soprattutto nel linguaggio, era apparso il manifesto di Perugia di Futuro e libertà rispetto al manifesto veltroniano del Lingotto. Vediamo un po’. A mio avviso Bersani è riuscito a suggerire alcune idee forza della sinistra. Soprattutto in queste parole: “La sinistra è l’idea che se guardi il mondo con gli occhi dei più deboli, puoi fare davvero un mondo migliore per tutti…….Nessuno sta bene da solo. Sta bene se anche gli altri stanno un po’ bene”. Magari, per esorcizzare i rischi di una sinistra “contemplativa”, “compassionevole” e impotente avrebbe potuto dire:”Se agisci per rendere forti anche i deboli”. Però ha detto abbastanza bene. E poi ha detto altre cose di ampio respiro: “Dobbiamo lasciare il pianeta meglio di come lo abbiamo trovato perché non abbiamo il diritto di distruggere quello che non è nostro”. Impegno arduo, altruistico e masochista, se tramutato in azione, perché guardare ai nipoti non paga. Impegno impossibile e quasi per definizione di sinistra, giacché alla destra appartengono le battaglie facili. Non paga salvaguardare l’ambiente contro il consumismo come non paga ridurre il debito pubblico che erediteranno i nipoti. Per fortuna Bersani ha aggiunto l’impegno più popolare per il lavoro e la precarietà (con qualche accenno di concretezza: “un’ora di lavoro precario non può costare meno di un’ora di lavoro stabile”) che almeno riguarda corde più sensibili, noi stessi ed i figli. E poi il ruolo della donna come termometro della civiltà e la dedizione degli insegnanti coraggiosi e via via verso valori condivisi e universali, oltre la sinistra.

Struttura analoga ha avuto l’elenco di Fini che, cercando faticosamente nella sua storia di destra (stavo per dire, sbagliando, “nelle sue radici”: ma sono estirpate), non ha trovato di meglio che l’Italia, declamata con la “I” molto maiuscola, e senza riferimenti a devoluzioni “locali” o “planetarie”, e l’esaltazione delle Forze Armate. Poi, via via, sfumando anche lui verso valori più facilmente condivisibili: la legalità, lo Stato non invadente, l’autorevolezza e il buon esempio delle istituzioni. E qui naturalmente l’avversario era palese e non stava a sinistra. Era il leader di un’altra destra, quella “con la bava alla bocca”, ammesso che oggi Fini, come per lo più si ritiene, sia ancora collocabile a destra. Fini ha rivendicato quindi la cultura del merito e la eguaglianza delle opportunità “per i figli dei datori di lavoro come per i figli degli impiegati e degli operai” (di Lapo Elkan e del turnista della Fiat?). Valori cari al liberalismo conservatore e a quello progressista: profondamente velleitari, a mio avviso, come parodia dell’eguaglianza di fatto, giacché senza interventi radicali (socialismo) o continuamente correttivi (Stato interventista) le diseguaglianze di nascita e di censo, spostate in avanti, dopo la culla, dopo la scuola dell’obbligo, dopo l’università, comunque si riproducono. In Italia soprattutto.

Da notare poi le coincidenze nei due discorsi, a proposito di cittadinanza ed immigrati. Anche l’appello alla laicità di Bersani, a proposito di accanimento terapeutico (caso Welby e Englaro) credo potesse essere condiviso da Fini, in altre occasioni aperto su questi temi.

Insomma il vero avversario della destra e della sinistra presenti in studio stava altrove: era Berlusconi. Un comprimario assente un po’ amico, un po’ avversario, lontano da Fini e soprattutto da Bersani era Casini che – guarda caso – immediatamente prima ad Otto e mezzo aveva polemizzato contro la prevista apologia che Vieni via con me avrebbe fatto della laicità e della “buona morte”, differenziandosi molto da Bersani e abbastanza da Fini.

Riassumo. La destra e la sinistra presenti in studio erano tutt’altro che distanti. Per merito dell’evoluzione finiana, dei suoi molti passi avanti, se non dei passi indietro della sinistra. Perché allora non chiamare Fini e Bersani “centro” o, volendo cogliere le sfumature, “centrodestra” e “centrosinistra”, e chiamare Berlusconi “destra” populista o peronista o monarchica o magari, sbrigativamente, fascista e Casini destra “costituzionale” e confessionale? Non si può. Non si può con Fini e Bersani. Le etichette acquisite con la storia, pare non si possano cancellare: Fini e Bersani debbono dirsi distanti anche quando sono vicini. Li costringono il passato e il senso comune imposto da quelli che hanno inventato la sovranità popolare come proprietà del 30% degli elettori ed hanno inventato “ribaltone”, “tradimento”, etc. Come i figli delle storiche famiglie rivali, Montecchi e Capuleti, i leader del PD e di FLI, scoprono reciproco interesse e attrazione. Nella leggenda l’attrazione e il presente vinsero sulla storia. Nella politica oggi è più facile vincano la storia ed etichette troppo adesive.

