domenica 11 dicembre 2011

Il capro espiatorio del 99%

Durante una conversazione futile, in cui purtroppo sono coinvolto, vien fuori l’episodio dell’attentato al dirigente di Equitalia, odioso esattore, ad opera di sedicenti anarchici. Uno – diciamo di orientamento destrorso - esclama subito: “gli farei un applauso (all'attentatore)”. E un altro, di orientamento analogo: “è stato il mio primo sentimento, poi mi sono detto, ma no” (bontà sua). Il terzo infine – un giovane “rosso” di area “centri sociali”: “ma sì, hanno fatto bene”.
Mi defilo di fronte all’invincibile alleanza degli “opposti estremismi” (come si diceva una volta); opposti in che cosa? Mi viene da pensare all’ultimo Crozza, che mostra il Bossi pensionato e un corteo di indignati, quelli che gridano "siamo il 99%" contro banchieri e finanza. Nel segno dell’odio verso i cosiddetti “poteri forti” il leader leghista e gli “ultrarossi” trovano una entusiasmante sintonia. Che bello trovare il colpevole nell’1% e noi tutti al calduccio nella solidarietà del 99% che non arriva alla fine del mese (chi con 500, chi con 5.000, chi con 50.000 euro mensili).
Oggi poi rifletto all’assalto contro il campo rom di Torino per punire presunti stupratori, in realtà inventati da una ragazzina che ha trovato nella “cultura” della comunità un facile capro espiatorio per spiegare un rapporto sessuale. Anche qui tutti uniti, stavolta contro esponenti di un diverso 1% , di rifiuti umani. Certo con vocazioni abbastanza segnati dal censo e dal livello d’istruzione, con i laureati che prediligono indignarsi contro i banchieri e la speculazione (di cui sono parte i fondi pensione, ma non è il caso di dipanare il filo che lega i buoni ai cattivi) e i malamente scolarizzati (spesso, come pare a Torino, ultra del calcio in crisi di astinenza) che prediligono i rom . Ma va bene lo stesso. Banchieri e rom i diversi. E noi cittadini “normali” , imboscati in lavori di comodo, piccoli e grandi produttori di armi e videogiochi, evasori grandi e piccoli, costruttori e abitanti di case abusive, inquinatori/ inquinati, percettori di pensioni di invalidità indebite, e anche onesti e produttivi lavoratori, larghissimo, smisurato, innocente ceto medio, a subire quell’1% che ci sta sopra e quell’1% che ci sta sotto. Senza sospettare, senza la fatica di pensare che un mondo nuovo non sopprimerà solo banchieri e rom: dovrà cambiarci tutti fino a renderci irriconoscibili a noi stessi.

P.S. Ma poi gli spavaldi assalitori di zingari, compreso l’errore, si saranno suicidati, presi di vergogna e senso di colpa? O no? Quanto durerà il sonno della ragione?

sabato 3 dicembre 2011

L'economia reale del pensionato

Carissimo presidente, la ringrazio per aver voluto ascoltare fra le parti sociali anche la voce dei pensionati. La sorprenderò perché vengo a sottoporle, a loro nome, una proposta di tagli massicci alle pensioni. Possiamo discutere dei particolari, ma in sintesi i pensionati ritengono che sia accettabile un taglio netto, chiaro e visibile alle loro pensioni. Non l’imbroglio del blocco degli adeguamenti Istat. Diciamo un taglio del 30% , almeno a partire dalle pensioni di 1.500 euro. Un po’ di più oltre, meno per le pensioni inferiori, nulla sotto i 1000 euro. Siamo abbastanza generosi? Non è una offerta senza contrapartita naturalmente. Adesso le elenco le nostre ragionevoli contropartite.
La prima è che il governo assuma il punto di vista del lavoro come valore e come unico valore reale dell’economia. Se assumerà questo punto di vista, ovvio, banale, costituzionale, ma dimenticato, alcune conseguenze verranno da sole. E noi pensionati recupereremo presto il 30% che avremo inizialmente sacrificato. Non facciamo ideologia. Pare che si debba rassicurare su questo. Credo significhi soprattutto che non si pretenda il socialismo o cose simili. Non lo pretendiamo, purché si realizzino quelle poche cose concrete che chiediamo Diciamo che è ragionevole, magari opinabile e oggetto di conflitto, ma comunque ragionevole che Stato o imprese private cerchino di retribuire al minimo il lavoro. Non è assolutamente ragionevole che piuttosto che mettere al lavoro, si preferisca mantenere nell’inattività retribuita giovani dotati di intelligenza, competenze ed energia o anche giovani non particolarmente competenti, ma capaci di cuocere un uovo al tegamino. Non è neanche ragionevole e immagino che produca decrescita (sennò l’economia degli economisti sarebbe una cavolata) far cuocere l’uovo al tegamino al giovane che potrebbe contribuire a sconfiggere il cancro e dare un ruolo di ricercatore a un tale che più efficacemente potrebbe cuocere l’uovo al tegamino. Non è ragionevole che ci vantiamo di avere un tasso di disoccupazione inferiore alla media europea, non preoccupandoci dell’assai più vasta platea di cittadini inattivi che hanno smesso di cercare lavoro e di studiare e se ne stanno a casa a farsi angariare dai mariti o nelle sale di videogiochi o di scommesse a spendere il salario di genitori e nonni. Non è ragionevole che sia sprecata l’intelligenza e l’energia dei “giovani” anziani, non incentivando la permanenza nel lavoro, magari part-time. Non è ragionevole che oggi non si chiami al lavoro il pensionato ozioso nei giardinetti, verificando cosa possa fare utilmente. Molti pensionati di medio-alta cultura – le assicuro – assisterebbero volentieri adolescenti e giovani in spazi di doposcuola. Altri starebbero bene nelle mense scolastiche o aziendali. I più giovani e in forma fisica libererebbero volentieri i tombini delle foglie per prevenire i prossimi allagamenti o sarebbero felici di rimboscare le colline prevenendo le prossime frane fatali. Forse lo farebbero gratis. Ma paghiamo loro 200 euro mensili per un lavoro part- time e li faremo esplodere di felicità. Non mi dica che sarebbero soldi sprecati. Significherebbe che l’economia non è una cosa seria. Ci sono erbacce che imbruttiscono migliaia di siti archeologici e ci sono toilette sporche o senza sapone che rendono sgradevole il soggiorno dei turisti e la mobilità. Rimediare a questo è banale? Ma non è assurdo che il paese più bello del mondo non sia il primo paese visitato da turisti? Non è assurdo che questo paese mostri metro insozzate e fatiscenti con ragazzini viziati e superdotati di aggeggi elettronici, in mano, nelle orecchie, forse nel naso, stravaccati, indolenti, sulle sedie. Non è opportuno mettere al lavoro questi poveri ragazzi per redimerli dal rimbecillimento? Non è opportuno riportare a scuola i loro genitori per imparare il mestiere di padre o di madre? Che significa veramente, presidente, l’espressione “non c’è lavoro”? A noi sembra che ci sia un sacco da fare e lavoro per tutti e che anzi sia urgente cancellare per questo i finti lavori, talvolta anche super-retribuiti. C’è da cancellare metà degli uffici che producono carte e tre quarti dei consigli di amministrazione (forse di più, forse tutti) in cui personale politico, parapolitico e parassita acquisisce reddito a spese di chi lavora.
Se i pensionati si dimostrano disponibili a un contributo massiccio per ripianare il debito e mettere al lavoro gli inattivi, sarà facile per lei chiedere sacrifici analoghi ad altre categorie. Esistono gli strumenti per combattere l’evasione. Li applichi e intanto lavoriamo insieme a un nuovo senso comune che produrrà anche una nuova giustizia. L’evasione non è cosa meno grave di una rapina a mano armata. La si punisca allo stesso modo.
E si punisca allo stesso modo la corruzione. E si smetta di oltraggiare la povertà e la bellezza con l’esibizione sciocca di panfili e ville che deturpano il paesaggio.
Se tutti saranno chiamati a sacrifici analoghi ai nostri, ci saranno risorse per abbattere la tassazione sulle imprese e sul lavoro. Se risulteranno impraticabili i favori, molti imprenditori saranno costretti a occuparsi di interpretare la domanda, ad acquisire le migliori tecnologie e le migliori competenze. Riesce a immaginare le energie liberate dalla nuova consapevolezza che lo studio e il merito saranno premiati? Diventeremmo quel che sarebbe naturale essere: il paese più ricco del mondo, grazie alle eredità straordinarie ricevute dalla storia che immeritevolmente abbiamo alle spalle, noi nani sulle spalle di giganti.
In cambio del nostro piccolo sacrificio chiediamo certezze per i nostri figli e nipoti. Che siano aiutati da qualcuno, competente (i raccomandati li pensiamo estinti), nelle scelte di carriera. Che, quando disoccupati, entrino in un comparto pubblico che proponga mix di formazione, ri-orientamento e lavoro cosiddetto socialmente utile. Che in tale fase ci siano operatori esperti capaci di individuare e proporre talenti alle imprese. Che comunque tutti ricevano sempre un salario minimo sociale, equilibrato per non indurre alla inattività. Che sia generalizzato il prestito d’onore per lo studio, per l’avvio di un’attività imprenditoriale, per mettere su casa e famiglia.
Infine le propongo di avviare una rivoluzione culturale. E’ tempo di avere il coraggio di pensare l’impensabile. Non è scontato, anche con le nostre proposte, che la vita degli anziani, sempre più lunga, diventi una vita bella da vivere. A maggior ragione se queste proposte non fossero accolte, restituendo i pensionati alla vita produttiva e sociale. Si tratta semplicemente di lavorare al superamento del tabu della morte. Un giorno forse capiremo tutti che non ha scopo prolungare con la vecchiaia una lunga dolorosa agonia. Ha pensato, presidente, quali incredibili economie si realizzerebbero se tutti i pensionati in un colpo solo ponessero fine alle loro inutili vite e le loro pensioni fossero acquisite dallo Stato? Abbatteremmo il debito pubblico e daremmo nuovo .decisivo slancio all’economia. Auspicando, si intende, che non si torni ai vizi della vecchia economia, quella che ci ha insegnato che il lusso e lo spreco producono domanda, lavoro e sviluppo.

mercoledì 30 novembre 2011

Magri, Monicelli e le domande impronunciabili

Lucio Magri era un uomo molto affascinante. Il fascino gli aveva regalato una vita piena di amori. Era un uomo molto intelligente L’intelligenza non gli aveva consentito di prevedere il futuro e la sconfitta meglio di quanto possa fare un qualsiasi idiota. Era un uomo molto colto. La cultura gli ha consentito di trovare una morte “igienica”, senza sangue, in una clinica svizzera specializzata. Non come Monicelli che sceglie di schiantarsi sull’asfalto. Magri è morto da politico, non solo perché intenzionato – come ha sostenuto l’amico Valentino Parlato – a denunciare la società colpevole di un fallimento sociale e del suo fallimento, di Lucio, ma anche perché capace di immaginare il mondo senza di lui: gli amici in attesa della notizia, il suo corpo senza vita sepolto accanto a quello della moglie amata. Non potendo e non volendo capire che non avrebbe mai saputo di questo, che morendo non avrebbe assistito alla propria morte e morire sarebbe stato subito come non essere mai nato (avrebbe dovuto insegnarglielo Lucrezio). Perciò il suo suicidio è più colto di quello di Monicelli che però è più cinico e intelligente, nella consapevolezza che non ci fosse rituale meritevole di essere osservato, che non avrebbe sofferto assistendo al dolore di congiunti per il corpo straziato, e che non avrebbe mai goduto del cordoglio di amici e parenti. Magri muore come uno stoico romano felice di lasciare memoria onorata di sé, come un samurai. Ritualmente. Monicelli si butta via, semplicemente, come nel settembre 2001 si buttavano dalle Due Torri per sfuggire a una morte più lenta e atroce. Perché conservare la vita per i minuti e i secondi utili al fuoco a realizzare la sua tortura fino alla morte? Serviva a Monicelli conservare la vita aspettando che malattia e dolore finissero di torturarlo? E poi la domanda terribile, di fondo, che ci è vietata: serve conservare la vita, innamorandosi, essendo abbandonati dall’amata, sgomitando, proteggendo i propri figli e uccidendo i figli altrui, se si sarà inghiottiti comunque dal nulla? E’ diverso 30, 40, 100 anni, con l’infinito nulla davanti?
Questa domanda ci è vietata. Ci è vietato disporre liberamente di noi, almeno tutte le volte in cui è possibile imbrigliare la pulsione di morte. Oggi dibattiamo sul nostro spazio di libertà, entro i margini assegnati dalle leggi degli Stati, tutte le volte in cui non possiamo o non vogliamo fare da soli. Sono, quelli degli Stati, divieti che incidono sulla minoranza degli aspiranti suicidi, la minoranza dei più sofferenti e inermi, come Welby e Englaro. Divieti esemplari che non impediscono ai più, disoccupati e piccoli imprenditori falliti, detenuti senza speranza e ascolto nelle carceri affollate, di por fine alla vita.
Eppure – lo so – non possiamo consentire pubblici suicidi. Non possiamo guardare il morituro che beve il farmaco mortale come se bevesse una gazzosa, o lasciarlo volare dal tetto come se avesse un paracadute.
Allora ci insegnano a distinguere, come se nelle distinzioni che a me paiono futili risiedessero verità, giustizia e pietà. L’Olanda consente l’eutanasia attiva, col medico che direttamente procura la morte. La Germania consente l’ eutanasia passiva, interrompendo cure inutili perché incapaci di evitare la morte. Stupenda ipocrisia perché comunque la morte è accelerata dalla fine delle cure. Se la vita fosse un valore in sé, ogni attimo di vita sofferente avrebbe valore. In Svizzera è consentito il suicidio assistito: è il morituro che si propina il farmaco mortale procuratogli dalla clinica che lo assiste. Già perché pare essenziale che non sia il medico a compiere l’atto meccanico e “omicida”. In Italia il dibattito è sul quesito se sia terapia l’alimentazione e l’idratazione forzata. Chissà, forse quando apparirà insostenibile per la divina economia mantenere in vita malati nel corpo o nello spirito, manovra dopo manovra, si creerà un nuovo senso comune che faciliterà gli esodi dalla vita.
Fare la vita meritevole di essere vissuta non riguarda governi, parlamenti e banche. Dicono che è tema da filosofi: insomma non è argomento serio. Lucio Magri avrebbe considerato insopportabile il confronto fra le ragioni dei clericali e quelle prossime a venire degli economisti.

