venerdì 30 settembre 2016

Guai a chi informa

Quello che la 7 ha documentato ieri a Piazza Pulita era per me inimmaginabile fino a ieri. Una giovane cronista ripetutamente minacciata e aggredita, insieme al cameraman. Vetri dell'auto sfondati, cinepresa distrutta. Sara Giudice, la cronista, stava indagando su traffici di rifiuti in quella Magliana resa celebre dalla famigerata banda mai veramente scomparsa. Momenti di vera paura in diretta. Poi arrivano i carabinieri. Ma - dettaglio inquietante - i malviventi continuano a fotografare la giornalista: chiaro segnale mafioso, ribadito da minacce durante la trasmissione di cui Formigli informa il pubblico in diretta. Il chiaro messaggio intimidatorio davanti alle forze dell'ordine è il segnale peggiore. Ho chiesto sulla pagina di Piazza Pulita che i cittadini siano informati dello sviluppo del caso. Penso che se nessuno pagherà sarà un segnale terrificante per il Paese Italia. P.S. In margine annoto - da a-grillino (ovvero da militante della ragione cui è capitato di votare Raggi) l'inaccettabile atteggiamento diversivo della deputata M5S in studio. "Perché parlate di questo e di quello (Pizzarotti, ad esempio) invece che di...". Quello di una informazione pluralista e soprattutto obiettiva è problema enorme. Ma certamente la soluzione non è che il M5S sia esente dal giudizio della stampa.

mercoledì 21 settembre 2016

Invece di Landini

Post per me difficile. Racconto un minuscolo pezzo della trasmissione “Di Martedì” per dire troppo. In confronti come quello di ieri fra Elsa Fornero e Maurizio Landini ci si aspetta che il popolo di sinistra stia con Landini. Anche io dovrei stare con Landini. In un certo modo ci sto. Nel senso che penso che Landini sia, per caratteristiche personali, il migliore dei leader possibili per una sinistra radicale. Almeno nell’epoca attuale. Giacché non può essere ad esempio Civati quel leader. E’ troppo dotto, troppo sobrio, troppo “borghese”. Landini invece ha le qualità giuste. Parla semplice e con passione. Anche se – pazienza- non insulta e non dice parolacce. Ed anche se non sappiamo più nulla di quella Coalizione Sociale che aveva fondata, nello spazio presunto fra sindacato e politica. Il problema è che ancora una volta scopro che la sinistra di Landini è una sinistra sindaca- difensiva, poco incline all'ideazione e non sostenibile. In trasmissione si parla di tener conto dei lavori usuranti per la data d’uscita verso la pensione. Si parla di anticipo pensionistico che costerebbe troppo a chi lo chiede. L’ex ministra del governo Monti si giustifica per le ingiustizie palesi contenute nella riforma, a partire dal dramma degli esodati, con l’unico argomento possibile, sebben discutibile: la fretta di far cassa per evitare il disastro. Fin qui tutto bene. Ma poi Landini dice quella cosa che temevo dicesse e che dice spesso il più accanito accusatore di Elsa Fornero: Salvini cioè. Che forse pensano quasi tutti. Più o meno così: “Allontanare l’età pensionabile allontana l’ingresso dei giovani nel lavoro”. Sembra lapalissiano, ma non lo è. Presuppone che il lavoro sia una torta data e che si tratti solo di dividerla per il meglio, secondo giustizia. Quelli che ne hanno già goduto abbastanza, vengano aiutati a farsi da parte per dare posto ai giovani. Sembrano cancellati i costi del pensionamento/inattività di lavoratori maturi ed abili al lavoro. Con gli stessi costi si potrebbero mantenere retribuiti ed inattivi i giovani. Oppure munirli di canna da pesca o computer e metterli al lavoro, rispondendo allo sterminato bisogno di beni e servizi. Introducendo elementi di socialismo, ovviamente. Ma Landini sceglie la via breve, più seducente e comunicabile. E più costosa. Infatti l’ex ministra, fra le più odiate nella storia patria, risponde così alla tesi di Landini: “E’ una tesi che si è mostrata fallimentare”. Vero. Io che non sto né con Landini né con Fornero penso che sia fallimentare: a) costringere all’ozio i giovani, b) costringere all’ozio pensionistico chi vuole, può e sa lavorare, c) costringere al lavoro chi è troppo stanco, d) costringere a scegliere fra un lavoro odiato e la miseria, e) non investire nella buona flessibilità da lavoro ad altro lavoro, da studio a lavoro, da lavoro a studio, etc, nella flessibilità e nella libertà socialista.