Quanto coraggio servirebbe a vincere l’inerzia delle vecchie appartenenze per una Alleanza costituzionale, da Fini a Vendola, che ci liberi dai barbari? In attesa che il PD si muova dalla sua stagione contemplativa verso una sinistra di lotta che realizzi nell’azione quotidiana i valori declamati da Bersani.

mercoledì 27 ottobre 2010

Gli uomini che fanno, le donne che curano

Lo scorso 24 ottobre, a “Che tempo che fa”, Sergio Marchionne è intervistato da Fazio. Marchionne dice cose sgradevoli. Gli utili della Fiat si realizzano tutti fuori dall’Italia. La Fiat in Italia non sarà competitiva fino a quando sarà considerato normale assentarsi in coincidenza con una partita di calcio. Ok. Il grande manager ha un’alta opinione di se stesso. Certo fa esercizio di modestia: malgrado la sua laurea in filosofia, è un metalmeccanico. Lui è uno che “fa le cose”. E disfa anche: investe e disinveste Ribadisce il vanto di lavorare 18 ore al giorno.

Lo stesso giorno, subito dopo, a “Niente di personale”, Piroso intervista tre donne. Non sono metalmeccaniche e non fanno le cose. Se le fanno o le hanno fatte nel loro lavoro, comunque non sarebbe questo il loro segno distintivo. Scommetto siano impegnate anch’esse 18 ore fra lavori fuori di casa e impegni domestici e di cura. Sono due mamme e una sorella. Sono Cira Antignano, madre di Daniele Franceschi, Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi e Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. Il comun denominatore è l’aver perso un congiunto – figlio o fratello – per mano di un potere dispotico e illegale: carabinieri, polizia, agenti di custodia, anche personale sanitario. Avete fatto caso che sono quasi sempre madri e sorelle a contestare ingiustizie e soprusi, esponendosi alla tv? Intanto gli uomini “fanno”, aprono e chiudono fabbriche. Le tre donne chiedono sobriamente giustizia.

Ilaria Cucchi è “giustizialista”, nell’accezione corretta, quella non logorata dalla politica. Ha scoperto, solo dopo la tragedia, che il fratello spacciava oltre che consumare droga. Ha denunciato la scoperta alle autorità semplicemente in nome della verità sfidando lo Stato alla stessa sincerità.

Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, è l’unica ad aver ottenuto parziale giustizia. Quelli che massacrarono il figlio sul selciato sono stati condannati e poi salvati dall’indulto. Espone un dubbio e sembra chiedere conforto e consiglio all’opinione pubblica. Quando, successivamente,sono stati coinvolti e condannati, per depistaggio, i superiori degli agenti assassini, ha accettato di rinunciare a farsi parte civile negli ulteriori gradi di giudizio, in cambio del risarcimento offerto dallo Stato che così riconosceva le colpe dei suoi “servitori”. Chiede se questo offuschi la sua battaglia di giustizia. In questo caso è pronta a restituire l’indennizzo.

Cira Antignano ha perso suo figlio, Daniele Franceschi, in una prigione francese. Ripetutamente, inutilmente, il ragazzo, sofferente, aveva chiesto aiuto fino a morire – sembra - per un infarto sopravvenuto. La signora, anziana, è andata in Francia a chiedere giustizia, spiegando un lenzuolo bianco. Un piccolo lenzuolo, precisa, come per una richiesta di attenuante. Perché i gendarmi glielo hanno strappato e con calci le hanno fratturato le vertebre. Il corpo restituito alla madre, mal conservato e “svuotato”, forse non può più raccontare la verità. Cira ha scritto a Carla Bruni, consorte del presidente francese e italiana. “Non mi ha risposto” dice timidamente, come se non si aspettasse nulla di diverso.

Mentre la politica tira da una parte e dall’altra la stessa coperta troppo corta, oggi sollecitata dalle esigenze di equità, poi da quelle di produttività, infine da quelle ambientali, smarrendo nell’impotenza ogni filo di progetto, madri e sorelle si prendono cura, di figli e fratelli molto occupati con se stessi o smarriti. Madri e sorelle raccolgono i cocci, curano i feriti, lavano i corpi degli uccisi. Non tutte le donne somigliano a Patrizia, Cira e Ilaria. Alcune vanno oltre. Nei vicoli di Napoli le vediamo proteggere e fare scudo col loro corpo a congiunti camorristi e assassini. Perché nell’obbrobrio familistico può scivolare la dedizione e la cura dei propri cari. C’è un altro oltre però in cui aspettiamo madri e sorelle per cambiare la vita di tutti: la politica, quella “materna”, quella per tutti, quella che ci serve.

domenica 17 ottobre 2010

Battiato e Buttafuoco. Oltre destra e sinistra?