domenica 20 novembre 2011

La democrazia violata di Lerner e la "megliocrazia" di Gramellini

Piccole riflessioni su due pezzi usciti contemporaneamente, lo scorso 3 novembre, che, benché di due giornalisti dalle opzioni culturali e politiche non troppo distanti, apparivano assolutamente opposti. Il tema è attualissimo nel momento in cui il rapporto fra competenza e politica, con il governo Monti, divide le culture e rischia di rompere le alleanze costituitesi “contro”. Lerner e Gramellini vedevano il problema dal lato dei cittadini votanti. La premessa è costituita dal massiccio dislocarsi a destra di masse popolari (divenute "plebi", paghe di “panem ed circenses” ) sicché appare sempre più vera l'ingenua classificazione politica dei ragazzini del film di Virzì "Caterina va in città": “Cos'è la destra? Il partito dei poveri. Cos'è la sinistra? Il partito dei ricchi”. Venuta meno o entrata in crisi “la lotta di classe”, municipalismo, razzismo, agonia della politica trascinano a destra e a votare contro se stessi i meno ricchi di reddito e di cultura. Al contempo cresce il bisogno di democrazia di masse giovanili deprivate di reddito e futuro ma fortunatamente - anche grazie alla rete – attrezzati di informazione e cultura.
La retromarcia sul referendum greco è contestata da Lerner in nome della democrazia (non ricordo se Lerner contestasse egualmente il golpe militare algerino che annullò la vittoria democratica degli islamisti).* Gramellini invece "sembra" militare contro la democrazia, guardando all'incapacità popolare di scegliere il bene (e il proprio bene) e sembra auspicare quella che chiama "megliocrazia". Il termine di fatto appare un calco di “aristocrazia”, pur senza i privilegi di sangue propri di quest’ultima. Sposando un argomento dell'antico Platone (contro i sofisti/democratici dell'epoca) Gramellini si chiede come mai sia normale chiedere la patente per un pilota d'aerei (Platone, se ben ricordo, parlava di nocchiero) e non altrettanto per il cittadino votante.** Dimostri il cittadino insomma prima del voto la sua cultura politica. Ritengo che Gramellini intendesse provocare (amo i provocatori dialettici più di chi dice cose facilmente applaudibili). Di fatto la provocazione di Gramellini va dialetticamente accolta, conducendo alla necessità di una pedagogia nazionale e di investimenti ( a scuola, nelle TV di servizio) in tutte le tematiche riconducibili alla cultura del cittadino: diritto - costituzionale, soprattutto - economia, storia politica, etc. , nonché a una attenzione "trasversale" alla cittadinanza a scuola di tutte le discipline, con la matematica che prenda esempi dalle grandezze economiche di un bilancio statale, oltre che dal tempo richiesto alla famosa vasca per riempirsi, e ad una filosofia della comunicazione che insegni a sospettare e demistificare gli inganni. Platone aveva torto perché il bravo pilota sarà bravissimo a salvare se stesso e i suoi cari, sacrificando gli altri passeggeri. Però ci conduce al disastro chi promuove referendum a cittadini che siano stati privati degli strumenti culturali per autotutelarsi. Oggi si stima che il 68% degli italiani sia “analfabeta funzionale” , incapace di comprendere il significato di un testo di media complessità: un manifesto politico argomentato, un articolo di giornale (che infatti non legge e non compra). L’istruzione è da troppo tempo un'emergenza democratica.
*http://www.gadlerner.it/2011/11/03/se-un-referendum-semina-il-panico.html

**http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/grubrica.asp?ID_blog=41&ID_articolo=1079&ID_sezione=56

sabato 12 novembre 2011

Alleluia, ma chi ha vinto?

Dopo un pomeriggio e una serata davanti alla TV. E' una sensazione strana. La festa nelle piazze e sul web. Ma anche in me una sensazione come di lutto. La perdita di un avversario ingombrante, che riempiva troppa parte della mente. Faccio qualche intervento su fb. Ne faccio uno sulla pagina del mio concittadino Fabio Granata, finiano radicale e borselliniano. E' una pagina piena di commenti trionfanti e insultanti. Il mio intervento pare troppo moderato a un finiano che mi obietta che la stagione berlusconiana non è conclusa e che bisognerà fare i conti con l'inquinamento provocato da Berlusconi nella società italiana. Beh, lo penso anch'io. E mi chiedo: "ma cosa diavolo mi differenzia (differenzia noi di sinistra) dai finiani (dagli ex neofascisti)?" Forse un po' di moderazione in più. Io per esempio mi preoccupo di non fare sentire perdenti le casalinghe e i pensionati che tifavano per lui perché "è ricco di suo", "gli piacciono le donne, embè?", "sono tutti invidiosi", "fa una bella televisione", "ha fatto vincere scudetti e coppe dei campioni al Milan", etc. Non si possono agitare bandiere di vincitori in faccia a chi si sente sconfitto. Non si può sottrarre bruscamente un mito, per sottrarsi alla fatica di aiutare a fare a meno dei miti. Altrimenti c'è il rischio di un terzo uomo della Provvidenza e non so se l'Italia sopravviverebbe al terzo. Bisognerà spiegare pazientemente alla casalinga e al pensionato che oggi hanno vinto anche loro.

C'è la gioia certo. E c'è la ricerca dei meriti. Penso a Napolitano, il terzo consecutivo grande presidente cui è toccato di tenere a bada il mostro populista e di tenere un po' unito il paese. Penso a Fini, al coraggio di una svolta e di un tuffo nel buio e agli ignoti pedagoghi che lo convertirono alla democrazia (la nuova moglie, il Presidente Napolitano?). Penso poi alle vittorie di Milano e di Napoli e alla scoperta che la mitezza radicale (Pisapia) e l'energia scompaginante (De Magistris) potevano sfondare a destra perché è vero che non sempre ci si muove prudentemente da destra a sinistra chiedendo il permesso al centro. E poi la vitalità dei giovani (di una parte dei giovani, quella non istupidita dal tifo, dai videogiochi e dalla disperazione) nei referendum e nelle battaglie per la scuola. Gli arrampicatori sui tetti. Le lotte operaie. Il grande movimento femminile di "Se non ora quando", in nome di una identità di genere offesa. Libertà e giustizia. Gli indignati.

Adesso non c'è lui. La politica fa fare il lavoro duro ai tecnici. Sarà difficile obiettare qualcosa al papa straniero, magari in nome della equità che ci è ancora cara. Anzi bisognerà essere contenti di non poter obiettare perché le obiezioni contrapposte farebbero naufragare il vascello comune. Molti dubbi e molte ansie quindi. Però stasera ho sentito la solita furente Santanché aggredire un giornalista con questo geniale argomento: "Come fa a essere contento? Lo sa che la nomina di Monti ci costerà 25.000 euro al mese?" Insomma, domani mi sveglierò e saprò che man mano svaniranno tutti quelli della corte dei miracoli: Santanché, appunto, Gelmini, La Russa, Cicchitto, Gasparri. Già l'Italia mi appare più bella.

domenica 30 ottobre 2011

Sandro Usai e Sisifo che puntella l'Italia

La mia motivazione è solo quella di ricordare un oscuro eroe dei nostri tempi e di lasciarne traccia elettronica, anche su questo blog. Così giustifico il ripetere cose che forse tutti sapete, leggendo del disastro nelle Cinque Terre e nella Lunigiana. Sandro Usai era un sardo di 38 anni, da dodici anni a Monterosso (La Spezia) dove si era ben integrato facendosi ligure. Il suo datore di lavoro nel ristorante dove lavorava e che era anche suo "capo", come coordinatore della locale Protezione civile, descrive l'attività incessante di Sandro che "arrotondava" con altri mestieri, per dire che "non faceva il volontario perché aveva tempo da perdere". Volontariato come vocazione profonda, il suo. Armato di tale vocazione, Sandro, alle prime avvisaglie del disastro, lascia la moglie che inutilmente cerca di trattenerlo e che riesce solo a farsi lasciare l'orologio (perché non si sporchi). Così, dopo avere salvato - riferiscono - innumerevoli vite, è travolto dal fango e muore. Sandro, sardo/ligure è fra gli italiani che testardamente ricuciono il Paese, con i suoi tanti idiomi, con i suoi tanti municipi. E' fra gli italiani che puntellano l'Italia che frana, letteralmente e metaforicamente. Come Angelo Vassallo che pagò con la vita la difesa del suo territorio. Come Libero Grassi che pagò lo stesso prezzo perché la sua sfida pubblica alla mafia ridestasse le coscienze. L'analogia con Sisifo è forse discutibile. * Allude a un sacrificio che pare continuamente vanificato. Talvolta metto l'accento sulla inanità del sacrificio. Poi mi dico che l'Italia, imbruttita dal cemento e franata, sarebbe orrenda e sepolta dalle colline abbandonate e franate, senza quei sacrifici. Venerdì scorso Carlo Petrini (la Repubblica) svolge una analisi impietosa di un modello di sviluppo (si fa per dire...) che negli ultimi dieci anni ha costruito quattro milioni di case, mentre si stima l'esistenza di cinque milioni e duecentomila case vuote. Analogo discorso per i capannoni industriali. ** Poi Petrini ci consola con la buona notizia della costituente Assemblea Nazionale del Forum dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio.*** E il Bene Comune appare la bandiera di movimenti diversi, di persone diverse che, dibattendo e facendo, come Sandro, si oppongono all'egoismo e all'apologia del privato e dell'incuria. "Il privato - osserva Petrini - non può privare il resto della comunità di qualcosa d'insostituibile e di non rinnovabile. Il privato non può privare." Da un lato - è il senso di un intervento di Michele Serra, lo stesso giorno, anche lui su la Repubblica - un fare inconsulto, dall'altro un non fare altrettanto distruttivo, l'abbandono delle colline e la mancata manutenzione di fiumi , canali e argini. Secondo il Presidente della Regione ligure, Claudio Burlando, il non fare sarebbe stato all'origine del disastro nelle Cinque Terre. Tutto lì - osserva Michele Serra - suggerisce la necessità della cura, dell'attenzione e della fatica. E conclude domandandosi: "Ma è una fatica che siamo ancora in grado di affrontare, non solo come classe dirigente, dico proprio come cultura diffusa, come idea corrente del nostro paese?" **** I Sisifo del nostro tempo sembrano accettare la scommessa, a prezzo della vita alla quale comunque conferiscono senso. "Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice", dice Camus. Così, felice, immagino Sandro Usai. * Ho trovato sul web questa rivisitazione complessa di Camus riguardo il mito di Sisifo http://sottolanevepane.splinder.com/post/12932126/albert-camus-il-m... ** http://www.slowfood.it/sloweb/C27451721919b1C471xs7C6E1F00/una-gran... *** www.salviamoilpaesaggio.it **** http://triskel182.wordpress.com/2011/10/28/i-colori-gioiello-delle-...