martedì 20 settembre 2016

Ciampi e gli intollerabili migliori

Ho appreso, da ex tifoso moderato di calcio e ora non tifoso di niente, che non una sola, ma tante curve, hanno riempito uno squallido week end rispondendo con oltraggi alla richiesta di un minuto di silenzio alla memoria dello scomparso Presidente Ciampi. L'ho appreso da Otto e mezzo. Dico che mai come stasera ho apprezzato il commento sobrio di Paolo Pagliaro: "Si sottragga per sempre agli stadi la celebrazione della memoria di uomini illustri". Una resa certamente, ma doverosa. La resa ad una frattura civile dolorosa. La resa a quella metà in crescita dell'Italia impotente e incattivita, quella dei social, quella delle curve di destra e sedicenti "di sinistra" unite nello scempio verso l'insopportabile provocazione esercitata dai migliori, anche da morti.

domenica 18 settembre 2016

Finirà mai l'infezione terroristica?

Una domanda forse ingenua o forse disperata. Usciremo mai dall'incubo terroristico? Come? La mia percezione è che il virus è così diffuso da essere impossibile sradicarlo. Mi vengono in mente solo poche, discutibilissime terapie. La prima è elusiva. Convivere col terrore al punto da mettere in conto di finire assassinati dai fanatici, come mettiamo in conto una malattia grave o un incidente stradale.  Se il terrorismo non ci terrorizza più di un percorso in autostrada, è morto ed ogni azione terroristica è destinata ad esaurirsi.Smettere quindi di commentare, così tenendo a bada la concausa mediatica e quindi il fascino epidemico dell'azione terroristica. La seconda varrebbe solo come terapia al terrorismo di matrice religiosa oggi prevalente. L'educazione all'ateismo. Un po' come quella che fa Charlie Hebdo. Sappiamo con quali conseguenze. Ma bisognerebbe pagarne il prezzo fino a che alla lunga...Però cristiani, ebrei ed altri reagirebbero con energia. Né comunque verrebbe vinto il nichilismo, altra matrice della pulsione di morte e del terrorismo, nichilismo di cui la religione appare antidoto. La terapia più giusta in astratto sarebbe politica. Investimenti generosi,condivisi e massicci nelle economie dei Paesi a rischio, nel presupposto che l'ingiustizia e la povertà siano all'origine della infezione della "cultura" terroristica. E qui c'è un "però" enorme. Nessun leader ha interesse ad investire nel lungo periodo, pena la perdita del consenso. Incarichi a tempo limitato affinché nessuno possa raccogliere i frutti della sua politica miope? Potrebbe essere, ma vantaggi/svantaggi sarebbero ereditati dai compagni di cordata. Chiamare al voto chi ha un lungo futuro davanti, attuali minorenni se è impossibile chiamare i nascituri? Mi fermo. Ho esaurito le mie proposte insensate. Altre non ne vedo.

sabato 17 settembre 2016

La riforma che non verrà

Forse per tutti è così. Non ci sono eventi della politica che mi sconvolgano quanto piccoli episodi della vita quotidiana. Se Salvini infierisce sulla memoria di Azeglio Ciampi, mi irrita molto naturalmente. Poi penso che politica oggi è questo: illividirsi per illividire e così ritagliarsi consenso e carriera. Faccio spallucce. In altri casi non sono neanche certo che dal peggio non possa venire il bene. Benché sia convintamente per il No, non escludo addirittura che dalla paventata vittoria del Sì potrebbe, per vie traverse, nascere il meglio. Etc. Però poc'anzi una sciocchezzuola mi ha sconvolto. Due ragazzi (13-14 anni) che sfrecciano in bici a gran velocità sul marciapiede. Quasi investono un'anziana signora. Che sobbalza e grida un rimprovero. E quelli di rimando urlano: "Che palle"! Inevitabilmente penso ad un'altra coppia di ragazzi, sullo stesso marciapiede del centro, che sere fa ho visto lanciare, dopo l'ultimo sorso, bottiglie di birra contro il muro. Immagino per sentire il suono del vetro che si frantuma. Immagino per dire coi fatti: "Della vostra città, del vostro decoro, di voi stessi, non ci frega nulla". Ecco, sento questa separazione crescente fra le generazioni, fra i nativi digitali/nativi della birra e il resto del mondo. Non sapendo proprio se mai potrà essere composta e come. Non immagino bonus o riformine/riformone salvifiche. Immagino solo una impossibile rivoluzione. Perciò non riesco a fare spallucce.