Venerdì 15 ottobre a OTTO E MEZZO su LA7, la Gruber intervista il musicista Franco Battiato. Le fa da sponda in studio Pietrangelo Buttafuoco, giornalista di Panorama e scrittore, uomo di destra, di destra “creativa”.
Osservo subito che un artista – questo è Battiato – rischia di deludere quando non parla attraverso la sua opera. Ha ragione Buttafuoco che ricorda la intensità dei suoi componimenti capaci di dare forma immediata alle nostre idee confuse. Di questo però non c’era traccia nel linguaggio esibito nell’intervista.
Annoto quindi la curiosa coincidenza di Battiato e Buttafuoco che rifiutano di collocarsi nelle categorie destra/sinistra della politica da cui si smarcano. “Non sto né a destra né a sinistra, dice Battiato, sto in alto”. Poi curiosamente, dimentico di quanto appena affermato, ad altra domanda risponde di avere votato Bersani alle primarie del PD e poi ancora che non lo voterebbe più ma sceglierebbe Vendola. Più tardi Buttafuoco risponderà allo stesso modo alla stessa domanda. Anche lui non sta né a destra né a sinistra ma “in alto”.
Darò due interpretazioni, non alternative, ma complementari. La prima è la presunzione dell’uomo (se è possibile dir male di Garibaldi, cioè di Battiato e Buttafuoco) che può illudersi di guardare dall’alto gli ometti che quaggiù faticano e si dividono su piccole cose. La seconda riguarda l’oggettiva crisi delle categorie destra e sinistra. Pur senza presumere di stare in alto, molti oggi non vogliono collocarsi, altri non riescono a collocarsi secondo quelle polarità.
Quelli che non vogliono cercano con tale stratagemma di spiazzare l’avversario e di “pescare” un consenso trasversale, sapendo che collocarsi nelle tradizionali polarità farebbe pagare il prezzo che pagano le appartenenze “ideologiche”. Grillo è fra costoro: anche lui dice di stare “in alto”, per quanto, da attore, riesca ad esorcizzare il rischio di supponenza con la mimica e il sorriso. E’ comunque una tendenza sempre più diffusa: soprattutto a sinistra, segno evidente della crisi di quest’area politica sempre più sulla difensiva e paga di proporre buona amministrazione. La sicurezza non è né di destra né di sinistra, la giustizia lo stesso, etc. etc. Bella scoperta! I temi, forse, non hanno appartenenze. Fino ad un certo punto, perché le priorità nella scelta dei temi è inevitabilmente orientata. Le soluzioni poi vanno sempre in una o l’altra direzione. Privilegiando la prevenzione o la punizione, scegliendo di esercitare la massima severità sul furto con scasso o sulla bancarotta fraudolenta, etc. Nella misura poi in cui davvero le soluzioni alternative non siano percepibili, questo è un pessimo segnale, il segnale di un dominio esterno alla politica che non consente più di scegliere se non su cose accessorie.
Il moltiplicarsi di quanti non sanno collocarsi rappresenta ancor meglio questo segnale: la crisi delle ideologie e delle appartenenze. Sostituite da cosa? Dal tifo politico o dalle scelte di volta in volta. Nel primo caso la politica è ridotta a spettacolo fra spettacoli. Nel secondo non esiste coerenza e tessuto connettivo fra una scelta e un’altra. L’ideologia è (era) un tessuto connettivo e insieme inevitabilmente un “pregiudizio”. Oggi il collante, quando c’è, è personale, nel segno di un nuovo pregiudizio rappresentato da figure carismatiche. Oppure appunto è l’atomizzazione delle scelte.
Ragionevolmente però destra, sinistra, centro (eventualmente) possono essere polarità sinteticamente rappresentative di orientamenti? Penso di sì, magari accompagnate ad altre coordinate. Battiato e Buttafuoco mi offrono ancora un esempio. Da cosa proviene l’evidente feeling fra i due che pure, a loro dispetto magari, collocheremmo su due polarità opposte? La sicilianità forse? No, certo. Rischierei anch’io peraltro, da siciliano, di esservi coinvolto. Forse il misticismo, dichiarato e noto, di Battiato e la vaga religiosità nell’enfasi della tradizione del secondo. Forse. L’ipotesi mi serve comunque per suggerire che destra e sinistra sono simboli da non sopprimere, ma che vanno accompagnati ad altre coordinate: laicità/confessionalismo, ad esempio. O localismo/nazionalismo/internazionalismo. Insomma non abbiamo bisogno di abolire simboli o punti di riferimento, ma, ragionevolmente, di aggiungerne altri ai più antichi, se non vogliamo immaginarci tutti solitari compositori di irripetibili spartiti politici. Resto convinto che destra/sinistra non si debbano buttar via. Per me sinistra continua a significare l’orientamento di chi ritiene che il destino di ognuno sia un prodotto sociale. Anche se può essere utile per motivare l’individuo “fingere” che egli sia artefice del proprio destino, l’imprenditore ha successo grazie ai suoi collaboratori e al volo di una farfalla in Cina (a cicli e movimenti economici effetti di scelte di uomini lontani) e lo scienziato scopre la genesi del cancro grazie ai docenti che lo appassionarono alla biologia o gli insegnarono a leggere e ai braccianti che faticarono senza sosta sotto il sole per raccogliere i pomodori che nutrirono il suo cervello. Egualmente il fallimento dell’imprenditore o dello scienziato sono responsabilità diffuse nel corpo sociale. Corollario 1: impossibile valutare il peso dei componenti la catena, tutti indispensabili. Corollario 2: è giusto ed utile che tutti ci sentiamo responsabili di ognuno. Quando allora si scoprisse un nuovo zio pedofilo e omicida in qualche provincia pugliese, la sinistra (quella che io potrei chiamare sinistra) conquistato il governo, dopo aver punito duramente il “colpevole finale”, in ossequio all’utile finzione della responsabilità personale, comincerebbe a disinvestire risorse dal circuito mediatico per interrogarsi sulla sessualità degli anziani in una società erotizzata e per investire nelle risposte possibili.
N.B. Chiedo scusa a Battiato e Buttafuoco per averli “strumentalizzati” e rinnovo a Battiato, musicista, la mia ammirazione, consigliandogli di astenersi dalle interviste.