lunedì 24 ottobre 2011

Manifesti per tutti i politici, per nessuna politica

Sempre più difficile. Sempre più difficile attribuire una icona, uno slogan, un manifesto a un soggetto politico. Infatti nei giorni scorsi ho vanamente logorato il mio cervello per capire chi fosse l’autore di manifesti che invadevano i muri di Ostia. Un salvagente con su scritto Salviamo la politica e dentro Basta con le solite facce. Salviamo la politica è parola d’ordine oggi variamente spendibile. E’ una richiesta di cambiamento che vuole sottrarsi alle accuse di qualunquismo e antipolitica, acquisendo il lasciapassare per menare fendenti alla politica attuale. A tutta la politica appunto. Un po’ come nel manifesto di Della Valle, ad esempio. L’appello dentro il salvagente - Basta con le solite facce - aggiunge qualcosina. Sicuramente – ho pensato - è un appello per mandare a casa, in villa o in barca Berlusconi, Bersani, Casini. Uno di loro o tutti loro; questo particolare non è chiaro. Ma chi sarà l’autore – singolo o collettivo - del manifesto? Potrebbe essere un coetaneo di Casini o di Bersani o di Berlusconi, solo meno logorato dalla lunga esposizione in quest’epoca che distrugge credibilità e reputazione. O forse la polemica è contro la generazione dei padri. Come improvvisato Sherlock Holmes nella semiotica della politica, vado per esclusione o per approssimazioni successive. Mi sento quasi di escludere che possa trattarsi di uno del Pdl. Sarebbe un manifesto implicitamente oltraggioso per il grande leader e questo da quelle parti non dovrebbe essere consentito. Fra Udc e Pd trovo più probabile quest’ultimo. Nel Pd è tollerato e facile sparare sul quartier generale e sul leader. Anzi è segno di personalità e indipendenza. Il manifesto potrebbe essere di Renzi o di un renziano , giusto? Sì, potrebbe. Potrebbe essere di Grillo o di un grillino? Improbabile. E’ troppo moderato. Un grillino non direbbe solite facce . Direbbe facce di c… come minimo. Così non mi resta che aspettare un secondo manifesto che sciolga l’enigma. Che arriva. Accidenti, ho sbagliato tutto. E’ proprio di un politico del Pdl; l’ipotesi che avevo quasi escluso. E’ di tale Fabrizio Santori, consigliere del Pdl di Roma Capitale. Che nel secondo manifesto sostituisce Diamo valore al merito a Basta con le solite facce.   Già, ma chi è contrario al merito? Quale rivoluzione promette l’ignoto Santori? Contro chi? Contro la Minetti o la Gelmini?  In conclusione mi viene da pensare che ci siano agenzie di comunicazione con il loro bravo repertorio di slogan, immagini e icone a disposizione del primo compratore. “A chi hai venduto Basta con le solite facce -chiede il direttore dell’agenzia al collaboratore - al Pdl, a Di Pietro o al Partito dei comunisti italiani? Ma non lo avevamo venduto al Pd? Ah, al Pdl? E il Pdl prende pure il seguito - Diamo valore al merito - o quello lo vendiamo al Pd? “. Aspetto manifesti che abbiano il coraggio di dire: Nessuno a mendicare. Nessuno senza salario. Salario di cittadinanza. oppure Fiducia nei giovani. Prestiti d’onore per tutti: per studiare, metter casa, intraprendere. oppure Prendiamo sul serio la Costituzione. Nessuno senza scuola, nessuno senza lavoro. oppure Manette agli evasori prima. Ai rapinatori dopo. oppure, addirittura Chi sta meglio non guadagni più di dieci volte di chi sta peggio. Oppure messaggi che dicano il contrario, purché osino dire qualcosa.

sabato 22 ottobre 2011

La passione di Gheddafi, come Cristo in croce

E’ strano che io, ateo, debba cercare condivisione e conforto in Cristo. I cristiani non contesteranno l’analogia fra il calvario del dittatore e quella di Cristo. Credo. Sennò, pazienza. Mi è mancato il respiro, gli occhi mi si sono gonfiati di lacrime e ho odiato la mia appartenenza alla razza umana. Questa la mia reazione alle scene bestiali che la TV mi ha mostrato. Avevo registrato il compiacimento dei leader europei e statunitensi, il requiem incredibile e gaglioffo del nostro premier “sic transit gloria mundi”. Gli intellettuali e gli opinionisti del civile Occidente hanno preso le distanze: non doveva morire così. Poi hanno preso le distanze dalle distanze: non dimentichiamo le stragi operate dal dittatore e le torture sugli oppositori e comprendiamo la rabbia di un popolo. Comprendiamo o giustifichiamo? Il comprendere è dono dell’intelligenza, la giustificazione che assolve in nome della legge del taglione è figlia della barbarie. Qualcuno mi dice che la mia emozione è indotta dai mass media. Abbiamo visto lo scempio sul corpo ferito e poi ucciso di Gheddafi. Non abbiamo visto altri e numerosi scempi di cui furono autori gli uomini del dittatore. Vero. Infatti piangendo per Gheddafi piango per le sue vittime. So anche che è una storia che si ripete, naturalmente. I cadaveri di Mussolini, dei gerarchi e di Claretta per terra a Piazza Loreto. Tra la folla c’è chi lancia ortaggi sui cadaveri, chi esplode colpi di pistola sui corpi, chi orina sul corpo della Petacci. E nessuno, no, fra le autorità del nuovo ordine democratico nascente che sappia sfidare l’impopolarità, contrastando lo scempio. Poi i corpi appesi e l’intimità di Claretta (colpevole di che? Di avere amato un dittatore), priva di biancheria, pietosamente protetta, prima con uno spillone da una anonima Maddalena, poi dalla cintura di un sacerdote, cappellano della Resistenza: i giusti e pietosi da cui ripartire . Non credo che la Resistenza – con lo Stato democratico cui diede vita - che celebriamo e che celebro possa mai veramente sanare quelle sfregio. E’ parte ineliminabile della nostra formazione, del legno storto della nostra umanità: qualcosa che silentemente ispira le viltà e le ferocie di ogni giorno. “Dal dí che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d’ altrui”. I versi del Foscolo sono nelle mie orecchie in queste ore orribili. Il civile Occidente ripudia i linciaggi. Ai nemici la morte vien data senza guardarli negli occhi, senza odio, professionalmente. Anche agli innocenti se il massacro serve a impedire morti più numerose. Come a Hiroshima e Nagasaki. Anche a distanza di anni e decenni nel caso di esecuzioni capitali. Come avvenne con Charil Chesmann – prima assassino (forse), poi scrittore – per il quale non si poté fermare la macchina anonima e burocratica che lo consegnò alla camera a gas. Grazie alla “invenzione” dei tribunali e della giustizia, il colpevole non è più linciato per strada. Al più è torturato e ucciso a Guantanamo e nelle caserme di polizia e carabinieri. Senza darne spettacolo. Dobbiamo sapere apprezzare questo. Dobbiamo ricordarci di apprezzare questa misura e questa ipocrisia. E’ il segno che qualcosa nel disegno di incivilimento tiene e non consente di esibire l’infamia. Non so se saprebbero essere d’accordo le Antigone dei nostri giorni, Lucia e Ilaria, sorelle di Giuseppe Uva e di Stefano Cucchi. Ho detto per Chessmann di una macchina burocratica che non si riesce a fermare. Volevo ricordare che forse nessuno allora – anche fra i più colpevolisti – avrebbe schiacciato il bottone per uccidere l’assassino, dodici anni dopo la condanna. Era sentimento comune che l’uomo che si mandava a morte era un altro uomo rispetto a quello condannato a morire atrocemente. Solo non si può dichiarare questo. Dobbiamo fingere di credere all’identità e alla responsabilità di ogni uomo, per sempre. Dobbiamo credere che il fiume x sia sempre quel fiume, anche se nulla resta delle acque che lo costituivano. D’altra parte credere nel cambiamento è credere nella educabilità dell’uomo: educabile dalla scuola, dagli eventi, dalle tragedie. Così io credo che il Gheddafi colpito dai civili razzi della Nato (ma il mandato dell’Onu non era limitato alla no fly zone?) e poi oltraggiato e ucciso dalle folle selvatiche non fosse più il dittatore probabilmente assassino, sicuramente tronfio e vanitoso, cui si offrivano giovani vergini. Lì nella Sirte c’era un’altra persona, un animale ferito, solo e atterrito, che chiedeva pietà e ha visto l’inferno. Vorrei poterlo consolare, insieme alle sue vittime. Non posso dirgli, da miscredente, le parole che Cristo pronunciò verso il ladro e assassino che gli moriva accanto, pentito, altro uomo (come io traduco), promettendogli il paradiso. Potrei dirgli: è successo, ma è passato. Non hai memoria per fortuna del male che hai fatto e che hai ricevuto. Potrei citargli Lucrezio e la promessa dell’oblio, morire come non essere nati: “come nulla sentimmo quando i Cartaginesi invadevano le nostre contrade, nulla sentiremo…” (De rerum natura III, 2). Potrei dirgli: “ l’Onu e Amnesty International sembrano voler indagare sull’assassinio e rendere giustizia a te che fosti ingiusto.” Che non tutto è perduto ancora per l’umanità.

giovedì 20 ottobre 2011

Di che si occupa la politica?

Sono chiuso a casa. Fuori, qui nella verde Ostia, col temporale, è un fiume di fango con tombini intasati dalle foglie cadute e fognature esplose (ah, i ricorrenti e infruttuosi dibattiti sulla manutenzione, alle prime piogge).Torno a casa, mi munisco di stivali perché dovrei raggiungere mia moglie a casa di mia figlia a 200 metri di distanza, non so se a piedi o con l' auto parcheggiata non lontano. Rinuncerò ad andare sia a piedi che in auto. Mentre sul marciapiedi mi riparo sotto un balcone, cercando di decidere, mi raggiunge un cittadino, come un reduce di guerra. Poggia contro il muro uno alla volta i piedi con gli stivali per riassestarsi e poi la domanda che è come una sentenza, pronunciata quietamente, disperatamente, senza aspettare risposta, senza guardarmi: "Di che si occupa la politica?". E va via. Amen.

martedì 18 ottobre 2011

Rimuginando con l'ultimo Infedele: i giovani e il bene comune

Rimuginando con l’ultimo Infedele: i giovani e il bene comune I giovani inventano nuove modalità politiche – orizzontali – e nuovi linguaggi. Avevamo visto la scalata e l’occupazione dei monumenti e poi gli scudi con i classici (l’Eneide, I promessi sposi) a difendere la cultura insidiata. Poi le parole d’ordine dei primi indignados, i giovani spagnoli del maggio scorso): Democracia real Ya/ Democrazia reale subito, Non abbiamo eletto i banchieri, etc. Ora la casta dei politici ignorata e l’immagine in cartapesta dei Draghi che alludono all’unico interlocutore, nemico vero. E poi, in tutto il mondo quel Siamo il 99%. (ma non riusciamo a contare lo stesso perché – immagino – non sappiamo di esserlo oppure perché le “contraddizioni in seno al popolo” rendono inerme la maggioranza). All’Infedele ieri ne abbiamo visto altri sviluppi. Gli accampamenti con le tende in piazza Santa Croce in Gerusalemme, come in tutto il mondo più spesso accanto ai luoghi del potere (pulsione all’espropriazione ovvero a una riappropriazione collettiva). Il rifiuto della rappresentanza ovvero l’assenza di leader (se il portavoce non ne sarà prima o dopo il sinonimo). E poi i nuovi linguaggi non verbali con l’approvazione e la disapprovazione espresse con l’agitare le mani in alto o con l’incrociare le braccia (per non interrompere chi parla e per “marcarlo” con feedback continui). E infine nel movimento l’espressione più insidiosa, maturata nel referendum contro la privatizzazione dell’acqua: il Bene comune come spazio sottratto al mercato, uno spazio che si allarga o può allargarsi al territorio, all’ambiente, alla cultura e alla scuola, alla sanità e che potrebbe – teorema dopo teorema -allargarsi ancora fino a sopprimere il mercato. Lo slogan della Fiom , Il lavoro bene comune, è già a un passo da quella conclusione. Dicono però che Il Bene comune vuole essere solo un terzo spazio, diverso dal privato e dallo statale. Diverso dal privato è chiaro, diverso dallo statale o pubblico (stato, regione, comune) un po’ meno. Anche se i fautori del Bene comune debbono erigere salutari barriere semantiche per l’assonanza con l’impronunciabile Comunismo. Noi che non siamo nostalgici o “ideologici” aspettiamo di capire come si disegnerà tale spazio comune non burocratico, non stagnante, che vuole essere diverso dal socialismo reale conosciuto. Intanto Stracquadanio non ci sta e all’Infedele demistifica a suo modo lo spazio insidioso del Bene comune, mostrandone le ascendenze statalistiche. Egualmente, il campione dello status quo irride alle ipotesi di salario di cittadinanza che – orrore! – sarebbe pagato da bilancio statale ergo dal debito pubblico in cambio di nessun lavoro, per fare niente. E fortunatamente Stracquadanio non conosce o dimentica la proposta di una dote di cittadinanza – per lo studio, per l’inserimento sociale - cui aver diritto per il solo fatto di essere nati, proposta rilanciata dall’odiato Draghi (odiato da Stracquadanio e dai suoi avversari, insomma da tutti). Lerner è tollerante come non mai con i suoi giovani ospiti in studio e da piazza Santa Croce in Gerusalemme. Nel passato avrebbe rintuzzato con ira chi pretendesse di suggerire inquadrature o di passare parola al compagno. Anche lui probabilmente vittima dei sensi di colpa verso la generazione tradita. Sui violenti incappucciati solo qualche accenno. L’implacabile Stracquadanio interessato a non separarli dai manifestanti pacifici e la Dominijanni che spiega – pare ci sia bisogno di spiegarla – la differenza fra comprendere e giustificare. Se ho capito bene, per condannare incappucciati o altri bisogna rigorosamente non capire, non capire da dove vengono, cosa li ispira, dove vanno. Diversamente si è complici. Io, invece che credo di poter capire e condannare insieme, trovo sul web un blog - paesaniniland – dove un post intitolato “Ma i black bloc non sono dei delinquenti” confronta le immagini delle devastazioni dei nuovi Lanzechinecchi con il “manifesto dei futuristi” del 1909 inneggiante alla violenza, alla distruzione di monumenti e musei, in nome della lotta al passato. Si propone anche alla generazione che seguirà di eliminare tranquillamente gli stessi autori del manifesto in nome del diritto dei giovani al potere. L’autore del blog simpatizza con buona evidenza con gli uni e con gli altri e magari con i talebani che in Afghanistan distrussero le statue del terzo secolo del Budda perché preislamiche. E’ interessante, molto interessante, interessante nel senso di terrificante. I talebani sono anche fra noi. A differenza degli Stracquadani capisco qualcosa delle loro ragioni e - così dicono - ne divento complice. Anche se, da uomo del secolo passato, sono legato ai monumenti e ai musei e le ragioni degli incappucciati/futuristi mi fanno orrore. Il movimento comunque, al netto degli incappucciati, tiene la sua rotta. Il nemico è la finanza, è l’economia di carta che tiene in scacco il mondo. Il nemico è Draghi, è Profumo, è Soros. Lerner, alludendo alle proprie radici etniche, vi fa un lieve accenno, un accenno alla finanza ebraica demonizzata dai nazisti e dai loro precursori. Ma è un terreno scivoloso su cui non conviene insistere. Perché nemici del movimento – guarda un po’ – sembrano essere quegli uomini di finanza che più appaiono sensibili alle ragioni dei giovani. Forse perché non hanno molto da perdere, forse perché l’economia di carta è meno esposta alle istanze espropriatrici dei fautori del Bene comune. Assai più esposti ed espropriabili sarebbero i patrimoni visibili della Fiat degli eleganti fratelli Elkan e il Billionaire di Briatore, che però non sono nel mirino. Sono nel mirino al più i manager, i dirigenti, con i loro smisurati compensi. E come contenerli senza ferire anche qui il mercato? Un po’ più facile è aggredire i calciatori che avrebbero (posto che sia vero) rifiutato il loro bravo contributo di solidarietà (quando era in agenda) ed Eto’ che emigra in Russia per guadagnare qualche milione in più. E’ più facile perché le loro prestazioni sono osservabili (ripartenza, dribbling, gol) mentre l’amministratore delegato non sappiamo davvero se sia un imboscato privilegiato o un insostituibile produttore di ricchezza e occupazione. Resterebbe la domanda: “che diavolo faranno Eto’ e Marchionne, raddoppiando le loro retribuzioni, con i loro nuovi milioni di euro, che sembrano valere più della dolcezza della vita milanese e della civiltà canadese?” E’ una domanda “filosofica” –pare- cioè sterile che magari mi pongo io solo, con la presunzione di considerarla una domanda importante. Non seguo per intero l’Infedele. Spengo prima, stremato da domande (che mi porto a letto) troppo stressanti per un pover’uomo del secolo passato. *http://paesaniniland.blogspot.com/2011/10/ma-i-black-block-non-sono-dei.html?showComment=1318859855160#comment-c1737570071382843636