venerdì 16 settembre 2016

"Io al rogo se non ho letto Foscolo". Ovvero cosa dobbiamo per forza sapere

Natalia Aspesi raccontava l’altro giorno i risultati inattesi di un suo pronunciamento non convenzionale. Aveva scritto – in risposta ad una sua lettrice- che non ricordava niente di Foscolo. E che non aveva mai letto “A Zacinto”. Aspesi racconta di aver ricevuto valanghe di giudizi severi e di insulti dal web. Io avevo interpretato quella della nota giornalista come una confessione coraggiosa e spiazzante. Come quella, più celebre, di Fantozzi che nel cineforum dei dotti si alza per gridare: “La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”. Era da ammirare quel Fantozzi e quella Aspesi? A mio avviso sì. Lo dico benché Foscolo sia il poeta italiano che più ho amato e benché non abbia deciso di liquidare malamente “La corazzata Potemkin”. L’incidente accorso a Natalia Aspesi mi ha indotto a riflessioni su me stesso e di ordine generale. Nella mia storia personale ho ignorato più di un classico. No ho più ripreso in mano “La divina commedia”, dopo il liceo. Mi allontanò definitivamente da Dante il mio insegnante di liceo che pur aveva intenzioni opposte. Al contrario la mia professoressa al ginnasio mi fece amare Foscolo e in particolare “I sepolcri”. Sicché poi mi piacque cercare in libreria “Le grazie”, che non erano in programma e divorarle. All’Università il docente di letteratura latina mi indusse ad una passione per Lucrezio. Sicché ho scolpiti in mente versi del “De rerum natura” che mi piace spesso citare. Da Scuola e Università non ricordo altre passioni indotte verso i classici. Passioni che ricordo più spesso nascenti da occasioni extrascolastiche. Il Giulio Cesare visto al cinema (con Marlon Brando e James Mason) mi sollecitò a leggere il testo dell’opera anche in inglese e confrontare le traduzioni. E poi a leggere le altre opere di Shakespeare. Con tanti brani imparati a memoria e “recitati” davanti agli amici, con o senza lenzuolo al posto della toga. Da Shakespeare una propensione al teatro. Anche letto, perché nel teatro trovo più facilmente uno sguardo dialettico sul mondo, con opposte ragioni in conflitto, e spesso uno sguardo pietoso sulle umane presunzioni. Vedi, a proposito dell’amato Shakespeare, l’elogio emozionante di Antonio sul cadavere di Bruto, il grande antagonista. Impensabile oggi nell’era dell’odio e del web degli avvelenati. Nel mio congenito disordine so di aver letto minima parte di ciò che avrei dovuto. Penso che un giorno o l’altro leggerò “Guerra e pace”. Penso che non leggerò mai “La recherche” di cui iniziai ed abbandonai subito la lettura. Me ne faccio una ragione perché in ogni caso, per qualche aspetto, non trovo molta differenza fra leggere cento, dieci o mille capolavori. In ogni caso poco più di nulla. E poi cosa significa davvero conoscere Foscolo o conoscere “A Zacinto”? Credo che conosciamo la maggior parte delle opere che abbiamo letto più o meno come diciamo di conoscere le capitali europee su cui abbiamo posato i nostri piedi nei viaggi che, da persone di questo secolo, qualcuno o qualcosa ci dice che dobbiamo conoscere. Nel senso di metterci i piedi. Insomma non conosciamo mai nulla davvero o conosciamo minimamente, talvolta sotto qualsiasi soglia minima per cui abbia senso dire: “conosco”. Perciò sono solidale con Aspesi e sono irritato contro i finti dotti che l’hanno criticata. E c’è una conclusione, se sono fondate le mie ragioni. E’ incomprensibile ed arcaica, dommatica e priva di fondamento una scuola che prescrive di “conoscere” Dante o Foscolo o Leopardi. Un’opera e un autore sono solo punti di appoggio, come massi per attraversare un torrente. Tutti sostituibili. E tutti possiamo attraversare il torrente pur scegliendo punti di appoggio diversi. Qualcuno magari con un solo salto.