sabato 25 settembre 2010

A proposito di Sakineh e di Teresa Lewis. Chi ci dice quando mobilitarci?

Due modelli di barbarie

La mobilitazione dell’Occidente ha salvato la vita (per ora) di Sakineh, l’iraniana che rischiava una barbara morte per lapidazione. La avrebbero sotterrata in piedi, con la testa scoperta ed esposta ai lanci di pietra. Le pietre sarebbero state, come da protocollo, né così piccole da essere inoffensive né così grandi da essere troppo velocemente mortali affinché la colpevole patisse quanto giusto prima di ricevere la morte a quel punto agognata. Non ho studiato la storia di questa forma di esecuzione. So solo che viene da lontano. Al cinema ce ne ha mostrato una forma meno protocollare Amenàbar in Agorà. Lì è Ipazia, nella colta Alessandria di Egitto del V secolo D.C, colpevole di essere filosofa e donna, ad essere condannata senza processo dalla folla di fanatici cristiani e solo l’eutanasia praticatale dall’innamorato risparmia alla colpevole il supplizio consegnando alle pietre della massa imbestialita un corpo già spento. Ancor prima, nella Palestina ebraica, i Vangeli ci testimoniano, con l’episodio di Cristo che salva l’adultera dalla lapidazione, la diffusione di questa pratica. Questo per dire della permanenza nella storia e nei diversi fanatismi religiosi della barbarie che pretende la massima sofferenza del colpevole.

Ieri invece, venerdì 23 alle ore 3.00, gli USA, laici e civili, in Virginia hanno spento la vita di Teresa Lewis, colpevole, oltre che di aver progettato un assassinio (gli esecutori hanno avuto “solo” l’ergastolo), di essere 2 punti sopra il livello di insufficienza mentale che le avrebbe salvata la vita, per incapacità, burocraticamente definita, di intendere e di volere.

Certo, Teresa Lewis è morta con tutti i comfort in una esecuzione “civile”, sterile, asettica, igienica. Così si conviene nel Paese più sviluppato del mondo. I testimoni, giornalisti e parenti delle vittime, hanno assistito disciplinatamente nei posti assegnati. Quando Teresa è stata sdraiata sul letto di morte una tenda ha difeso la sua privacy. Le hanno infilato un ago nelle vene. Le hanno messo in circolo un sedativo, poi una sostanza catatonica, poi il veleno. Non ha sofferto alcun dolore fisico. Si soffre di più dal dentista. Ha sofferto “solo” il dolore del cuore e della mente negli anni in attesa di una revisione della sentenza e poi fino all’ultimo giorno nella speranza che il telefono squillasse nella stanza della morte e il governatore ordinasse il rinvio dell’esecuzione. Ha cantato e pregato, racconta il suo legale, ma era terrorizzata. Fuori dal carcere su un cartello degli abolizionisti era scritto: “Perché uccidiamo persone che hanno ucciso altre persone per insegnare che uccidere è sbagliato?”.