mercoledì 5 ottobre 2011

La generazione sfruttata a Presadiretta

Non so se chi ha visto domenica scorsa la puntata di Presadiretta dedicata alla “Gioventù sfruttata” ha provato sentimenti simili ai miei. Penso di sì. I miei sono stati: incredulità, indignazione, collera, prostrazione, impotenza. Racconto quel che ho visto per chi ha perso la puntata che ovviamente potrà recuperare via internet. Spero poi che si sappia arrivare a qualche utile conclusione. Il gruppo dei giornalisti coordinati da Roberto Iacona ha intervistato il mondo variegato dei giovani precari. I giovani intervistati, laureati o diplomati, erano impegnati in rapporti di lavoro penalizzanti e con assoluta incoerenza fra forma contrattuale e natura della prestazione lavorativa: partite iva e stage, soprattutto. Abbiamo visto e ascoltato giovani archeologi – prevalentemente archeologhe – di fatto al servizio di “società archeologiche”, con partita iva e un faticoso e delicato lavoro fra gli scavi, denunciare retribuzioni di 400 o 500 euro, meno della metà dei manovali che, con contratti meno “atipici”, lavoravano al loro fianco. Nessuno ha detto, come si sarebbe detto una volta: “ A saperlo non avrei perso tempo a studiare”. Forse per pudore, forse per rassegnazione, forse per rispetto del lavoro altrui, forse addirittura, mi vien da pensare, perché ci sente, oltre che sfruttati, gratificati per il fatto di svolgere un lavoro voluto e ricco di significato. Comunque questa è l’attenzione che il paese che ha ereditato, ovviamente senza merito, il più grande patrimonio monumentale, artistico e culturale dell’umanità dedica a chi questo patrimonio dovrebbe mettere alla luce, interpretare e custodire. Gli architetti ascoltati nel servizio stavano peggio. Erano stagisti senza remunerazione eppur quasi compiaciuti di lavorare accanto al grande Fuksas. Il quale non aveva però parole incoraggianti. Tendenti a zero secondo lui le opportunità degli architetti italiani di vivere di architettura. Più ragionevole riciclarsi nei call center o nei bar o, se dotati di un minimo di risorse familiari, fare i ristoratori. Questo del resto già avviene. I giornalisti, praticamente quasi tutti i giornalisti, sono precari e pagati fra 15 e 30 euro a servizio (spese comprese). Molti e molte arrotondano come babysitter o simili. Coraggiosamente Iacona chiariva che i suoi collaboratori non facevano eccezione. Free lance e partite iva anche loro. I diplomati visti a Presadiretta stavano anche peggio. Assai peggio i pochi rimasti a lavorare in Blockbuster. Licenziati i dipendenti con contratto di lavoro a tempo determinato, i sostituti aprono il negozio al mattino, lavorano tutto il giorno e chiudono a sera. Sono stagisti retribuiti con pochi euro di rimborso. Tutti, laureati e diplomati, ricattati: meglio questo che niente, meglio questo quasi niente che comunque tiene aperto un lumicino di speranza. Poi il confronto con l’ariosa Barcellona. Lì i giovani italiani fuggiti dall’Italia delle amicizie e dei favori sembravano aver trovato l’Eden. I dipendenti tutti “regolari” a tempo indeterminato, alcuni in breve assurti a ruoli dirigenti; altri diventati imprenditori di successo, con supporto efficace della burocrazia, etc. Certo, alcuni conti non mi tornano. La Spagna ha un tasso di disoccupazione ufficiale assai più alto di quello italiano ed è il paese che ha avviato sulla spinta della disoccupazione giovanile la stagione degli indignados. Ho voluto escludere una selezione spregiudicata degli intervistati operata da Iacona. E allora? L’unica risposta che mi è rimasta è che i giovani italiani in fuga siano più brillanti e competenti dei coetanei spagnoli e che la Spagna pur nell’emergenza finanziaria e occupazionale, meno malata dell’Italia, sia ancora interessata a riconoscere e valorizzare la competenza. 70.000 giovani ogni anno lasciano l’Italia che li ha nutriti e istruiti, come se questo paese spendesse senza investire, disinteressato o incapace di recuperare quanto speso. E’ possibile questa follia? Qualcosa mi sfugge. Cosa?

domenica 2 ottobre 2011

Della Valle e Gelmini: se non si sa di non sapere

Diego Della Valle ha pagato a caro prezzo (in euro sonanti) il clamore suscitato dalla sua uscita sui principali giornali italiani, POLITICI ORA BASTA. E molti a chiedere “che ci guadagna?”, “a cosa punta?”. E’ costume nazionale - o forse costume umano - dubitare del disinteresse, della gratuità di qualsiasi investimento. Adoriamo diffidare. Di tutto, compreso il mecenatismo e l’impegno sociale e politico non retribuito. Io invece credo alla gratuità dell’impegno di Della Valle per il suo Paese, come alla gratuità dell’amore filiale, materno, etc. L’ho detto e vado avanti. Naturalmente le reazioni sono state diverse a seconda che Della Valle appaia potenzialmente un avversario (per la destra), un concorrente (per la sinistra) o un amico (per il centro casiniano/montezemoliano). A me pare che nel manifesto di Della Valle manchi una diagnosi delle ragioni del disastro. La cosiddetta classe politica sembra una sventura venuta dal nulla o da Marte. Manca anche una proposta di metodo per la formazione di una nuova classe dirigente. Riforma elettorale? Primarie? Limite ai mandati (tre, due, uno)? Divieto di far politica per gli inquisiti? Legge rigorosa sul conflitto di interesse? Acquistare all’estero i politici? Nessuna risposta.
Fra le critiche (in mezzo a elogi ed elogi a metà) non ho riscontrato quella relativa al linguaggio e all’italiano del manifesto di Della Valle. Il manifesto, in trentaquattro interminabili righe, dice quel che era già nel titolo. POLITICI ORA BASTA. Mi viene in mente l’ansia del compagno di banco al liceo che mi chiedeva “tu quante pagine hai scritto?” Ma esaminiamo le tre righe conclusive che ribadiscono quanto detto nelle trentuno precedenti, di cui do il link in nota. 1)
A quei politici, di qualunque colore essi siano, che si sono invece contraddistinti per la totale mancanza di competenza, di dignità e di amor proprio per le sorti del Paese, saremo sicuramente in molti a volergli dire di vergognarsi.
Di qualunque colore siano qualifica il linguaggio che il democratico Andrea Sarrubbi classifica correttamente come “da bar” nel pezzo “Bar Diego” del suo blog.2) Diciamo pure che Della Valle vuole parlare agli italiani al bar. Altrimenti avrebbe detto: “A qualunque schieramento appartengano “ oppure “siano di maggioranza o di opposizione”. Ma deve rivolgersi a quelli che, stando al bar, non hanno molto tempo per studiare le parole giuste. A Della Valle sfugge che al bar la comunicazione verbale è accompagnata da quella paraverbale (sospiri, il tono che si alza o si abbassa) e da quella non verbale (scuotere la testa, sorridere, etc.). Di questo non dispone la scrittura.
Una perla preziosa, effetto della inerzia e vischiosità del linguaggio, è in quello “amor proprio” per le sorti del Paese. Ma amor proprio non significa “amore, stima per se stessi, autostima”? No, “amor proprio per le sorti del paese”. Non avrà riletto. Infine “A quei politici …. saremo in molti a volergli dire di vergognarsi”. “A quei… volergli”? D’accordo, all’università non ho neanche sostenuto l’esame di italiano e al bar anch’io ripeterei forse il complemento di termine “A quei… “volergli” e lo ripeterei con gli singolare invece che con loro plurale. Peraltro gli per il plurale non è per la verità neanche scorretto. Qui il linguaggio parlato recupera i modi della grammatica più antica, quella Di Boccaccio, ad esempio. Potremmo dire che lo gli di Della Valle ignora le convenzioni attuali del linguaggio scritto oppure che Della Valle sbagliando indovina. Ma il patron della Tod’s ha pubblicato un manifesto sui massimi giornali italiani e con l’ambizione di redigere un manifesto “storico”, ritengo. E allora arrivo alle considerazioni che mi interessano e non sono state fatte. Della Valle non dispone di un ghostwriter , di uno che traduca i suoi pensieri in un italiano meno sciatto, più nitido e pulito che possa accompagnare un documento alla storia? Eppure disponiamo di migliaia, decine di migliaia di laureati in lettere e di vituperati laureati in scienze della comunicazione . Ricordate? “Ma come pensa di poter lavorare con quella laurea inflazionata”, provocazione di un celebre giornalista a un giovane laureato disoccupato in un talk show, variamente replicata poi da ministri della Repubblica. Si è sprecata l’ironia sul comunicato della Gelmini, a proposito dei neutrini che avrebbero attraversato la famosa galleria. Non aveva scritto lei il comunicato, si è difesa la ministra. L’autore, vero o presunto tale, si è dimesso dall’incarico (no, non è finito senza lavoro), a tutela del buon nome della ministra. Nessuno è tenuto a sapere dei neutrini e nessuno a sapere del complemento di termine. Però, come ha detto qualcuno, “bisogna sapere quel che non si sa”, insomma essere consapevoli delle proprie ignoranze. La Gelmini ha dimostrato di non avere tale conoscenza se ha scritto lei il comunicato o di non aver conoscenza dei limiti dell’incaricato, da lei scelto con tutta probabilità per motivazioni diverse dalla competenza. La stessa ironia allora dovremmo rivolgere alla pagina di Della Valle che ha dimostrato di “non sapere di non sapere” l’italiano. E vero, la pagina di Della Valle è coerente con le modalità espressive populistiche dei nostri tempi . Lo scritto è assimilato all’orale di cui replica la melodia e, non disponendo di toni e sospiri, rinuncia alla chiarezza dell’informazione e sposa l’ambiguità. All’indomani della gran seduta del 29 luglio dell’ufficio di presidenza del Pdl che sanciva la cacciata di Fini, mi capitò di leggere una bella analisi linguistica del documento di quel partito, sciatto né più né meno di quello di cui sto discutendo. La lettura, puntualissima e critica, era opera di un giovane filologo italiano, rigorosamente disoccupato in quanto filologo e italiano. E si capisce perché i nostri bravi laureati in lettere e scienze della comunicazione debbano restare inoccupati. E’ un tema che sollevo periodicamente qua e là, senza fortuna, quello della competenza degli imprenditori. Sui saperi e le competenze dei politici è gioco facile. Tutti ci siamo o stupiti o divertiti o indignati per le interviste volanti di qualche tempo fa delle Iene ai parlamentari. Confondevano il Darfur con una marca di caramelle, sbagliavano di decenni e secoli le date della scoperta dell’America e della proclamazione del Regno d’Italia; dimostravano ignoranza grave del testo della Costituzione, etc. Ma gli imprenditori? A loro si contesta al più di essere imprenditori. Di spostare l’azienda dove essa è più redditiva. Sì, magari il sindacato e l’opposizione diranno che l’imprenditore non ha saputo capire che quella impresa a Termini Imerese o in Sardegna può avere un brillante futuro. Ma è ovvio che si tratta di un copione scontato. Non mi è mai capitato invece di sentir contestare all’imprenditore di essere incapace di valutare la qualità dei suoi dipendenti. Non si contesta ai giovani virgulti di Confindustria, eredi di fortune familiari, di non essere preoccupati abbastanza della propria formazione sì da dover tutto delegare a costosissimi manager. E non si contesta a Della Valle di non saper delegare la scrittura del suo manifesto, di non sapere di non sapere, esattamente come la Gelmini. Se i nostri ministri e i nostri imprenditori credono di sapere siamo veramente fritti. Per fortuna io, radicalmente socratico, so di non sapere praticamente nulla. Di questo sapere mi accontento.


