domenica 30 novembre 2014

Art. 18 e bene comune


Federico Rampini su Donna, supplemento di Repubblica di sabato, 29 novembre, “Oggi attore, domani cameriere: così si cresce a Manhattan”, racconta del figlio che fiduciosamente transita da impiego ad impiego nella metropoli iper-competitiva degli Usa. Nessuna scuola alberghiera e nessuna scuola per attori. Preferibili i vantaggi della flessibilità e dell’inserimento e ri-posizionamento negli spazi aperti di un’offerta vasta, rispetto all’investimento in lunghi percorsi formativi dagli esiti incerti. Lo leggo come una critica implicita ai conflitti di retroguardia sull’art. 18 e cose simili. Poiché condivido Rampini, tranne le mie diverse conclusioni, domando a me stesso: “ Vado a destra? Vado a destra se non provo entusiasmo per le battaglie della CGIL e di Landini”? Non capisco se dica davvero Landini parlando di diritti da estendere e non comprimere. Diritti che prescindono da penuria e catastrofi? E non capisco, d’altra parte, cosa voglia dire il premier affermando che vuole togliere alibi alle imprese. Questo conflitto (con annessi imprenditori “eroi” , impenitenti scioperanti scioperi e manganellate) è solo per togliere alibi, sapendo che altri alibi (ma diciamo pure “ragioni” ) potranno facilmente essere trovati ? Poiché credo di pensare “a sinistra” mi chiedo –ma è una domanda retorica giacché ho già la mia risposta – se “sinistra” è credere ad un posto, sempre quello per tutta la vita. Se “sinistra” è rifiutare che le imprese evolvano seguendo la domanda e che le risorse si muovano nel globo cercando il loro impiego ottimale. Se “sinistra” è la lotta contro le delocalizzazioni per difendere lavoratori italiani contro lavoratori sloveni e domani viceversa. Se “sinistra” è credere che una indossatrice sia indossatrice per sempre e un insegnante sia insegnante per sempre, magari con qualche piccolo aggiustamento e con la mitica “formazione”. Se “sinistra” è credere che bisogna essere reintegrato in un posto di lavoro da un datore di lavoro che non ci sopporta, come da un marito prepotente da cui non possiamo separarci. A me pare che una sinistra siffatta chiede ciò che è irrealizzabile o è realizzabile a costi inaccettabili. E che chiede troppo poco. Inventarono la proprietà privata e il mercato. E gli espropriati da allora si difendono distruggendo, come i luddisti distruggevano le macchine. Perché il luddismo è insuperabile nell’ottica sindacale. Distruzione contro distruzione. Perché anche i proprietari distruggono in altro modo. Licenziando verso il rischio assoluto o il nulla della inoccupazione. O spopolando le colline, abbattendo argini e biodiversità. Ogni tanto, i più piccoli, perché i grandi non possono fallire, facendo fallimento e scegliendo il suicidio. No. Il riformismo ha spazi ristretti. Le contraddizioni non sono risolvibili con distruttivi compromessi. Si risolvono, non arrampicandosi sulla parte scivolosa, ma saltandola verso l’utopia socialista e verso il compromesso alto con proprietari (finché ci saranno) e con il mercato. L’utopia che ci vuole tutti comproprietari del mondo. Sicché ognuno si relazioni col tutto, sapendo di non essere un costo per il tutto. Il tutto, il bene comune, non può volere che siano frenate l’elettronica e i robot che risparmiano lavoro perché non sia minacciato il lavoro operaio. O che l’occupazione sia stimolata da guerre e produzione di armi. Il bene comune non può volere che mi annoi ed annoi i miei allievi insegnando perché altro non posso fare per mantenere il posto. Io, insieme al tutto, la collettività, nell’ottica del bene comune, decideremo come io non debba essere sprecato. E il bene comune non mi chiederà di andare in pensione troppo presto o troppo tardi. Il bene comune riderà a crepapelle (o ci manderà al diavolo) scoprendo che inventammo la categoria tragica degli esodati. Il bene comune semplicemente mi darà di più se lavoro fino a cent’anni e mi darà di meno se lavoro fino a cinquanta. Insomma, non è il mercato (o il capitalismo, se è possibile nominarlo) il regno della flessibilità e della libertà. E’ il bene comune il regno della flessibilità ovvero dell’evoluzione, della carriera ascendente, discendente e trasversale, della libertà massima e sostenibile. Lì, nei confini del bene comune, decideremo cosa affidare allo Stato, cosa alla cooperazione, cosa al lavoro autonomo e all’impresa privata. Attenti a che nessun sindacato, corporazione, lobby o multinazionale minacci il bene comune. Abbiamo sbagliato gravemente qualcosa nella ricetta del socialismo. Abbiamo sbagliato catastroficamente. Certamente nell’immaginare di poter sospendere la democrazia in attesa di una democrazia più alta che non poteva però essere l’obiettivo degli oligarchi ma solo l’ideologica giustificazione dell’oppressione. Tutto è stato sbagliato. Ma anche questo mondo è sbagliato e senza rimedi possibili. Altro che art. 18! Sbaglieremo ancora. Ma non c’è speranza altrove se non nel socialismo. Saremo accorti dandogli altro nome. Nell’attesa, se decidessimo di partecipare al prossimo sciopero generale contro l’abrogazione (o quasi) dell’art. 18, facciamolo pure. Sapendo di combattere una battaglia difensiva nell’interesse di alcuni, contro l’interesse - politico soprattutto – di altri cui l’aspra tenzone col sindacato dà lustro. Purché si riconquisti la consapevolezza che tutti combattiamo scaramucce di retroguardia e che, contro la pigrizia del senso comune, bisogna riattrezzare le menti a ben altre battaglie.

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