La macchina infernale della giustizia

Quelli della mia generazione non dimenticano l’agonia di Caryl Chessmann, criminale diventato esperto giuridico nel tentativo di scongiurare la sedia elettrica e poi anche scrittore di diversi libri sulle sue vicende criminali e sulla sua lotta per la vita. Caryl, riconosciuto colpevole di sequestro di persona e stupro fu condannato alla camera a gas. Riuscì a sopravvivere 12 anni ottenendo 8 rinvii fino all’esecuzione avvenuta il 2 marzo del 1960. Gli stessi fautori della pena di morte, numerosissimi negli USA e numerosi anche nel nostro Paese, erano diventati prevalentemente contrari di fronte al coraggio dell’uomo e alla progressiva condivisione della tortura dell’attesa. E si moltiplicavano gli appelli per la clemenza, mentre Chessmann si rifiutava di chiedere la grazia continuando a proclamarsi innocente. Anche nell’imminenza di quel maledetto 2 marzo pochi credevano che l’esecuzione ci sarebbe stata. In effetti il telefono squillò nella sala che ospitava la camera a gas. Chiamava per ordinare l’ennesimo stop il governatore della California, Edmund Brown, notoriamente contrario alla pena capitale ma che aveva dichiarato di essersi arreso di fronte ai meccanismi della legge. Aveva trovato un’altra motivazione per una sospensione. Ma era troppo tardi. Per salvare Caryl si sarebbe dovuto aprire la camera dove le pillole di cianuro calate nella bacinella stavano sprigionando i primi gas letali. Non si poteva aprire la camera per i pericoli che avrebbero corso i presenti nella sala. La macchina infernale della giustizia era più forte degli uomini che l’avevano lanciata e ora avrebbero voluto fermarla.

Chi ha modellato la mia testa?

Torno a Sakineh e a Teresa Lewis per ricordare che il presidente iraniano Ahmadinejad, al consesso dell’ONU, ha rinfacciato all’Occidente l’ipocrisia di quel silenzio nell’imminenza dell’esecuzione negli USA, a fronte della mobilitazione per Sakineh. Un amico mi ha ricordato un aforisma di Benigni: “Anche Hitler e Mussolini avranno fatto dei ponti”. Appunto, anche il leader iraniano può dire verità. Un’altra verità aveva detto a proposito del nucleare (peraltro, dichiaratamente, per scopi civili) che esponeva il suo paese a pesanti ritorsioni, mentre sul nucleare bellico di Israele, accertato, contrario ai trattati internazionali, permaneva un assurdo silenzio. Come contraddirlo? Come è stato contraddetto? Ma qui inizia la mia confusione assoluta. Ahmadinejad ha anche dichiarato che non era stata mai pronunciata la condanna a morte per Sakineh. Nessuno gli ha creduto. Neanche io, ovviamente. Poi, adesso, mentre cominciavo a scrivere queste righe, ho fatto altre ricerche su internet. Ebbene scopro in un sito di controinformazione http://www.ipharra.org/article-la-storia-delle-lapidazioni-in-iran-e-una-bufala-56823151.html che la pena della lapidazione è sospesa in Iran da tempo (ultima moratoria nel 2008) . Sto imparando a non prendere per buona nessuna notizia e non do per buona neanche questa. Continuerò a cercare. Forse. Ma le domande cruciali sono: “ Chi foggia le nostre opinioni e credenze? Chi ci mobilita per Sakineh? Chi decide di non informarci e non mobilitarci per Teresa Lewis? I mass media? Chi controlla i mass media? E internet almeno è libero? E allora chi mi ha fatto trovare il sito che prima ho linkato? Come si decidono in Google le gerarchie delle fonti ? Non è un’utopia oggi la libertà di informazione e la libertà di essere informati nell’Occidente liberale che ha sconfitto l’Utopia comunista? Chi ha modellato la mia testa e le mie opinioni? Le domande sono mezze risposte. Almeno selezionano un campo di ricerca.

Uno spunto autobiografico per concludere e per rimproverare me stesso e la mia credulità. Per tutta la vita scolastica fra le mie varie credenze in materia di storia c’era la convinzione, comune praticamente a tutti, sulla crudeltà e la follia di Nerone. All’università lo studio della storia romana del grande Santo Mazzarino mi aprì gli occhi su questa credenza (e su altro). I dati documentali dimostrano riforme neroniane nel segno di politiche strutturali avverse alla classe nobiliare e favorevoli alle plebi, a partire dalla svalutazione dell’oro e dalla rivalutazione della moneta di bronzo. La riforma di segno opposto fu fatta dall’imperatore Costantino che così fissò l’alleanza con la Chiesa e la classe possidente. Chi scriveva la storia che ci è stata tramandata e che acriticamente i libri di scuola ancora ci raccontano? I senatori puniti da Nerone e premiati da Costantino.