1) http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2011/10/01/pop_dellavalle.shtml
2) http://www.andreasarubbi.it/?p=6675

venerdì 30 settembre 2011

Xenofobia e vari preconcetti

Vado al cinema per un film – Cose dell’altro mondo – che mi delude. Ottimo spunto e buone intenzioni sprecate. Il razzismo opportunistico presente nella società veneta che vede avverarsi l’auspicio lungamente formulato. Da un giorno all’altro, misteriosamente, gli odiati immigrati non ci sono più. Non ci sono più infermiere e badanti, operai e mungitori. Tutto si ferma. E avviene di conseguenza la conversione dei cuori: il riconoscimento del valore dell’altro. Praticamente l’effetto che lo sciopero degli immigrati di qualche mese fa avrebbe voluto realizzare, senza successo. Il film però è noioso e la noia non giova alla causa.
La “mia” Ostia non è il Veneto o quel Veneto. C’è una buona integrazione, bambini di tutti i colori giocano e studiano insieme, molte coppie sono bianco/nere . Spesso nella coppia è visibile lo scambio, quando lui, ad esempio, ha 20 o 30 anni più di lei. Tu mi dai la giovinezza, io ti do la cittadinanza. Dobbiamo abituarci, senza troppo giudicare, a tante cose, anche al ritorno del vecchio matrimonio di convenienza. Però anch’io ho bisogno di tempo perché non è facile smettere le vecchie lenti. Incontro talvolta in metro una coppia sicuramente interrazziale, con un bambino di qualche mese. Lui romano che più non si può, trasandato, sciupato, fra i sessanta e i settanta. Lei bionda, gradevole, slava, più o meno ventenne. E’ sempre lui a tenere in braccio il bambino. Lei non parla e non fa niente, tranne porgere il biberon, a richiesta dell’uomo. Lui si rivolge sempre al bambino che vezzeggia e pare adorare. Ho sempre dato per scontato che l’uomo fosse il nonno e la madre gli fosse nuora. Il pregiudizio era evidentemente così radicato da non essere scalfito dalle parole del “nonno” fra un bacio e una carezza “amore mio, bello di papà”. Anch’io ogni tanto mi rivolgo a mio nipote con un “bello di mamma”. E’ solo lei, improvvisamente parlante, che fa crollare il pregiudizio, quando dice qualcosa come “stai bene con papà?”.
All’uscita dal cinema però vedo una scena finora non vista. Un’adolescente bianca 14/15 anni e un adolescente nero coetaneo che si scambiano un bacio. Una immagine più convincente del film. Non è il bacio degli adolescenti o dei giovani, coppie bianche o miste, cui assisto abitualmente, il bacio esibito in pubblico e prolungato, non per il piacere di scambiarlo ma per una (inutile) provocazione sociale. Questo è un bacio semplice e veloce. Spontaneo, senza scopo alcuno. Di due adolescenti che hanno già vinto e non hanno conti in sospeso. Un’immagine più persuasiva di ogni insistita pedagogia anti-razzista.
La sera decido di andare in piazza per il concerto di Mariano Apicella. L’alternativa, in altro spazio sarebbe l’incontro dibattito con D’Alema. Nell’intervista con Zorro, il blogger, D’Alema piglierà le distanze da Pacs, Dico e dalla Concia. Non ho perso nulla. Mi interessa di più Apicella. Mi incuriosisce il pubblico. Come sarà? Applaudirà, come sere prime un pubblico diverso applaudiva le digressioni politiche della Mannoia? O qualcuno fischierà, come osservato con la Vanoni durante un exploit forse mal congegnato contro il premier? Guarda un po’ dove cerco i segni del cambiamento del clima politico. Vado. E appena seduto, con moglie accanto, mi accorgo che il problema sono io più di Apicella e del pubblico. Chiedo a mia moglie: “Tu applaudirai?” . “Ci penserò”. Insomma non mi risponde. Ma io sono meno spontaneo di mia moglie e degli adolescenti bianconeri che si baciano. Se meriterà l’applauso, lo applaudirò? O non potrò perché mi sembrerà di applaudire il premier? Ma, se farò così, non dovrò controllare poi la fede politica del mio macellaio? Dove stiamo andando, accidenti? Apicella è abbastanza gradevole e professionale. Nessuna digressione politica, diversamente dalle “mie” Mannoia e Vanoni. Poi il pubblico. In prima fila signore popular chic ingioiellate e troppo chiaramente sue fan, sue di Apicella e sue del premier. Dialogano con il cantante e lo applaudono con calore. Vicino a me donne e uomini che applaudono con le mani alzate per esprimere consenso assoluto. Con sorpresa, davanti a me applaude allo stesso modo un giovane cui avevo pregiudizialmente attribuito appartenenza ai radical chic, notoriamente avversi al governo attuale e al suo stile. Come può applaudire un giovane in jeans e con polo dal colletto, con trascuratezza snob, metà dentro metà fuori il maglioncino a V? Questo doveva essere un giovane che partecipa alle liturgie antiberlusconiane, non che applaude Apicella. E io? Proprio l’entusiasmo dei fan mi convince a non applaudire comunque. Ma, insomma, non si può dire che mi goda il concerto. Fra l’altro ho mia moglie a sinistra (in tutti i sensi), con le mani rigorosamente in grembo, e una signora a destra (in tutti i sensi) che è fra le più accanite con le sue braccia alzate in applausi continui. E poi mi scruta, prima come per interrogarmi “perché non applaudi?”, poi critica severa ad ogni mio mancato applauso. Temo di aver avvelenato un tantino la sua serata. Termina infine il concerto e mi vien fuori un applauso di congedo. Di compromesso. Di liberazione. Di pacificazione. Con Apicella. Eventualmente col mio macellaio. Un auspicio di tempi meno faziosi.

martedì 27 settembre 2011

Cosa siamo diventati


Mi serve davvero come appunto personale. Praticamente non ho nulla da aggiungere, se non il titolo di questo post, a commento dell’episodio di cui abbiamo avuto tutti notizia. Domenica mattina, nello storico Caffè Platti di Torino, una donna di 66 anni, frequentatrice abituale del locale, si è chiusa in bagno e si è sparata alla testa. Il locale non ha ritenuto di sospendere l’attività. Quando informati dell’accaduto, con l’arrivo dei vigili del fuoco prima e dei necrofori dopo, alcuni clienti sono andati via, altri sono rimasti a consumare vari rinfreschi che il bar ha continuato a servire ai tavoli. Una foto, da archiviare perché tanto rappresentativa dei tempi che stiamo vivendo (che abbiamo scelto di vivere), mostra signore sedute all'aperto che volgono il capo verso il furgone che porterà via il cadavere; un'altra resta così com'era seduta, con le spalle al furgone, occupata con un oggetto (un cellulare, è probabile) in mano. Avrei potuto annotare prima – mesi fa, anni fa – fenomeni analoghi. Gli accaldati bagnanti sulla spiaggia, fra un tuffo e l’altro, con al centro un cadavere pietosamente coperto. I passanti che nella metropoli italiana aggirano frettolosamente, o addirittura saltano, il corpo senza vita che ostruisce il marciapiede. Lo faccio adesso perché nella succinta e ingenua spiegazione della proprietaria ci sono risposte che aiutano a capire.
Dice la proprietaria. “Non ho chiuso il bar perché non mi è sembrato opportuno; si è trattato di un fatto molto grave, ma voluto dalla signora”. “Un fatto molto grave” - bontà sua – ma “voluto dalla signora”: ecco la discriminante. Si può aver pietà delle vittime della violenza altrui e solo di queste. Per analogo sentire, Piergiorgio Welby, che chiese di morire, non poté avere i funerali religiosi, chiesti dalla moglie, cattolica.
La titolare continua:” Perché chiudere il bar? Aspettavo per pranzo 100 turisti in arrivo da Milano ed il locale era pieno di gente. Io devo pensare al locale, a pagare i dipendenti …”.
Per me è l’inconsapevole (e perciò più vero e definitivo) epitaffio sulla banda dei quattro: Crescita, Mercato, Consumo, PIL.

mercoledì 31 agosto 2011

Archeologia della bellezza

Il viaggio da Ostia alla farmacia del Vaticano comincia male. Uscito di casa, sono testimone di un conflitto fra riciclatori presso il cassonetto delle immondizie. Ostia è piena di persone, immigrati mi sembrano tutti, che vivono grazie ai nostri rifiuti. Non ho idea dove conferiscano quel che trovano frugando fra i bidoni e se abbiano una organizzazione. Riconosco lui perché è il meno giovane e quello con l’aria più professionale, compiaciuta. Normalmente usa una maglia per non sporcarsi infilando tronco e testa dentro il bidone, con le gambe per aria e senza smettere di fumare. Adesso, inveisce, dopo averla inseguita, contro una “collega” munita di carrello e grosso cartone da imballaggio. Forse è un ”caporale”, forse si tratta di invasione di campo. Andiamo avanti. Deve essere normale. I vigili inflessibili contro le auto che sostano fuori dagli spazi assegnati, non hanno nulla da dire.
Il trenino che in questo giorno di fine agosto porta a una Roma senza romani è poco affollato. Il trenino è lurido come sempre. Ho vicino una famiglia: una madre con tre bambini fra i quattro e i sette anni. E’ una famiglia con i segni distintivi della povertà di questo tempo, con un po’ di euro in tasca . La madre è obesa, con piercing al naso e tatuaggi vari. Soddisfatta, rimpinza i due figli minori di merendine che scarta continuamente. Il più piccolo sembra star bene, sdraiato con le scarpe contro la parete e la mamma è molto contenta del suo benessere. La bambina è quella che somiglia più alla madre, per obesità. Il maggiore ha l’aspetto più sano, rifiuta merendine perché troppo occupato con svariate telefonate e operazioni varie al cellulare per le quali gli chiederei una consulenza.
Nella scala mobile della stazione metro scorgo una figura che dovrebbe essere elegante e avvenente: una modella, chiaramente. Sono alla ricerca di un segno di bellezza in una giornata di unto e bruttezza. Ma non è neanche lì, in quella figura insipida, inespressiva nella sua presunta perfezione.
Sulla strada che conduce alla città del Vaticano ci sono quasi solo turisti, affannati e accaldati con le bottiglie di plastica in mano, dietro guide con le bandierine sollevate. Poverini , devono visitare San Pietro per poter raccontare di esserci stati. Una guida ammonisce un’altra guida che si avvicina a un gruppo in formazione. “Sono miei” grida. E i gruppi marciano, scansando mendicanti che esibiscono mutilazioni, loro strumenti di reddito nel paese settimo o ottavo nel mondo per Prodotto interno lordo.
Poi nella sala di aspetto della città del Vaticano, fra impiegati molto “romani” nella confidenza eccessiva con i visitatori in attesa di visto, un’altra apparizione. Ha un’età indecifrabile, sopra gli ottanta comunque. Magra della magrezza prescritta, con abiti leggeri di alto costo. Ma il viso è un incubo. E’ uno di quei dieci o venti visi che si replicano nelle donne che si sottopongono a chirurgia facciale perché dieci o venti, non più, debbono essere i modelli, i calchi, cui si ispirano i chirurghi estetici. Il volto è teso e levigato come il marmo, le labbra gonfie sono le solite labbra gonfie,il naso sottilissimo preannuncia la scarnificazione della morte. Che strano aver compassione per la ricchezza. Non fosse stata assillata dalle seduzioni delle offerte che si rivolgono alle persone ricche, questa povera donna non si sarebbe ridotta così.