mercoledì 7 settembre 2016

Un padre, una figlia: in Romania (e in Italia)

Mi è sembrato un esercizio di neorealismo alla rumena il film, premio per la regia a Cannes 2015, di Cristian Mungiu, “ Un padre, una figlia”. Neorealista per l’attenzione ai dettagli della normalità. La normalità di un protagonista con adipe vistoso e una figlia non particolarmente attraente, la normalità di una periferia dalle case anonime, prive di ogni senso di eleganza o distinzione, compresa quella della coppia “borghese” protagonista. Una coppia che ha fatto ritorno in Romania dopo la "rivoluzione"  e la caduta di Ceausescu. Lui e lei avevano creduto in un cambiamento positivo cui contribuire, armati di cultura e di convinzioni morali. Ora quella speranza è consumata nella routine di una società senza anima e in quella del lavoro – lui medico ospedaliero, lei bibliotecaria delusa e depressa. A lui è rimasta l’evasione di un rapporto extraconiugale ed è rimasto, soprattutto, l’investimento nella figlia Eliza, brillante studentessa prossima al diploma. Nella Romania del dopo Ceausescu i manovali vanno in Italia a costruire case e strade, I “borghesi” spingono figli e figlie alla fuga. Un po’ come in Italia con camerieri improvvisati invece che muratori e i figli dell’ upper-class nelle Università straniere. Per Eliza il padre ha scelto: studierà in una Università inglese. Probabilmente non ha mai chiesto ad Eliza quanto fosse d’accordo. Un padre può non chiedere il parere di una figlia perché è sostenuto dalla terrificante buonafede che tutti e tutto assolve. “Lo faccio per lei”. “So meglio di lei ciò che le serve”.” Perché non dovrebbe essere d’accordo?”.” Sono io a sacrificarmi per lei: economicamente ed affettivamente, allontanandola da me”. Così la ricerca di un risarcimento personale si camuffa di generosità. 
Il progetto è messo in crisi però da un incidente devastante. Eliza subisce un’aggressione sessuale. Nella Romania del film che somiglia tanto all’Italia, soprattutto a quella di ieri o a quella del Sud, la differenza fra un’aggressione sessuale e uno stupro, cioè – come dire ? - un’aggressione sessuale del tutto compiuta, è differenza fondamentale che consente al padre di ridimensionare. Un po’ - credo – per ridimensionare la perdita e l’oltraggio a qualcosa che mi appartiene, mia figlia. Certamente perché l’incidente non pregiudichi il volo di Eliza, via dalla Romania, verso terre più progredite. Per conquistare la meta dell’Università ambita servirebbe che Eliza facesse un esame di diploma (Baccalaureat è il titolo originale del film) eccellente. Ma le ferite psichiche e fisiche subite rischiano di pregiudicare il progetto. E allora il padre entra in un circuito di scambi di favori illeciti da cui pensava di essere immune. Anche in questo ho guardato alla Romania dell’autore confrontandola con l’Italia che conosco. Identica nell’ottica familistica. Anche nei dettagli degli scambi illeciti. Compresa la pratica delle regalie agli infermieri da parte delle agenzie funebri. Avrebbe potuto essere una storia italiana. Tranne che per un particolare. Un regista italiano non avrebbe mai raccontato una storia così. Impensabile stupire o emozionare con una narrazione sui compromessi. Resta il dubbio quindi se la differenza sia nello sguardo “ingenuo” dell’autore rumeno o piuttosto in un retroterra etico sottostante alla società rumena, che produce conflitti fra il valore del diritto e della comunità e quello della famiglia. In Italia una figlia probabilmente sarebbe grata al padre che per lei corrompe e si fa corrompere.