Il rimprovero che mi rivolgo è di essermi addormentato di nuovo pigramente sulle verità rivelate. Intanto rivolgo il mio pensiero a Teresa Lewis chiedendole di perdonarmi per non essermi mobilitato per lei. Non sapevo. Ma non ho neanche cercato di sapere. Ero troppo occupato a rispondere agli insulti rivoltimi sul forum del Pdnetwork e in analoghe futilità.

mercoledì 25 agosto 2010

Tremonti, Marchionne, i minatori imprigionati e il magnate generoso

Ritorno a questo blog scrivendo d'altro rispetto a quello che avevo annunciato. Ma è passato un po' di tempo. Sarà per l'inguaribile ideologismo (così si chiama sprezzantemente la voglia di cercare un significato nel caos degli eventi). Sarà, più semplicemente, per la mia congenita claustrofobia, mai del tutto risolta, per quanto combattuta. Voglio dire dei miei sentimenti e dei miei pensieri riguardo i 33 minatori rimasti sepolti, il 5 agosto scorso, a 700 metri di profondità, in una miniera d'oro, a San Jose in Cile, e ora scoperti vivi contro ogni attesa. Fra 3/4 mesi potrebbero essere salvati. Potrebbero. Non mi soffermo su troppi particolari di una vicenda nota a tutti. Detto della euforia del popolo cileno e del suo presidente impegnato a salvare quelle vite, con la mobilitazione nazionale e internazionale delle più avanzate tecnologie per alimentare, idratare e sostenere psicologicamente i sepolti vivi, qualcosa non mi torna.
  1. La società mineraria ha comunicato non solo di non disporre del denaro necessario per coprire i costi dell'operazione di salvataggio (non so quanti milioni di dollari) ma pure che il blocco della miniera condurrà presto al fallimento dell'impresa. Non so se per chiarire che comunque non ci sarà possibilità di occupazione per gli eventuali sopravvissuti o se per negoziare aiuti di Stato. Immagino che in Cile, come in Italia, valga la prassi aziendale "i profitti sono miei, le perdite di tutti" . La società non ha detto, mi pare, che l'impianto era stato bloccato nel 2007 dopo un incidente mortale e poi riaperto; ancora non saprei se secondo il modello italiano delle "mazzette" o la pratica, propria di tutti i paesi ad economia di mercato (capitalisti insomma) del ricatto occupazionale. Peraltro i minatori avevano accettato di monetizzare il rischio specifico di quella miniera con un bonus di circa 150 dollari che portava a salari attorno ai 1.000 dollari.
  2. Tale Leonardo Farkas, patron multimilionario di un'altra compagnia mineraria, la Santa Fe, ha promesso un assegno di 5 milioni di pesos pari a circa 7.600 euro per ognuno dei 33 minatori che dovesse uscire vivo da sotterra. Ed ha aggiunto che si impegnerà per acquisire altri finanziamenti da altri magnati affinché i minatori salvati non debbano più lavorare.

Insomma, come in tutti i grandi eventi mediali, i parassiti, magari (ma non necessariamente) in buona fede, si affollano sull'evento ricevendo visibilità. Visibilità che talvolta salva la vita o il lavoro degli attori e che - si spera - salverà la vita dei minatori. Sfortunati quelli cui non capita, nella disgrazia, la fortuna di incontrare una telecamera o che non hanno l'inventiva di attrezzare un'isola dei cassintegrati. In Italia iniziammo con Vermicino e il povero Alfredino Rampi e la TV accesa sull'evento con il protagonismo di "nonno" Pertini.

Un ulteriore commento merita il generoso signor Farkas e la sua trovata, ingenua, o troppo furba e promozionale. Poteva proprio evitarsela. E' troppo somigliante alle lotterie in voga nell'occidente civilizzato in cui si offre un vitalizio ai vincitori in cambio di una piccola puntata. Un grande affare: per i gestori della lotteria. Un grande affare per il signor Farkas che al costo massimo presunto di 250.800 euro (se uscissero tutti vivi), realizza un grande spot pubblicitario e collabora al grande inganno politico. Perché mai imprese o governi dovrebbero investire nella sicurezza dei lavoratori? Chi lo capirebbe? Nessuno ringrazia nessuno se al mattino l'acqua esce dal rubinetto del bagno. Diciamo pure che il recente intervento del ministro Tremonti, inteso a "rivedere" la 626 sulla sicurezza, è stato un intervento estremamente lucido. Come negare - così interpreto quanto viene sottinteso nelle parole del ministro - la pesantezza dei costi per garantire una sicurezza che non sarebbe in ogni caso assoluta? Chi dice che la prevenzione paga? Politicamente, no. Politicamente è più conveniente accettare il rischio di un disastro (altrui). Si può sempre attribuirne la colpa a qualcun altro, in fin dei conti: a chi ci ha preceduto, a quelli che abbiamo a fianco, agli stessi disastrati. Meglio, molto meglio investire nella TV che attribuirà meriti e colpe. E poi, chi paga i costi della sicurezza, oltre all'azienda? Chi, se non noi consumatori dell'oro scavato a San Jose, e lavoratori, sicuri dietro le nostre scrivanie e cattedre? Insomma, quanto vale la vita di un minatore? Quanto siamo disposti a pagare per assicurargli la vita?

