martedì 15 gennaio 2019

La Storia che viviamo e vivremo


All'inizio ci furono gli insulti. Per opporsi all'élite ovvero per dare l'impressione di opporvisi ovvero per opporsi a tutti tranne che ai padroni del mondo, si urlava “vaffa...”. Si vide che il popolo apprezzava. Era entusiasta, si sentiva liberato e faceva coro. I padroni stavano a guardare sereni. Poi furono inventati nemici a iosa: l'Europa, Bruxelles e i migranti. Tutti nemici, soprattutto gli ultimi che si disputavano con i penultimi le molliche di lauti pranzi. Tutti nemici. Tranne i padroni. Dimenticati, i padroni stavano a guardare felici, bevendo champagne. Poi si ripudiò ogni linguaggio istituzionale. I condannati non dovevano subire la pena, o tanto meno essere rieducati, ma dovevano "marcire in galera”. Gli evasori invece no. Erano condonati per fare cassa. I padroni esultavano. Poi si volle somigliare ancor più al cosiddetto popolo, oltre il linguaggio verbale. Si cominciò a fare rumorose pernacchie ai residui avversari, nemici del popolo. Ad ogni popolare pernacchia il pubblico di “Non è l'Arenai” si sbellicava dalle risa. Poi nella gara a chi era più popolare si andò oltre e contro i progressisti, Fazio, Saviano, etc. si usò un fragoroso repertorio intestinale. Giletti fingeva moderato disappunto. Poi più no, smise di fingere. Ebbe ragione di temere che il popolo non comprendesse più che fingeva. L'ipocrisia, omaggio che il vizio tributa alla virtù, era stata abrogata: richiedeva risorse culturali non più disponibili. Mentre milioni di affamati alternavano l'ipnosi delle slot machine, a "Non è la Rai" e alla caccia a qualche migliaio di neri, i padroni, rinserrati nei loro alti castelli per proteggersi dal cambiamento climatico e dal rischio di inondazioni, consumavano festanti le ultime cibarie della Terra. Poi finirono anche queste. E finalmente nel pianeta morto fu l'eguaglianza, quella che la Sinistra, indecisa su Jobs act sì o no, non seppe realizzare fra i vivi.

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