Va bene, dura poco. Si torna a casa. Rifletto e metto ordine ai pensieri. Gli amici esperti di psicologia e costruttivismo mi spiegherebbero che oggi c’era una mia predisposizione a scorgere il brutto. Gli statistici mi direbbero che è normale, essendo i “normali” in vacanza, che la bruttezza anormale occupasse la scena. A me viene da pensare di aver incontrato l’orrore prodotto dalla invenzione della ricchezza e della povertà: bruttezze radicali e diverse, da eccesso e da carenza di proteine, da eccesso e da carenza di informazione, etc. Ma lasciamo perdere. Fra poco godrò della solitudine nella mia sedia sdraio preferita, nel mio terrazzo. Poi mi dedicherò a cose serie: la politica, il circolo on line.
Quasi a casa, sul marciapiede, l’evento. Non è la prima volta che la trovo lì, rannicchiata per terra. E’ snella e minuta. Fra i quindici e i diciotto anni, direi. Veste gonna e camicia anonime, chiare. Sa che non le darò l’elemosina. Non la do’ mai. Non ha arti deformi da esibire. Non ha un cartone stropicciato con su scritta una storia patetica. Non supplica, non parla. Ha solo un bicchiere di carta, vuoto, per raccogliere monete che non ho mai visto donarle. Stavolta la guardo un po’ più e un po’ meglio. E lei, sempre così immobile e quieta, ha un gesto minimo, appena accennato. Un gesto come per aggiustare in qualche modo il colletto della camicia. Riesce a farm i sentire come un colpo al cuore, simile a quello delle cotte giovanili. Come, ricevendo un sorriso inaspettato da una sconosciuta. Sono misteriosamente certo che non guarda la TV e non sa nulla di Berlusconi.
Devo saper darne testimonianza per il futuro, quando i nipoti cercheranno la bellezza che il tempo avrà finito di spazzar via, con le armi apocalittiche della ricchezza e della miseria.


venerdì 26 agosto 2011

L'estetica invece della politica

All’inizio erano due estetiche, opposte e insieme alleate per stringere il paese in una tenaglia. Quella berlusconiana dell’avvenenza e della gioventù con le ragazze in tubino nero, “anche laureate con il massimo dei voti” (Carfagna, Pascale, Minetti, etc., etc.). Opposta, alleata e concorrente era quella popolare di Bossi, maschio, sudato in canottiera.
Poi la crisi del berlusconismo e l’archiviazione della Minetti , del tubino nero e delle “feste eleganti “. Il Pdl, per le divisioni interne e nel tentativo di appeasement con l’opposizione, mette la sordina anche al proprio linguaggio e mezza museruola al ghigno di Cicchitto e della sua versione femminile, l’acidissima Santanché.
La Lega invece, stretta fra la necessità di dividere le proprie responsabilità da quelle di Berlusconi e la paura di nuove elezioni, non riesce a trovare la “quadra”. Balbetta qualcosa. Sentito fallito il federalismo ri-minaccia la secessione. Alla fine sceglie l’estetica e abbandona la politica.
Sceglie l’estetica della comunicazione, verbale e non verbale. Credo sia un Iapsus di Bossi il suo inveire contro i 102 anni della Montalcini, obiettivamente più giovane e in salute di lui. Oppure conta sulla pietas e la buona creanza da prima Repubblica dell’opposizione dalla quale anch’io fatico a dissociarmi.
Poi nella Lega si dividono i compiti. A Bossi l’estetica della comunicazione non verbale. A Calderoli e altri quella verbale. Nella palese carenza di fantasia, il capo rispolvera la canottiera “popolana” esibita per un giorno intero, in mezzo agli amici “borghesi”, evidentemente posando come una modella in quegli abiti che non si portano mai. Può bastare questo ai padani delusi?
A Montezemolo che si candida alla politica, minacciando i voti residui della Lega, l’elegante ministro della Repubblica, Roberto Calderoli, rivolge un raffinato discorso politico: “Finalmente sono arrivati i Montezemolo, quelle scoreggie d'umanità che non hanno mai lavorato in vita loro.”
Gli ultimi esempi in questa odorosa settimana politica (?) sono più spregiudicati. Intenzionalmente (ma non ne sono sicuro), si fa sfoggio di confusione fra arbitrio e governo. Ma forse davvero i leghisti non distinguono le due cose.
Il senatore della Repubblica, tale leghista Piergiorgio Stiffoni, così “avverte” Famiglia Cristiana che ha osato criticare il governo: “Un'altra volta che il giornale dei Paolini rigioca sporco, allora penseremo sul serio a tassare i patrimoni, in primis quelli ecclesiastici così il giorno dopo la redazione di Famiglia Cristiana deve portare scrivanie e computer in mezzo alla strada”. L’opposizione che, a ragione o a torto, ha una pessima opinione dell’intelligenza degli italiani, non osa replicare all’intimidazione “mafiosa”.
Né replica, mi pare, all’incredibile ministro Calderoli quando, contro i giocatori che osano discutere di contratto e di contributo di solidarietà agita lo spettro di un emendamento che raddoppi per gli amati/odiati professionisti del pallone il contributo discusso. Come i gangster dei filmetti che minacciano di cavare il secondo occhio. Qualcuno, sommessamente rimpiange Pomicino. Ma forse sta per tornare la politica. E una nuova estetica.

mercoledì 13 luglio 2011

I ragazzi democratici


I ragazzi democratici li incontro a Caracalla, alla festa dell’Unità. Le ragazze e i ragazzi democratici, prima di iniziare a servire ai tavoli di Ristoro democratico, si mettono in riga davanti alla mensa e intonano l’inno di Mameli e poi Bella Ciao. Lo fanno con convinzione, nel segno del nuovo patriottismo repubblicano che Ciampi e Napolitano hanno felicemente promosso e che forse ci salverà. Poi una volontaria mi consiglia un sublime piatto di tonnarelli cacio e pepe su letto di formaggio fuso. E’ una ragazza molto aggraziata. Non bella. Di più. Socializzante. Ho il vantaggio di essermi seduto in tempo per evitare la ressa e poi seguire doverosamente il dibattito, come fanno i democratico “corretti”. Così ho tempo di scambiare qualche parola e di apprezzare quelle che percepisco come risorse potenziali per il partito e il paese. La competenza comunicativa di Elisa (mettiamo si chiamasse così) non è un dato meramente tecnico. E’ alimentata dall’interesse agli altri, dalla passione per il fare e per il fare bene. Mi accorgo che mentre conversa spontaneamente con me di cucina, di partito e di università, con un occhio osserva la sala, il banco di servizio e gli altri volontari. Quando si allontana sento che è richiamata dalla titolare della trattoria convenzionata. Non avrebbe dovuto aprire una bottiglia del tale vino per darmene un calice. Incassa tranquillamente il richiamo, anzi lo utilizza per mostrare interesse ai criteri per cui una bottiglia si deve dare intera e un’altra non necessariamente. E’ prossima alla laurea specialistica, credo in mediazione linguistica. Ringraziandola per l’ottimo consiglio le manifesto la mia ammirazione per il suo stile e la sua strategia comunicativa. Credo così di darle un piccolo contributo affinché cresca la sua autostima. E la risarcisco anticipatamente perché non sono affatto sicuro che il lavoro o il partito sapranno apprezzarla.
Sono gli stessi sensi di colpa generazionale che mi fanno dire subito sì a Daniele, coordinatore dei giovani democratici di Ostia levante, che mi chiede se io sia disponibile ad un volantinaggio nel pomeriggio di sabato. Lo sono, certo. Siamo solo lui e io. Daniele progetta l’incontro sul tema della primavera araba, da realizzare nel salotto gaudente di Ostia. Pensa lui a invitare prestigiosi relatori, a stampare manifesti, ad affiggerli sui muri. Mentre distribuiamo volantini, verifico che il tema non appassiona più di tanto . Ovvio, ma il volantinaggio non si fa perché serve a qualcosa. Io lo faccio come una penitenza, invece di quello che non riesco a fare. Daniele dice di accontentarsi se il volantinaggio servirà ad acquisire un solo partecipante aggiuntivo. Per me è un ritorno ad anni lontani. Intanto parliamo del voto del PD sull’abolizione delle province che lui, studente di scienze politiche e militante, difende. Poi deve correre a lavorare. Fa il cameriere anche lui.
Non abbiamo molto altro da offrire ai giovani. La loro passione, la loro competenza, il premio per i loro sforzi non sono nel nostro ordine del giorno. Al più corteggiamo questi giovani. Diamo loro ragione, anche quando hanno torto: il tradimento peggiore. Così qualche settimana fa ad un incontro al circolo territoriale, prima della giornata referendaria, quando il giovane moderatore chiede al senatore del PD di “essere concreto” . Cioè? Cioè di dire se sia il nucleare o l’energia rinnovabile a dare più prospettive occupazionali ai giovani. E il relatore a spiegare che dà più occupazione l’energia rinnovabile. E se fosse il contrario? Sceglieremmo il nucleare e il possibile disastro? A questo conduce la paura di un futuro senza lavoro e prospettive. Sento incombente la minaccia di irrazionalismi e di devastanti rivelazioni pseudoscientifiche se non si puntano i piedi nella manutenzione dell’intelligenza. Un giorno, temo, anche i giovani democratici, così diversi nella loro serietà, potrebbero convertirsi a teorie fantasiose e suicide. Qualcuno sosterrà – è già avvenuto – che la guerra è il miglior fattore di occupazione. Avrei dovuto dirlo. Non l’ho fatto. Altro senso di colpa.

sabato 2 luglio 2011

L'Italia che amo

L’Italia che amo, seduto in un bar di Piazza Anco Marzio, il salotto di Ostia, stasera aveva il sapore di buone Krapfen (crema, cioccolato e marmellata) e buon gelato di frutta (coppa piccola per economizzare euro e zuccheri). Aveva le gambe ben tornite delle ragazze in short alla moda. Però l’Italia più bella era quella che scrutavo discretamente, ma continuamente, indifferente al cover di Morandi che cantava su un palco. Tre italiane sobriamente eleganti e una bimba di 7-8 anni, asiatica, adorabile. Gustava con gran piacere la sua coppa di gelato, accudita da madre adottante ( immagino), nonna e zia (credo). Batteva felice le mani come vedeva fare agli adulti, al finire di ogni canzone. Accanto all’Italia che perde tempo e anima in camarille e intrighi, lì l’Italia felice di donare felicità e una bimba felice, venuta da lontano. Vado a dormire rasserenato. Ogni tanto.