Quel che penso è che la minaccia della disoccupazione è un'arma terrificante nello scambio ineguale fra domanda e offerta di lavoro e questo episodio ne è un esempio odioso. In misura diversa, quello subito dai minatori cileni è il ricatto subito dagli operai della Fiat di Pomigliano o da quelli della fabbrica di Tichy in Polonia sulla localizzazione della Panda, a prova che la mobilità dei capitali, mettendo in competizione i disperati, ha, nell'era della globalizzazione, strumenti sempre più "persuasivi" per allargare la forbice fra profitti (e redditi dei manager) e salari. E gli insuccessi dell'impresa possono essere pagati, da una parte con la perdita di profitti, dall'altra con la perdita del lavoro e della vita.

Ha ragione Marchionne. Siamo dopo Cristo. Dalla caduta del muro. Non c'è più la lotta di classe e chi la propone vive avanti Cristo. Non può esserci lotta di classe se una classe ha un deterrente nucleare e l'altra, frantumata, può solo tentare una scaramuccia con archi e frecce. Tanto vale apprezzare la filantropia del signor Farkas.

Mi rendo conto che, grazie a Reagan, o a Stalin o a Breznev o a Gorbaciov, per qualche decennio sarà considerato futile e arcaico parlare di appropriazione collettiva degli strumenti di produzione, di socialismo o comunismo cioè. Però solo in quella direzione vedo la soluzione di contraddizioni altrimenti insolubili fra proprietari, lavoratori e consumatori. Diciamo che vorrei almeno sognare un ordine in cui insieme si decidesse se valga la pena rischiare la vita per estrarre l'oro. Un ordine in cui, deciso eventualmente che valga la pena, chi rischiasse per questo la vita venisse retribuito un po' più di Lapo Elkan (un nome pressocchè a caso), potesse conoscere l'entità del rischio e potesse essere assistito per scegliere come morire nell'emergenza.

Voglio raccontare però di una esperienza personale che forse è all'origine di questo pezzo. Sono passati quasi 40 anni. Ero insegnante in un corso professionale per giovani aspiranti lavoratori della miniera di Pasquasia (Enna) che alternavano aula e stage (insomma, si calavano in miniera). Un giorno trovai in aula un silenzio assoluto. I dirigenti della miniera erano molto cortesi e rispettosi verso noi insegnanti. Esempio: erano molto dispiaciuti di doverci attribuire il turno B della mensa per motivi di organizzazione didattica, perché nel turno B ci saremmo mescolati ai minatori. Nel turno A invece saremmo stati con i funzionari. Avevano questa sensibilità "di classe". Non ebbero invece la sensibilità di informarci di quanto accaduto. C'era stato un incidente mortale in miniera. Gli stagisti avevano assistito alla morte orrenda di un minatore finito con la testa schiacciata sotto un macchinario. Mi chiedevano cosa fare. Continuare, accettare i rischi di quel lavoro o scappare via. Non sapevo cosa rispondere. Non avevano alternative. La più concreta sarebbe stata l'arruolamento in una cosca. Uno, in disparte, mi confidò la sua alternativa. Era fidanzato con la figlia di un impresario di agenzia funebre. Il suocero gli aveva già prospettato la possibilità di lavorare con lui. Ma non gli piaceva proprio. Rimasero tutti. E quando, nel '92 la miniera, che dava lavoro a 500 persone, fu chiusa perché non considerata più remunerativa ci fu la protesta massiccia della popolazione. Poi si sono sparse voci ripetute che la miniera sia divenuta un deposito occulto di scorie nucleari. Oggi saprei cosa rispondere. Suggerirei (cinicamente, fatalisticamente?) di accettare la miniera piuttosto che niente e di portare giù per precauzione una pillola di cianuro. E' quello che farei io per sopportare il rischio di 4 mesi di sepoltura, senza sapere l'esito del supplizio. Se non mi fossi premunito, chiederei che mi si recapitasse giù la pillola. Certo ci sarebbe un aspro dibattito politico sulla mia testa, con Gasparri e Cicchitto scatenati contro la sinistra per la sua disponibilità a consentire una dolce morte e contro Napolitano, ovviamente, se non intervenisse "in difesa della vita".

