sabato 6 aprile 2019

Una causa giusta

Una causa giusta
Il cinema liberal americano è spesso didascalico. Come se fosse impegnato in una perenne battaglia, ora per i neri, ora per le donne e discriminati in genere. Lo è in "Una causa giusta", regia di Mimi Leder, storia vera di una delle prime donne laureate in legge; ad Harvard e poi alla Columbia. Erano gli anni '50 e discriminazioni e stereotipi di genere, come di razza, erano tutt'altro che superati. Nella storia Ruth Ginsburg (Felicty Jones, candidata Oscar), docente e poi membro, ancora oggi, della Corte Suprema, deve vincere la battaglia in difesa di un uomo il cui lavoro di cura non è fiscalmente riconosciuto perché tradizionalmente femminile. Insomma si difendono le ragioni di un uomo per affermare la libertà femminile e quella di ogni essere umano contro i ruoli assegnati. C'è quindi il topos di una battaglia di autoaffermazione personale e poi di lotta per il diritto, tipica del cinema americano progressista. C'è la proposta di una pedagogia della Storia: ricordiamo come eravamo e ricordiamo l'assurdo che accettavamo: così, ricordando, impariamo a mettere in discussione il presente. C'è anche il rapporto difficile madre/figlia: ricerca dell'autonomia cui segue la condivisione dei valori.
La struttura dialogica e dialettica del film, con le ragioni forti dell'establishment giuridico, mi hanno indotto ad un faticoso esercizio mentale. Mi sono chiesto per la milionesima volta cosa significhi l'eguaglianza di genere. Significa negare le differenze che vengono da lontano, fin dal vantaggio maschile nella forza fisica? Significa valorizzare le persistenti differenze, con l'inclinazione femminile ai lavori di cura e quella maschile alla guerra? Significa consentire alle donne di spegnere incendi, calarsi nei pozzi e andare in guerra? Significa solo non proibire? Quale rapporto fra eguaglianza davanti alla legge ed eguaglianza tout court? Poi ho ricevuto conferma del fatto che ancora oggi gli stereotipi condannano uomini, oltre che donne. Giorni fa la lettera di un lettore ad un giornale metteva sulla bilancia indizi di una perdurante infelicità maschile. Si riferiva, ad esempio, al dato ignorato che vede gli uomini protagonisti di 3/4 dei suicidi in Italia: soprattutto dopo il pensionamento. Già, il dominio maschile e la cultura della performance che si rivolta contro il maschio.

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