domenica 22 maggio 2011

Gli indignados e i loro nemici

Stèfane Hessel con il suo best seller “Indignatevi” ha chiaramente ispirato il movimento dei giovani spagnoli Indignados. Li ho incontrati in Placa de Catalunya nella mia breve vacanza a Barcellona e li ho ascoltati e fotografati, alla meno peggio , nei miei cinque giorni di soggiorno. Ero in compagnia di un amico che mastica un po’ di spagnolo, ma il catalano è tutt’altra lingua sicché spero di non aver equivocato le parole ascoltate e lette. Che dire? Giovani difficilmente distinguibili dai giovani italiani incontrati nelle nostre piazze nelle proteste contro la riforma universitaria o contro il precariato come assenza di futuro. Colorati e fantasiosi come loro, forse un tantino più arrabbiati. Hanno messo a dura prova governo e istituzioni, divisi sulla possibilità di proibire le manifestazioni e i presidi permanenti che hanno investito le maggiori città spagnole, nell’imminenza di un voto amministrativo in cui sono proibite manifestazioni politiche o di partito (su questa ambiguità si giocava il contenzioso giuridico). Ero in mezzo a loro il 20 sera quando scadeva una sorta di ultimatum e non so proprio come si sarebbe potuto sciogliere quel blocco compatto di migliaia di giovani che riempiva Plaza de Catalunya: per farmi largo e orientarmi verso un’uscita sono rimasto stremato.
I giovani spagnoli scontano un tasso di disoccupazione (40%) addirittura molto più elevato di quello già enorme italiano (30%). Però, come mi diceva il dotto edicolante catalano che mi forniva la Repubblica e mi parlava di Togliatti e Berlinguer, forse quella percentuale più che in Italia comprende masse di giovani lavoratori in “nero”. Anche in Spagna i giovani vivono l’incertezza assoluta sul proprio futuro. Anche lì scarsa correlazione fra studio e lavoro e scarsa considerazione per merito e giustizia.
Il modello della protesta è la primavera araba, col mito non violento del suicida di Piazza Tahir. Le anime sono multiformi: avverse alla privatizzazione dell’università, avverse all’informazione di parte, avverse al nucleare, avverse alla finanza, avverse al Fondo Monetario, avverse alla Casa reale, avverse ai partiti e in particolare ai partiti maggiori. Quando il primo giorno ho chiesto prudentemente a una ragazza che presidiava un gazebo a quale partito o movimento esistente si sentissero vicini ho ricevuto una reazione “indignata”. A nessuno, a nessuno! Su un giornale catalano ho decifrato l’analisi di una studentessa protagonista del movimento, che appariva più ragionevole: “Non compriamo un cd con l’album musicale, scegliamo melodia per melodia”.
Difficile capire le proposte nei dettagli. Il più concreto è il salario di cittadinanza. Ma sono gli spunti dialettici che esibiscono le contraddizioni di una democrazia “formale” ciò che trovo più interessante. Questo, ad esempio: “Non abbiamo eletto i banchieri. Allora perché comandano loro”? Non per nulla il movimento del “15 M” (dalla data di maggio del suo esordio) ha come parola d’ordine “Democracia Real, Ya” (Democrazia reale, subito). Conosciamo quel subito che segnala il rifiuto delle mediazioni della politica, l'impazienza nello slogan del movimento delle donne del 13 febbraio "Se non ora, quando?" o "Il nostro tempo è adesso" del 9 aprile. Democrazia reale (o sostanziale) è quella promessa nella nostra Costituzione nell’articolo 3, secondo comma, che dopo l’affermazione dell’eguaglianza giuridica (formale) chiede alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva partecipazione dei cittadini o che nell’articolo 4 chiede che sia effettivo il diritto al lavoro. Promesse radicali e disattese di una Costituzione disarmata.
Mi chiedo se fra gli indignados la critica alla finanza, accompagnata al silenzio sull’industria e sugli industriali, non sia espressione di ingenuità giovanile ovvero di un pensiero ingenuo che rispetta quello che si tocca – l’industria – e non comprende l’immateriale e la finanza (opera del diavolo?) E poi si noti il dilemma sul voto. Sostenere il partito socialista meno ostile al movimento ma considerato responsabile del disastro economico o i conservatori del partito popolare? Nessuno dei due. Non si vota nessuno oppure, in una visione di un bipolarismo fatto di avversari complici - – variante originale – si votano i partiti minori meno responsabili del disastro.
Vincerà il movimento? Cosa otterrà? Non credo che basterà sloggiare la Casa reale o abbattere i costi della politica o tassare la finanza perché sia offerto un futuro ai giovani. E non so se la creatività giovanile potrà essere soddisfatta da progetti di pragmatico compromesso fra istanze di sviluppo e di sicurezza nel segno della flexsecurity. “Se non ci farete sognare, non vi faremo dormire” minacciano gli indignados. Se non si tratta di mero esercizio espressivo, ragionando sul significato di “Democrazia reale”, credo che il movimento si imbatterà in un’utopia chiamata “socialismo”. Potranno analizzare il significato delle sue sconfitte e immaginare varianti, potranno cambiargli nome, ma lì arriveranno. Oppure torneranno indietro.

domenica 15 maggio 2011

Io, alieno come i posteri

Io, alieno come i posteri
Sono su una spiaggia di Ostia. Mia moglie riceve un sms. Non ha gli occhiali per leggerlo. Lo leggo io, a mente. Vi è scritto:"Gardland è file continue e sole. Luigi si diverte molto" Lo rileggo e non riesco a capirlo. Leggo a voce alta: “Gardland è fail continue e sole. Luigi si diverte molto”. Capisco il sole e capisco che Luigi, mio nipote, si diverte molto. Non capisco - e lo dico - cosa c‘entri l’informatica, il file e in che senso il file sia “continue”. E poi in inglese l’aggettivo non viene prima del sostantivo? Possibile che mia figlia non sappia che dovrebbe scrivere ”continue file”? Per fortuna mia moglie trova gli occhiali e legge: “Gardland è file continue e sole”. Che c’è di strano? Dove hai letto fail? Per inciso mia moglie è lontana dall'informatica e dai suoi linguaggi e questo - mi consolo - è il suo vantaggio su di me nella circostanza. L’incidente si chiude fra l’ilarità degli amici attorno e la mia perplessità su tante cose, compresa la mia intelligenza e lo stato delle mie arterie.
Poi, nello sforzo di trovare significati, penso all’incontro con il senatore PD Roberto Della Seta di venerdì scorso, nel circolo territoriale dei democratici di Ostia levante, sul tema del nucleare. Penso ad alcune sue parole, a proposito del problema scorie, parole sommesse, come messe fra parentesi, col sottinteso “è difficile spiegare; conviene parlarne”?
“Scienziati, filosofi, linguisti – dice - si stanno impegnando per trasmettere ai posteri informazioni non equivoche sul significato di “scorie radioattive” e sulla loro localizzazione.
Dopo il mio incidente sul “file” il problema mi è più chiaro. Io, alieno, su altra piattaforma comunicativa, ignorante, come potrebbero essere i posteri cui consegneremo i nostri veleni.

venerdì 29 aprile 2011

Un filosofo in ogni azienda, ma gli studenti non lo sanno

Ho partecipato ieri a un incontro sul tema “Un filosofo in ogni azienda” presso l’Università Roma Tre. Relatori erano i protagonisti di una esperienza formativa/lavorativa realizzata, oltre che da Roma Tre e dalla Sapienza (facoltà di lettere e filosofia), da Epistematica, società di servizi di knowledge management alle imprese. In breve la società sostiene le aziende interessate a formalizzare e archiviare il patrimonio di conoscenze possedute affinché non siano disperse e ne sia socializzata e ottimizzata la fruizione. Dopo essersi naturalmente dotata di competenze informatiche, Epistematica ha compreso il bisogno di una competenza diversa che mettesse in comunicazione e unificasse i linguaggi multidisciplinari prima di immetterli nel calcolatore. La competenza è stata individuata nella filosofia e nella logica filosofica. E l’Università ha completato la preparazione filosofica di base, “curvandola” al compito previsto, con un tirocinio rivolto a laureati specialistici di filosofia. Attualmente Epistematica collabora, ad esempio, con l’Ente Spaziale Europeo cui fornisce strumenti logico-filosofici-informatici.
La filosofia in azienda non è una novità assoluta. E’ presente da qualche tempo, in competizione con sociologia o psicologia delle organizzazioni, nella forma di consulenza filosofica per chiarire e sostenere le motivazioni aziendali, in particolare dei dirigenti. Su questo cerco di esprimere il mio favore e la mia perplessità. Il mio favore riguarda la giusta intuizione che il clima aziendale, i valori e le credenze di proprietari, dirigenti e operatori siano decisive quanto e più di una battaglia vinta con la concorrenza o con il sindacato. La mia perplessità riguarda invece il rischio che vedo concreto della inefficacia pratica di molte “consulenze”, della ritualizzazione della formazione e consulenza con formule seduttive, della ricerca snob in talune aziende di atteggiamenti “colti” e innovatori. Su questo avevo e conservo una riserva critica. Altra diffidenza riguarda quello che a mio avviso è il risultato di spinte “corporative” contrapposte che stabiliscono gratuiti steccati fra albi e discipline (psicologi, sociologi, filosofi, appunto) e inibiscono l’ottimale collocazione delle competenze.
Più pienamente convinto sono sugli esiti di altre esperienze filosofiche non consuete come Philosophy for children, pratica non nuova eppur poco diffusa, intenzionata a fornire ai giovanissimi strumenti concettuali indebitamente sequestrati dai licei e dalle facoltà universitarie. Ragionevolmente convinto sono stato altresì dall’esperienza incontrata ieri a Roma Tre.
Questa è la prima parte della mia riflessione sulla giornata di ieri. La seconda è solo apparentemente più marginale. Ho impiegato mezz’ora a trovare nella facoltà di filosofia di Roma Tre l’indicata sala delle conferenze. Non era presente nella segnaletica. Non era conosciuta dai diversi studenti interrogati né dal personale incontrato. Non era l’aula magna verso cui mi aveva indirizzata una studentessa, meritevole per aver cercato di reinterpretare un codice linguistico. Insomma, infine ho trovato per caso la sala conferenze, salendo e scendendo scale e girando qua e là. Questo mi ha fatto interrogare sull’orientamento degli studenti e sulla loro possibilità di fruire di spazi e opportunità. La perplessità è cresciuta entrando nella sala, accolto con grade cortesia. Non più di 20 ascoltatori. Forse un paio di studenti.
Concludo. Ero e sono convinto che – a differenza di quanto ritengono la Gelmini, Sacconi e Sallustri - non siano troppi i laureati in filosofia o in scienze della comunicazione, come, per altri aspetti, non siano troppi gli attuali docenti precari. Non basta riferirsi alla mitica domanda cui dovrebbe adeguarsi l’offerta. La qualità dell’offerta determina altresì la domanda. Se i cineasti italiani producessero più capolavori la domanda degli italiani si sposterebbe un tantino dal consumo di pizzette e gratta e vinci al consumo di film. Sono troppi filosofi, comunicatori e docenti se restano invariate le attuali opzioni politiche, le nostre scelte di vita e di consumo, se resta quella che è l’intelligenza media degli imprenditori. Sono comunque troppi se non crescono le motivazioni degli studenti, le loro capacità di orientamento, le loro capacità di autoimprenditività e marketing. E se non cresce l’investimento sociale e delle istituzioni formative nella guida e nell’orientamento continuo dei giovani. Nella sala conferenze di Roma Tre ieri non dovevano essere presenti un paio di studenti.

venerdì 15 aprile 2011

Vittorio Arrigoni: la vita degna di essere vissuta

Il mio primo pensiero è questo: spero intensamente che Vittorio Arrigoni abbia sentito prima di morire che la sua vita è stata degna di essere vissuta. E’ il pensiero che consola sua madre: lo dimostra con il suo quieto dolore, la sobrietà che non appartiene alle madri degli omicidi uccisi, perché anche i figli educano le madri. Questo è il mio modo di esprimere il mio amore per lui. Dico apposta amore perché in suo omaggio vorrei restituire significato alle passioni importanti, come il sentimento gratuito che lui ebbe per Gaza e per le sofferenze della sua gente: è giusto chiamare amore quel sentimento, più che i sentimenti che riguardano i nostri rapporti interessati con l'altro sesso o con i parenti. La sua morte adesso mi conduce a una rete contraddittoria di significati. Ho cercato velocemente su internet di ripassare qualche informazione sui suoi assassini. Ma francamente non mi attraggono molto i dettagli sui salafiti. Mi avvalgo dei miei utili pre-giudizi per arrivare all’essenziale. Sono attratto e atterrito, riscoprendo sinistre vocazioni umane, dalle analogie con altri assassinii e altri assassini, i gruppi minoritari che credono (o fingono di credere) ad una rivelazione - divina o laica che sia -riservata a pochi eletti. Penso agli assassini delle Brigate rosse (fra quelli che fingono di credere, per riempire una vita priva di amore e priva del dono dell'intelligenza) che finsero di credere di spiegare all’operaio Guidi Rossa, col suo sangue, cosa fosse la lotta di classe. Penso a un’altra vittima che conobbi fuggevolmente, ma intensamente: Ezio Tarantelli, incontrato a un seminario, uomo inequivocabilmente mite e generoso, dolcemente "imbranato" con i suoi lucidi e la lavagna luminosa.
E' il mio modo per dare un significato all'assassinio di Vittorio Arrigoni.
Un altro rimando mi suggerisce la ritualità di quegli assassinii: la ritualità delle esecuzioni di Stato in cui la macchina cieca della giustizia asetticamente uccide, in assenza di passioni, ormai spente, come accadde per Saddam.
E allora sento l'amore indignato di Lucrezio (De rerum natura, Liber I) nel ricordare il sacrificio di Ifigenia: "Tantum religio potuit suadere malorum"! A quanti orrori inducono religioni (o superstizioni), anche laiche, nella sconfitta della ragione!
Restiamo umani era l’invito di Vittorio. Diventiamo umani è la correzione che gli proporrei, oppure Torniamo animali, amputando da noi le perversioni dell’umano.