Avrei voluto dire ai miei stagisti che dovevano subire un ricatto pesante di lottare per rivoltare questa società come un calzino. Frase di circostanza: credibile solo se avessi condiviso la loro vita.

sabato 6 febbraio 2010

Francesca Pascale e le laureate di Berlusconi

All'infedele di Lerner di lunedì 1 febbraio, vedo e ascolto Francesca Pascale, consigliere provinciale a Napoli, espressione del nuovo personale politico selezionato da Berlusconi. Con occhi strabuzzati cerca di capire fra gli interventi troppo colti e “complessi” degli interlocutori dove stia l’inganno, dove e come stiano colpendo l’amato leader. Lerner – credo con perfida malizia da militante – la “oppone” ad intellettuali come la filosofa della scienza Francesca d’Agostini. La quale, ad esempio, annota quale caratteristica dei nostri tempi la possibilità di prevalere in politica con mezze verità, giacché nella velocità della comunicazione televisiva non c’è mai il tempo di verificare la “verità mancante”. Potrebbe riferirsi al taglio dell’Ici che può essere rivendicato, omettendo che ha riguardato i benestanti o che ha pesato sui bilanci comunali e sui servizi offerti ai meno abbienti. Potrebbe riferirsi all’apologia del calo degli sbarchi di clandestini, dove la verità omessa è che il maggior flusso di immigrati non proviene dagli sbarchi. Potrebbe riferirsi agli incentivi offerti al settore auto che hanno tenuto a galla la produzione e l’occupazione Fiat e però - verità mancante - come noterà a Tetris, ancora sulla 7, mercoledì 3 febbraio, il candidato “governatore” PD per il Veneto, Giuseppe Bortolussi, hanno avuto come effetto perverso un numero più consistente di posti di lavoro perduti nella piccola impresa dei manutentori, meccanici e elettronici, di auto. *

La Pascale dunque cerca di capire. Quando finalmente le è chiaro che sta arrivando un attacco alle ragazze dalla coscia lunga, giovane ceto politico del Pdl, la Pascale insorge: “sono ragazze laureate”. E’ la conferma della linea di difesa del Pdl rispetto agli attacchi malvagi della sinistra che mette in discussione la selezione politica di veline o comunque ragazze immagine. Al momento attribuisco alla pochezza della Pascale la banalità della replica stizzita. Come se una laurea potesse sostituire un curriculum. Ma giovedì 4 febbraio, su Otto e mezzo, l’assai più attrezzato ministro Brunetta, descrivendo il call center - Linea amica - del suo Ministero e lo staff che lo gestisce, mette anche lui le mani avanti: “sono ragazzi laureati”. Insomma, da un lato la laurea appare una foglia di fico su pratiche selettive opinabili, dall’altra denuncia una concezione rozza della cultura. Ma non abbiamo appreso da tempo che i nostri laureati nei concorsi, magistratura compresa, commettono errori di contenuto, ortografici e sintattici incredibili? E però la destra oggi vincente non è quella critica sui titoli di studio e sul loro valore legale. Tutt'altro. E’ invece la destra critica (e si capisce perché) verso la cultura. E ne dà un ennesima prova La Russa a Ballarò di martedì 2 febbraio, con l’atteggiamento irridente verso Tito Boeri, sì da provocare l’intervento sferzante di Anna Finocchiaro: “quando sento parlare di cultura - diceva Goebbels – metto la mano alla pistola”. Su cultura, istruzione e formazione permanente i prossimi post.



* Dalla annotazione della professoressa D'Agostini ricaviamo questo aforisma: politica politicante è l'arte di fare favori visibili a spese di danneggiati invisibili

martedì 2 febbraio 2010

Perché nessuno sia sprecato

Nessuno sia sprecato mi è sembrato essere la massima sintesi della mia visione politica. Non sono un dirigente politico. Non vivo di politica. Non sono fazioso. Vorrei esserlo un po'. Significherebbe essere meno problematico, tentennante, nevrotico. Sono iscritto da poco tempo al Partito Democratico. Mi considero però comunista perché non vedo soluzione possibile alle contraddizioni del mondo ed alla imminente crisi ambientale senza un nuovo (o un vero) comunismo. Non milito nei partiti che si chiamano comunisti perché, a mio avviso, non riescono a conciliare le riforme possibili oggi con la prospettiva futura. Si limitano a declamare. Comunque non potrei fare il politico. Non sono abile nelle mediazioni. Mi piace invece esprimere quel che penso e mi piace imparare dagli altri, anche dalla destra. Credo di aver appreso abbastanza dal pensiero liberale e qualcosa addirittura dal fascismo. Sono stato neofascista a 15 anni , liberale a 20, socialista a 25. Poi ho cercato il mio comunismo, neanche troppo scioccato dalla caduta del muro perché quello non era il mio comunismo.
Nessuno sia sprecato è la bussola delle mie proposte. Lo spreco della vita e lo spreco di vite mi appare il segno distintivo della nostra epoca. Sprecata è una vita consumata fra lotto e videopoker. Sprecate sono le vite e le competenze dei giovani e dei pensionati su cui abbiamo investito risorse e che escludiamo dalla possibilità di offrire un contributo all'economia ed alla vita sociale. I miei prossimi post svilupperanno questo tema.