mercoledì 20 maggio 2015

Un romano all'Expo


Romano per modo di dire:solo da 7 anni. Abbastanza per apprezzare, per differenza, Milano. Pulita, ordinata e con mobilità efficiente rispetto a Roma. Un paio di giorni a Milano per guardare qua e là e per l'Expo. Expo senza filo conduttore percepibile. Ogni Paese con tema diverso e spesso per nulla aderente al tema dell' alimentazione. Il Sudan con banchetti di prodotti artigiani (borse, ceste) e neanche un frutto o una pianta. Padiglione Cuba: chiuso. Non si sa perché. Thailandia: praticamente un manifesto al regnante. Che inaugura dighe e risolve (sembra faccia tutto da solo) questo o quel problema agricolo, in stile ventennio italiano e battaglia del grano. Il Kazakistan comincia a promuovere il suo Expo 2017 sul tema dell'energia, ma almeno non si fa cenno al suo presidente praticamente a vita. Mostra grande vitalità con splendide mele da un chilo e spettacoli multimediali da vertigine. E sobriamente ricorda (o minaccia) che avremo bisogno del suo grano e,se cercheremo prelibatezze, delle sue mele. Il Giappone ha uno spazio fra i più attrezzati e lodati. Mezz'ora di coda. Poi inquadrati in gruppi di 40. E percorsi e tempi obbligati fra una dimostrazione e l'altra. Hostess come da film visti in TV, apparentemente gentilissime con inchini e sorrisi. Però "per favore si sposti di qua, per favore fate così". Imperativi gentili che non ammettono disobbedienze e deroghe. Tutto perfetto, comprese le simulazioni digitali di come mangiare con i bastoncini. Una perfezione da incubo. Apprezzo dopo la libertà assoluta nel padiglione Usa, dove non c'è proprio niente. Ricordo Obama che dice qualcosa. E null'altro. Fra i padiglioni visitati apprezzo soprattutto quello del Brasile che inventa una grande rete su cui intrepidamente arrampicarsi per ammirare dall'alto le varietà vegetali del Paese. Si apprezza anche il tentativo di una didattica che racconta l'intreccio di cucine delle varie stratificazioni etniche. Fra i pochi che offrono qualcosa c'è il Quatar: ceci lessi in bicchieri di plastica e un dattero. Lì faccio una gaffe. Vedo un gruppo di visitatori italiani che chiede a suonatori arabi di poterli fotografare. Quelli rispondono sì, con entusiasmo. Io sto ammirando una splendida ragazza araba che offre datteri: per i miei gusti estetici, bella come può esserlo solo un'araba quando è bella. Le chiedo quindi di poterla fotografare. Debbo averla offesa, a giudicare dal no sdegnato che mi rivolge. Cos'altro? Non visito il padiglione Italia. C'è una fila da un'ora e mezza. L'addetto mi convince: "E' italiano? Non ha nulla da scoprire". Di fronte, assisto allo spettacolo di luminarie attorno all'albero della vita. Quindi una cosa colombiana da mangiare: 8 euro per un bocconcino di carne. Tutto caro, tranne le cose italiane. Aggiungo un panino italiano con S. Daniele a 2 euro e 50. Poi raggiungo, in fondo in fondo allo sterminato rettilineo, Slow food. Isolato: come in punizione, con niente dietro e niente accanto. Un paio di persone che mangiano formaggi e vini tipici, un tentativo di narrazione diversa. Siamo fatti di mais, spiegando il perché e spiegando il ruolo delle multinazionali nell'obesità che devasta il mondo degli agiati. Lo so. Infatti per tirarmi su al ritorno mi affaccio allo stand affollatissimo di Mac Donald e prendo un caffè al costo di un solo euro, la metà o meno che altrove.

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