martedì 6 settembre 2016

La sinistra sostenibile e la sinistra pigra

Non sempre ho voglia e coraggio di contraddire i santuari di quella che si chiama "sinistra". Non può farmi piacere essere attaccato da destra e da sinistra. Più piacevole ricevere like e condivisioni. Però a volte si affaccia il gusto di rischiare. A cosa servirei unendomi al coro degli apologeti del jobs act e della buona scuola o ai suoi numerosissimi antagonisti a sinistra? Rischio allora con l'affermazione più impopolare possibile. Chi più impopolare di Monti? A sinistra come a destra. Ieri Monti ha sostenuto che non serve più flessibilità, ma meno flessibilità e più regole. Aspetto improperi per lui dal vastissimo universo del populismo di destra e di quello sedicente di sinistra. E anche da quello governativo, naturalmente. Perché tutti, attuali o potenziali governanti di domani, in assenza di Politiche (con la maiuscola), hanno bisogno di mani libere nel deficit ("flessibilità" però suona meglio) per regalie a destra e a manca, senza nulla togliere apparentemente a nessuno. Nascondendo la polvere sotto il tappeto. Tanto i posteri (purtroppo) non votano, come diceva Ainis sull'ultimo numero dell'Espresso. Egualmente nessuno oserebbe parlare di aumentare le tasse. Io, benché lontanissimo dal suo classismo, faccio invece l'elogio del "tecnico" Monti e della sua critica alla flessibilità. Come elogiai Padoa Schioppa per il suo provocatorio "le tasse sono belle". Insomma mi piacerebbe un quadro futuro con una sinistra radicale e sostenibile contrapposta ad una destra "repubblicana" e non populista. Ci divideremmo sulle cose serie. Ad esempio sulla progressività delle imposte. Ad esempio sulle politiche per rendere del tutto effettivo il diritto al lavoro e quello all'istruzione. Ad esempio sul valore della difesa del territorio e dell'ambiente. Nessuno più a cianciare di "flessibilità" o a trovare facili capri espiatori in Europa. Nessuno più a nascondere la povertà sotto il tappeto.

domenica 4 settembre 2016

Cosa avrei dovuto dire?

Non ho avuto voglia di dire nulla. Solo poche parole di cordoglio. Fra le mie poche convinzioni c’è da sempre quella per cui nessuno esce mai da se stesso ovvero che l’indifferenza così come il piccolo e grande tornaconto personale , come la generosità “gratuita”, come l’esibizione di dedizione agli altri , sono forme diverse dell’egoismo o egocentrismo, ineliminabile negli individui delle specie viventi. Lo penso, pur distinguendo fra i diversi modi di essere egoisti. Pur apprezzando molto la generosità dei volontari e dello spirito del volontariato che rende vivibile questo mondo, in cambio “solo” di una gratificazione intima. Al di là di chi ha operato con generosità e al di là di chi ha taciuto, cosa hanno detto quelli - grandi, piccoli, politici, cittadini, praticanti fb - che hanno parlato? Ognuno ha cercato un vantaggio ovviamente. Di immagine, di potere, di consenso, di like. Quasi sempre con “strumentalizzazioni” disinvolte. Sembrando talvolta di reperire argomenti da un qualche archivio personale con materiali pronti ad ogni uso. Unico argomento serio quello più ovvio e banale della prevenzione. Banale e incontrovertibile. Sul piano dell’etica pubblica, della cura del territorio, della sicurezza abitativa. Ma gli altri? A qualcuno è parso geniale immaginare il disastro come occasione di lavoro, nell’ottica malata del consumo o della strage come terapia occupazionale. A qualcuno, preti compresi, non è parso vero trovare l’ennesimo pretesto per alimentare la guerra dei poveri, “terremotati in albergo e immigrati in tenda”, dando per scontato che nell’Italia dal patrimonio edilizio smisurato e non utilizzato non ci sia posto per tutti i diversamente sventurati. Qualcuno, politici compresi, ha pensato di risolvere tutto destinando ai terremotati il jackpot dell’enalotto. Qualcuno ha lanciato sottoscrizioni. Qualcuno ha raccolto vestiario (nuovo o vecchio). Qualcuno (ristoranti) ha ideato campagne di marketing con ticket sulla amatriciana. Qualcuno poi ha colto la succulenta occasione offerta da Charlie Hebdo per riempire di insulti l’insultante rivista satirica e – perché no? – la Francia intera. La strage come occasione dell’esibizione vanesia. Sono contento di non aver partecipato al “dibattito”. E sono contento di avere appena trovato, poco fa, conforto in una proposizione di Tommaso Cerno sull’Espresso: “Non lo facciamo con cattiveria. Siamo fatti così. Ognuno di noi, piccolo sciacallo in buona fede, scava per prendersi ciò che gli serve”.