venerdì 1 aprile 2011

A volte ritornano

Oggi mi piacerebbe non avere memoria. Mi piacerebbe non aver studiato quel poco di storia d’Italia che ho studiato. Mi piacerebbe non poter trovare nella cronaca politica di questi giorni sinistre analogie con l’avvento del fascismo. Invece le trovo e mi manca il respiro. Ho sentito la Russa vantarsi del proprio “coraggio” nell’affrontare fischi e monetine lanciate dai manifestanti davanti a Montecitorio e poi aggiungere, rivolto a Franceschini e ai banchi dell’opposizione: “Voi non avreste avuto questo coraggio”. Confrontate per favore queste parole con quelle che nella seduta del 30 maggio del 1924 pronunciano i fascisti – lo squadrista Roberto Farinacci in primis – contro Giacomo Matteotti (nel suo ultimo discorso) che contesta le violenze che hanno impedito a tanti cittadini di votare nelle recenti elezioni. “Perché avete paura. Perché scappate” è l’insulto machista alla scarsa virilità dell’opposizione. E non giovò allora la replica di Filippo Turati.”Si, avevamo paura, come quando nella Sila c’erano i briganti”. * Perché penso che non giovò quella risposta che noi “radical chic” giudichiamo “colta”, nitida e tagliente ? Ho il ricordo amaro di una esperienza didattica che ebbi qualche tempo fa con un gruppo di detenuti. Un esercizio di drammatizzazione con il testo del resoconto di quella seduta del 30 maggio. Grande passione e sforzo interpretativo dei detenuti. Poi chiedo un commento sui protagonisti. Lì avviene la sorpresa. I miei allievi stanno con i fascisti. Ne condividono la veemenza, la forza, la “virilità”. Matteotti e gli oppositori sono deboli e perdenti. Non si possono ammirare. Una lezione per me indimenticabile.
Il vaffa del famigerato ministro alla Presidenza della Camera non fa temere che possa un giorno non lontano risuonare in Parlamento qualcosa di simile al mussoliniano “Io potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli”? Del resto definire le camere attuali sorde e grigie non sarebbe neanche una falsità. Perché questo è un problema. Difendere le istituzioni mentre il premier lavora a rendere gli attori che le incarnano, a partire dai parlamentari, sempre più squallidi e ricattabili si da preparare il consenso per il giorno in cui lui o il suo erede decideranno di sbarazzarsi di tutti. Cos’altro? L’insulto di un leghista, Massimo Poliedri, alla deputata, disabile, Ileana Argentin: “Handicappata di merda”. Come un pensiero troppo a lungo trattenuto e che ora si pensa di poter finalmente urlare. Non si perdono voti. Tutt’altro. Si parla alla pancia della gente, col linguaggio dei giovani disoccupati che preferiscono alle manifestazioni lo stadio dove vuoto e disperazione trovano il bersaglio del “negro” e dello “handicappato”. E poi, e poi tutto il resto che in questo periodo ci tocca registrare. Pensionati e massaie che, quando non invidiano o non ammirano, assolvono le spregiudicate pratiche erotiche del premier. “Gli piacciono le donne. Embè? Dovrebbero piacergli i gay?” Quanto lavoro ancora per il movimento delle donne del 13 febbraio sceso in piazza anche contro il machismo della sopraffazione, dell’omofobia, della tronfia stupidità.
C’è un’altra Italia, d’accordo. C’è l’Italia dell’anziana di Lampedusa che, nella sua semplicità vera, grida al premier di vergognarsi per l’esibizione di quella casa acquistata tempestivamente nell’isola (in tutto, la dodicesima?) “mentre la gente fa fatica a comprare una rosetta da 20 centesimi”. C’è un’altra Italia, ma è in difficoltà e non capisce come uscire dall’incubo mentre i suoi rappresentanti si dividono perché ognuno, come Giulio Cesare, preferisce essere primo in un villaggio che secondo a Roma.
*http://it.wikisource.org/wiki/Italia_-_30_maggio_1924,_Discorso_alla_Camera_dei_Deputati_di_denuncia_di_brogli_elettorali#cite_note-2

mercoledì 30 marzo 2011

La guerra, il dolore, il corpo, la morte degli altri

Colpita una contraerea, colpito un tank libico. Questo il linguaggio dei giornali e dei media. Efficace, direi. Quando vedo ripetutamente proposta dalle TV nazionali l’immagine di quel tank puntato dai radar e poi l’esplosione, per un momento mi dico: “Evidentemente quelli di Odissea all’alba che hanno consegnato il filmato alle TV sanno che non c’era nessuno dentro il tank”. Ora mi do dell’imbecille per essere stato per qualche attimo incantato dalle parole e dall’effetto videogame delle immagini.
So che inevitabilmente il dolore di una persona, vista in TV, con quel corpo, quel viso, quelle urla, come la donna che a Tripoli dichiara di essere stata violentata dalle milizie di Gheddafi, vale incommensurabilmente di più della morte di un anonimo libico in un tank. Perché di lui, appendice di una macchina, non sappiamo niente. E poi – ma forse è un altro discorso – pensiamo (io ci penso) che non avrà sentito nulla, non si sarà accorto dell’arrivo del missile, il suo corpo si sarà sciolto nell’impatto, senza dolore. Così a Hiroshima e Nagasaki. Quanti, duecentomila, quelli fortunati rispetto ai sopravvissuti, arsi o disintegrati dalle atomiche? In ogni modo duecentomila sono la stessa cosa che duecento, la stessa cosa che uno perché sentiamo duecentomila come un solo evento, una sola morte. Nessuna lezione, nessun rimprovero. Io, come tutti, non ho al pensiero di Hiroshima emozione paragonabile a quella provata vedendo in TV i disperati che dalle Torri gemelle di New York si lanciavano nel vuoto scegliendo di non morire fra le fiamme.
Quindi capisco che noi – occidentali - abbiamo vinto, pur perdendo noi stessi. Abbiamo vinto perché abbiamo imparato a dare una morte asettica. O, ed è la stessa cosa, abbiamo vinto perché abbiamo imparato a non chiamare morte l’annientamento dell’altro, l’incenerimento dei corpi che la nostra tecnologia ci consente. Così quietamente dominiamo (ancora per un po’) il mondo, istruiti a esorcizzare il rimorso. Il mio bravo professore di storia al liceo mi raccontava delle guerre di indipendenza e poi del colonialismo e delle ambizioni italiane per un posto al sole, etc., etc., etc. . Non ricordo una parola sull’uso da parte dei militari italiani di gas tossici sui ribelli libici. Come a un corollario penso a quanto ci sia facile accettare che seimila persone (o solo corpi) se ne stiano ammassati a Lampedusa, privi di servizi igienici e di tutto. E ci sorprendiamo a sentire che persone con la pelle più ambrata della nostra possano gridare in TV: “E’ da sette giorni che non faccio una doccia!”. Anche loro? Quali curiose pretese! Non sono figli nostri. Non dobbiamo loro l’accoglienza -caffè e pasticcini – che riserviamo ai nostri obesi vicini di casa.

venerdì 18 marzo 2011

Rapporto sul pianeta Terra

Capo Provvisorio, la mia missione è finita. Ho trascorso due giorni nel pianeta Terra. Nel primo ho guardato e ascoltato un po’ qua, un po’ là. Nel secondo mi sono concentrato sull’Italia, una penisola immersa nel Mediterraneo che ho scelto perché mi è sembrata rappresentativa di tutta la Terra.
Il riassunto che ti faccio è in una parola sola: spreco.
Lo spreco delle donne. Sulla Terra hanno una strampalata organizzazione sociale. All’inizio si comportavano più sensatamente. Le donne, essendo meno dotate di muscoli, erano esentate dalla caccia. Si occupavano dei piccoli che difendevano e nutrivano, in grotte e capanne. Ma oggi anche sulla Terra non servono più i muscoli. Gli uomini non se ne sono accorti, mi pare, e continuano a relegare le donne nei compiti meno importanti. Ne sprecano l’intelligenza e la voglia di fare che oggi, dopo secoli di lotte, le donne hanno sviluppato. In Italia, Capo Provvisorio, quasi la metà delle donne lavorano solo in famiglia, come nella preistoria. Quando poi lavorano fuori casa sommano un lavoro all’altro. Non ho capito bene perché subiscano questo dagli uomini di cui continuano ad innamorarsi. Forse in questo non sono molto intelligenti.
Lo spreco dei giovani. Benché abbiano sterminati bisogni insoddisfatti, gli umani non fanno lavorare i giovani. Molti giovani passano il tempo studiando cose per le quali non hanno nessuno interesse. Entrano annoiati e tristi a scuola e sono contenti solo quando ne escono: così naturalmente non riescono ad imparare nulla. Certo, è strano: fanno studiare loro cose che poi non useranno né nel lavoro né nella vita. Non so spiegarlo, Capo Provvisorio, ma tanti studiano ragioneria e poi fanno gli operatori ecologici o i vigili urbani; altri studiano ingegneria e poi lavorano nei call center. Dicono che i giovani acquisiscono comunque una “cultura generale”. Io non me ne sono accorto. Credo che con la “cultura generale” cerchino di giustificare l’anarchia e l’incapacità di elaborare progetti educativi sensati. Perché non insegnano direttamente questa “cultura generale” invece che sperare che venga acquisita inconsapevolmente studiando ingegneria o ragioneria? Potrebbero insegnare ai giovani come il corpo si deteriori nei riti alcolici degli happy hour o delle discoteche in cui fingono di divertirsi o potrebbero insegnare come funziona lo Stato. I figli dei ricchi frequentano scuole private che costano tanto per essere autorizzati a non studiare. E’ un cosa strana: prendono così più facilmente, senza sforzo, un pezzo di carta che si chiama diploma, che sembra sia apprezzato anche se non significa niente. In ogni caso i ricchi sono quasi sempre figli di ricchi, soprattutto in Italia. Non hanno bisogno di essere competenti e utili al prossimo per essere ricchi.
Lo spreco degli anziani. Gli umani lavorano solo per un terzo della vita: cominciano a lavorare tardi e finiscono presto, qualche volta non fanno in tempo ad imparare davvero un mestiere che vanno in pensione. Gli anziani passano giornate interminabili davanti alla TV o giocando a carte e rimpiangendo la giovinezza. A volte possiedono mestieri e saperi che scompariranno con la loro morte: li insegnerebbero anche gratis o in cambio di un abbonamento al teatro o di un sorriso se qualcuno li volesse imparare. Adesso in Italia molti sono terrorizzati perché il governo vuole che il malato vicino alla fine possa essere imprigionato in un letto fra tubi che gli entrano in gola e nel naso ed essere alimentato. Dicono che non è giusto che muoia quando voglia: deve prima soffrire. Forse succede solo in Italia perché il governo dice che così vuole un Grande Capo Non Provvisorio che sta in cielo. Non so come il governo faccia a sapere cosa voglia il Grande Capo Non Provvisorio, vista la limitatezza delle loro tecnologie di comunicazione.
Lo spreco della vita e del pianeta. Il problema principale secondo i terrestri è la mancanza di lavoro. Esattamente il contrario che da noi. Noi ci lamentiamo se dobbiamo ancora lavorare cinque minuti ogni tanto. Lì è il contrario, quando si entra nell’età lavorativa, tutti si danno da fare, imprecano, si fanno raccomandare per trovare un posto. Perché non lavorando non potrebbero nutrirsi né far nulla. La disperazione di chi non trova lavoro diventa spettacolo televisivo. Ho visto una trasmissione, “Il contratto”, in cui i capi dell’azienda scelgono il più bravo fra alcuni concorrenti. Quello conquista un lavoro “ a tempo indeterminato” che è una cosa rara e bellissima per gli umani. Chi vince piange di felicità. Chi perde piange per la disperazione. Gli spettatori si appassionano e pare che così le aziende facciano pubblicità e che questo crei nuovo lavoro. Si inventano lavori strani: continuano a fare gonne e pantaloni che buttano via appena indossati; così dicono che si crea altro lavoro. Fanno case per chi ne ha già sette o otto e che non abiterà mai. Più riempiono la terra di rifiuti più dicono che aumenta il Prodotto Interno Lordo, cioè la ricchezza e quindi – dicono – lo sviluppo e l’occupazione. Hanno inventato centrali nucleari per avere più energia e produrre oggetti che diventeranno immondizia. Ogni tanto qualcuna si guasta. Muoiono migliaia di uomini e forse un giorno moriranno tutti. Ma loro dicono che questo è il prezzo da pagare per la civiltà. Qualcuno dice anche che questi disastri – guerre, terremoti, fusioni del nucleo nelle centrali nucleari - fanno crescere il PIL perché stimolano la produzione. Per la verità, dopo un terremoto in una città dell’Italia, so che alcuni che pensavano di poter ricostruire le case abbattute ridevano contenti. Gli umani si sono indignati. Non capisco perché. E’ normale che qualcuno rida in un sistema in cui la fortuna degli uni dipende dalle disgrazie degli altri. Anche quelli che seppelliscono i morti sono contenti quando c’è una catastrofe. Eppure nel tempo alcuni uomini saggi avevano capito qualcosa. Duemilacinquecento anni fa in un posto che si chiamava Atene avevano capito la democrazia e avevano inventato l’ostracismo affinché nessun uomo fosse troppo importante e i capi fossero provvisori come da noi. Ora invece in tutta la terra i capi possono essere capi per sempre o per venti , trenta, quarant’anni e quando si cerca di sostituirli resistono fino a provocare stragi. Gli umani avevano inventato un’organizzazione sociale razionale che somiglia molto alla nostra. La chiamavano socialismo. Ma hanno guastato anche quella. Ora l’hanno buttata via e non se ne può neanche parlare. Perché gli uomini spesso buttano via il bambino con l’acqua sporca.
Capo Provvisorio, per me sono semplicemente pazzi, tutti pazzi. Tu fra poco lascerai la tua carica. Sono contento per te. Chiederò al tuo successore che non mi faccia tornare laggiù.